OPERA/ Alla
Scala arrivano "Die Soldaten" di Bernd Alois Zimmermann
Pubblicazione: mercoledì 14 gennaio 2015
Die Soldaten
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NEWS Musica
Dopo l’inaugurale Fidelio arriva alla Scala
un’altra opera sul tema della libertà: Die Soldaten di Bernd Alois
Zimmermann che sarà in scena dal 17 gennaio al 3 gennaio in un
allestimento coprodotto con il Festival di Salisburgo nel 2013 ed allora
recensito su questa testata.
Mentre in Fidelio il muro del carcere viene
abbattuto per dare spazio a una nuova stagione di libertà, in Die Soldaten la
costruzione di mura porta al disastro umano, politico e sociale. Ricordiamo che
Fidelio è frutto del romanticismo di inizio Ottocento, mentre Die
Soldaten è un lavoro della seconda metà degli Anni Sessanta, di un autore
tedesco che si teneva in disparte dalle mura che allora dominavo la scena
musicale europea in generale e quella del mondo di cultura germanica in
particolare.
Al debutto a Colonia nel 1965 Die Soldaten
venne acclamato come una delle più importanti opere del Novecento. Nonostante
Bernd Alois Zimmermann fosse titolare della cattedra di composizione di una
prestigiosa università, restò isolato nel mondo musicale tedesco in quanto
distinto e distante dalla cultura costruttivistica - marxista dominante a
Darmstadt, per anni il principale centro di cultura e formazione musicale in
Germania. “Arrotondava” lo stipendio universitario componendo musica da
film.
Complesso il rapporto con l’Alto. Pare che, al fronte
avesse perso la fede, ma nel 1957 compose Omnia Tempus Habet, un
grandioso oratorio, tratto dall’Ecclesiaste. Composto interamente a Roma
all’Accademia Tedesca di Villa Massimo, esprime a pieno il tormento interiore
di una intera generazione.
Tratto da un dramma in 34 quadri di Jacob Lenz
pubblicato nel 1776, ma rappresentato per la prima volta al Burgtheater di
Vienna nel 1863, Die Soldaten mostra la dissoluzione di una famiglia
borghese a Lille, città di confine e, quindi, piena di caserme e di mura , tra
fiamminghi e francesi in lotta perenne. Siamo in una fase di armistizio in uno
dei tanti conflitti dell’epoca, ma per i “soldati” se non c’è un nemico da
combattere, ci sono le donne da umiliare. In un mondo senza Dio, e
caratterizzato da mura ideologiche prima ancora che militari (le secondo sono
un effetto collaterale delle prime) si è sempre in guerra. Zimmermann (nato
nel 1918) ha passato tutta la seconda guerra mondiale al fronte orientale
(Polonia, Russia), un’esperienza lo ha traumatizzato sino a portarlo al
suicidio nel 1970 (quando era all’apice del successo).
L’opera dipinge la tragedia di Maria, brava figliola
di un commerciante, fidanzata ad un sarto, ma attratta da un ufficiale
aristocratico, ceduta da costui ad altri (sia aristocratici sia stallieri sia
soprattutto truppe affamate di donne) e portata alla prostituzione ed alle
peggiori malattie, nonostante gli sforzi del cappellano dell’esercito e della
madre di uno dei suoi amanti passeggeri di evitarle tale destino. Nel quadro
finale, dopo una guerra nucleare, sono morti tutti i protagonisti tranne Marie
e suo padre, che non la riconosce ma le da un’elemosina, mentre una voce
dall’alto intona il “Pater Noster”.
Sotto il profilo musicale, in “Die Soldaten”, a
cui Bernd Alois Zimmermann lavorò dieci anni segue una forma rigorosa
(strofa, ciaccona, toccata, ecc.) – come in Alban Berg- ma utilizza vari stili
(da Bach, a canzoni popolari, a jazz, a sequenze da un Requiem gregoriano) che
si fondono in una partitura di base dodecafonica. Il canto è portato agli
estremi delle possibilità umane pur facendo comprendere ciascuna parola (in
tedesco) in quanto note, vocali e consonanti sono plasmate in modo di essere un
tutt’uno. Un vero e proprio crollo dei ‘muri’ musicali che hanno
caratterizzato non solo il ‘Novecento storico’ ma ancor di più la seconda metà
del Ventesimo Secolo in quanto densi di caratterizzazioni ideologiche e
politiche.
Die Soltaten è di difficilissima rappresentazione
scenica: richiede tre orchestre (inizialmente Zimmelmann voleva numerosi gruppi
orchestrali in buca, in palcoscenico e tra il pubblica di platea e palchi o
galleria). Comporta una venticinquina di solisti in quasi quaranta differenti
ruoli. Tuttavia, dopo la prima a Colonia è stata ripresa a Monaco, Amburgo,
Stoccarda, Düsserdorf, Dresda, nonché nel teatro scavato nelle miniere di
carbone della Ruhr. E’ stata messa in scena al Festival di Edimburgo, alla
Opera Company di Boston , alla New York City Opera ed al New National Theatre
di Tokio. Di recente , due teatri di piccole dimensioni , l’Opera di Zurigo
(1100 posti) e la Komische Oper di Berlino (circa mille posti) mostrano come il
lavoro, concepito per un grande palcoscenico ed una grande sala , possa essere
allestito pure in teatri di taglia media ove non modesta. Ciò non vuole dire
che diventerà un lavoro ‘di repertorio’
Lo stesso Teatro alla Scala ha dovuto ripensare
profondamente l’allestimento scenico concepito per la Felsereitschule (l’antica
cavallerizza) di Salisburgo, caratterizzata da uno smisurato boccascena in cui
le varie azioni vengono, a volte, rappresentate contemporaneamente mentre nel
fondo scena dodici destrieri (con soldati ed amazzoni) fanno esercizi da
concorso ippico. A questo impianto scenico e drammaturgico di Alvis Hermanis ed
ai costumi di Eva Dessecker (non settecenteschi ma stile guerre mondiali del
Novecento) corrispondono tre grandi orchestre , una in buca e due nei lati
della cavea dirette di Ingo Metzamacher, specialista in repertorio
contemporaneo.
In buca prevalgono archi, fiati ed ottoni. Ai lati
percussioni e strumenti a corda, dando forti effetti stereofonici. L’azione è
veloce: i quattro atti sono divisi da un unico intervallo, che si sarebbe anche
potuto evitare (l’opera dura meno di due ore) per non allentare la fortissima
tensione. Impossibile citare anche solo i dodici protagonisti tra i numerosi
solisti. Tra tutti ha spiccato, a Salisburgo ed alla Scala, l’ormai milanese
Laura Aikin, un soprano americano che come poche ha saputo gestire bene la
propria voce: iniziando da parti di coloratura ed approdando alla scrittura più
impervia dove si declina il “do” in tutte le sue accezioni.
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