domenica 3 marzo 2013

Serendepità a Santa Cecilia in Formiche 3 marzo



Serendepità a Santa Cecilia

03 - 03 - 2013Giuseppe Pennisi
Serendepità a Santa Cecilia
Alcuni anni fa divenne di moda di parlare di ‘Serendipità’, un neologismo indicante la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra. Il termine deriva da Serendip, l’antico nome persiano dello Sri Lanka e venne coniato da Horace che lo usò in una lettera scritta nel 1754 al suo amico Morace Mann, un amico inglese che viveva a Firenze.
Horace Walpole fu ispirato dalla lettura della fiaba persiana “Tre prìncipi di Serendippo” di Cristoforo nel cui racconto i tre protagonisti trovano sul loro cammino una serie di indizi, che li salvano in più di un’occasione. La storia descrive le scoperte dei tre prìncipi come intuizioni dovute sì al caso, ma anche allo spirito acuto e alla loro capacità di osservazione: “È stato una volta che lessi una favoletta dal titolo ‘I tre prìncipi di Serendippo’. Quando le loro altezze viaggiavano, continuavano a fare scoperte, per accidente e per sagacia, di cose di cui non erano in cerca: per esempio, uno di loro scoprì che un cammello cieco dall’occhio destro era passato da poco per la stessa strada, dato che l’erba era stata mangiata solo sul lato sinistro, dove appariva ridotta peggio che sul destro – ora capisce la serendipità? Uno dei più ragguardevoli esempi di questa casuale sagacia (lei deve infatti notare che nessuna scoperta di cosa che si stia cercando può ricadere sotto tale descrizione) è stato quello del mio Lord Shaftesbury, il quale, capitato a pranzo dal Lord Chancellor Clarendon, si accorse del matrimonio del duca di York e di Mrs. Hyde, dal rispetto con cui la madre di quest’ultima trattava la figlia a tavola”.
Che c’entra tutto ciò con la stagione concertistica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia? Per i concerti in programma dal 2 al 5 marzo e dal 9 al 12 marzo era stata annunciata la presenza di uno dei più grandi e dei più noti maestri concertatori russi, Yuri Temirkanov. Quasi alla vigilia è giunto uno scarno comunicato in cui si annunciava che ‘Per importanti motivi di salute’ il Maestro Yuri Temirkanov non sarebbe potuto essere a Roma e sarebbe sostituito. Sabato 2 marzo, entrando in sala, ho ricevuto, come tutti gli spettatori, una lettera personale di Temirkanov in cui esprima il suo rammarico, una cortesia che pochi direttori d’orchestra della sua fama avrebbero usato.
Soprattutto la bacchetta era affidata a Olari Elts, direttore principale della Helsinki Philharmonic e della Estonian National Symphony, nonché vincitore del prestigioso Concorso Internazionale di direzione d’orchestra “Sibelius” di Helsinki, noto all’estero, principalmente, nei Paesi nordici ma al debutto con i complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
La seconda parte del concerto, ascoltato il 2 marzo (si replica il 4 ed il 5) riguardava una partitura nota: la prima sinfonia di Brahms, vasta composizione tardo romantica che ebbe la prima a Karlsruhe del 1876, che, per la sua ampiezza ed il afflato, alcuni hanno chiamato ‘decima sinfonia di Beethoven‘, molto conosciuta dal pubblica dell’Accademia di Santa Cecilia dove ritorna ogni due- tre anni. Per Elts il confronto più immediato era, oltre che con le innumerevoli edizioni discografiche, con le esecuzioni, sempre alla Sala Santa Cecilia, di Bychkov (2011) e Pappano (2008). Raffronto che è andato benissimo, soprattutto nell’ ‘Adagio ‘ in cui, con maggiore tenerezza dei suoi più immediati predecessori nel medesimo auditorium, Elts ha dato all’orchestra una tinta molto intima, specialmente quando ha messo in campo l’assolo del violino. Quindi, l’’Allegro ma non troppo. Con brio’ è parso ancora più giustapposto all’ ‘Adagio’. Eravamo, come i principi della fiaba, sulla via di Termikanov ed abbiamo scoperto Elts, che speriamo di riascoltare presto a Roma.
La vera ‘serendipità’ è stata la prima parte del concerto: due composizioni religiose per grande orchestra e coro – il ‘Te Deum per l’Imperatrice Maria Teresa ‘ di Franz Joseph Haydn (lavoro raro eseguito solo due volte a Roma dal lontano 1800) e ‘ Dixi ‘ del compositore georgiano Giya Kancheli (composto del 2009 ed ora in prima assoluta in Italia). Due composizioni molto differenti per durata (dieci minuti la prima, 23 la seconda) e stile. Il ‘Te Deum’ di Haydn è musica di grandiosa celebrazione imperiale più vicina al Settecento che all’Ottocento. ‘Dixi’ ha un testo in latino di ‘frasi fatte ‘entrate, in tutte le lingue nel linguaggio comune (‘Signo Temporis’, ‘Mortous Piango’, ‘ Sine Ira ni Studio’ e così via) di cui sono alcune sono tratte dalla liturgia. Il settantottenne Kancheli che, sino al 1991 (quando in Georgia imperava ed imperversava il ‘ socialismo reale’) ha trovato nella Fede l’antidoto al comunismo e la esprime con il linguaggio che ricorda le grandi preci corali nelle due maggiori opere di Mussrgsky piuttosto che il minimalismo sacro di Arvo Pärt con cui si avverte comunque un nesso sia nella frammentazione della partitura sia nei momenti corali in pianissimo prima della grandiosa esplosione finale. Kancheli vive da anni ad Anversa. Shcedrin, uno dei compositori russi viventi più eseguiti in Occidente, ne parla come di un ‘asceta con il temperamento di un Vesuvio represso’. Grazie alla ‘serendipità’ ed all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia che ce lo hanno fatto scoprire.

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