IL CASO/ 1. Imprese, l’Italia si fa ancora "fregare" da Francia e Germania
lunedì 4 marzo 2013
Ove la politica economica del Governo Monti dovesse essere valutata sulla
base dei risultati quantizzati per il 2012 (in pratica l’anno in cui ha avuto
le redini per indirizzare l’economia del Paese), l’esito non potrebbe essere
che una bocciatura. Giovedì scorso, il Centro Studi Confindustria ha
sottolineato che l’economia reale è caduta a picco con 13 indicatori su 16 in
flessione nell’arco di 12 mesi. Venerdì l’Istat ha certificato che il numero
dei disoccupati sfiora i tre milioni e che il tasso di coloro che tra i 18-24
anni cerca lavoro senza trovarlo viaggia verso il 40% (una situazione esplosiva
come in Spagna e in Grecia). Sempre venerdì, il ministero dell’Economia e delle
Finanze ha documentato, nel proprio consuntivo, che nel 2012 appena trascorso
lo stock del debito pubblico rispetto al Pil è aumentato dal 120% al 127% (a
cui aggiungere un 6% di debiti delle pubbliche amministrazione nei confronti di
imprese, di individui e di famiglie).
Sarebbe errato attribuire questi esiti al Governo ora in carica per “gli
affari correnti”, dato che i risultati di una politica economica richiedono
tempo per manifestarsi. A una lettura veloce, però, pare che non si sia né
“messa in sicurezza” la finanza pubblica italiana, né avviata la strada della
ripresa. A un’analisi controfattuale, si potrebbe dire che ove non ci fosse
stata una discontinuità nell’inverno 2011, il quadro sarebbe ancora peggiore -
tesi a cui, naturalmente, si oppone il Pdl, con una raffica di dati e analisi
che da un anno presenta quasi quotidianamente Renato Brunetta, economista prima
di entrare in politica attiva.
È da questo quadro (non certo da stare allegri), che occorre partire per
individuare le vie della ripresa come intendiamo fare nella settimane che ci
separano dalla formazione del Governo e dalla definizione del suo programma. Le
esigenze sono numerose: dal rafforzamento del capitale umano e della rete di
sicurezza sociale all’eliminazione degli sprechi nella finanza pubblica e al
ribasso del costo della politica, dalle infrastrutture fisiche alle reti.
Tuttavia,
è evidente che in un Paese manifatturiero come l’Italia (ancora, nonostante la
crisi, secondo produttore industriale dell’Unione europea), l’attenzione deve
essere rivolta prioritariamente all’industria manifatturiera. Non dobbiamo
chiudere occhi e orecchie di fronte al fatto che la locuzione stessa “politica
industriale” non esiste nel dizionario comunitario e che, secondo alcune
analisi, l’Italia delle Piccole e medie imprese starebbe resistendo bene alla
crisi. Il fatto è che nell’Ue non si fa “politica industriale” poiché la
concorrenza (del cui portafoglio è stato per tanti anni titolare Mario Monti)
sarebbe lo strumento per la crescita di un manifatturiero produttivo e
competitivo; ma non bisogna dimenticare che in Francia e Germania, i due
maggiori Paesi Ue, viene esplicitamente fatta politica industriale
indirizzando, tramite la mano pubblica, imprese verso l’aumento di dimensioni,
l’innovazione e l’internazionalizzazione. La “buona salute” dei “distretti di piccole
e medie imprese”, quindi, appartiene più alla poesia che alla realtà, come
documentato non solo dai dati Confindustria, ma anche da quelli, ancora più
incisivi, del centro studi Met.
L’ultimo
rapporto Met (“Crisi Industriale e Crisi Fiscale”, a cura di Raffaele Brancati,
Donzelli editore) presenta infatti elaborazioni, analisi e quantificazioni su
dati accuratamente raccolti, per le politiche attuate e per le variazioni della
normativa fiscale. Una larga sezione è dedicata alla domanda di policy, ovvero
all’evoluzione della struttura produttiva industriale negli anni della crisi.
Il sistema produttivo è analizzato attraverso molte elaborazioni sui risultati
di un’indagine campionaria (25.000 casi in
ciascun anno - molto più vasto del campione di 4.000 casi utilizzato dalla
Banca d’Italia) realizzata nel 2008, 2009 e 2011. Vengono approfonditi i temi
dell’evoluzione della situazione e delle strategie delle imprese tra il 2008 e
la fine del 2011, con l’evidenza delle criticità, della domanda di policy e,
soprattutto, delle reazioni da parte degli operatori più dinamici. Ulteriori
approfondimenti sono dedicati agli effetti dei vincoli finanziari e alla
presenza di reti e filiere.
Il
senso del lavoro è quello di offrire riflessioni analitiche sui due aspetti,
molto complessi da affrontare, cercando di produrre informazioni analitiche ed
elementi conoscitivi addizionali rispetto al panorama disponibile. Il documento
presenta un esame dettagliato della struttura produttiva industriale e dei
servizi alla produzione (settori fondamentali per la competitività
internazionale) e sulla specificazione e quantificazione dei flussi della
politica italiana nei confronti di questi stessi settori.
La
convinzione profonda che guida il lavoro è la pochezza del valore conoscitivo
dei dati medi in un Paese caratterizzato dalla convivenza stretta tra
eccellenze straordinarie e diffuse inefficienze, da un lato, e dalla necessità
di ragionare su numeri adeguati e corretti, dall’altro. La stessa opportunità
di approfondire i caratteri dell’eterogeneità che è presente nel nostro sistema
sembra essere una considerazione diffusa che trova i suoi limiti nella
disponibilità di dati qualitativamente accettabili e aggiornati.
Il
libro presenta due sezioni di studio: una dedicata all’offerta di aiuti di
Stato e alla politica tributaria per le imprese, i due fenomeni principali
attraverso cui si è realizzata, nella recente esperienza, la politica
industriale nazionale esplicita, e una dedicata alla “domanda” di policy da
parte delle imprese rappresentata attraverso l’identificazione delle criticità
e delle caratteristiche di base degli operatori. L’analisi della domanda, a sua
volta, si articola in quattro sezioni: una descrizione originale basata sulla
vasta indagine Met condotta con cadenza biennale sulla struttura produttiva
italiana (industria e servizi alla produzione), alcuni approfondimenti sulla
distribuzione dei fenomeni e sulle tipologie caratterizzanti delle imprese, due
studi di caso sugli effetti dei vincoli finanziari sull’attività innovativa e
sul ruolo di reti e filiere nel contesto internazionale e, infine, un capitolo
metodologico in cui si descrive con dovizia di particolari logica, prassi e
metodo dell’indagine.
Quali
le conclusioni? Dopo anni in cui si è ciurlato nel manico in controversie tra
Stato e Regioni in merito al “pasticciaccio brutto” su chi ha titolo a quale
tassello di politica industriale in base al Titolo V della Costituzione quale
rinnovato caoticamente nel 2001, occorre incoraggiare le imprese ad adottare il
binomio dell’innovazione e della globalizzazione, l’unico che promette
successo.
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