I Due
Foscari. Herzog e il dramma senza dramma
Giuseppe Verdi secondo Herzog. Il
grande regista tedesco è a Roma per la messa in scena della tragedia romantica.
Artribune ha scambiato due parole con l’autore, e vi racconta la sua versione.
Scritto da Giuseppe
Pennisi | giovedì, 14 marzo 2013 · Lascia un commento
Giuseppe Verdi – I Due Foscari – regia di Werner Herzog
Werner Herzog è a Roma per la messa in scena de I Due Foscari
di Giuseppe Verdi. Tutte le regie liriche (circa una dozzina) del grande
regista cinematografico (autore di più di cinquantina di film tra fiction e
documentari) rivelano un carattere visionario. Anche quando seguono canoni
tradizionali, non sono mai realistiche o naturalistiche. Filtrano l’azione
scenica attraverso occhiali che esprimono impressioni, sentimenti e riflessioni
interiori. Dopo aver assistito a Doktor Faust di Busoni a Bologna nel
1986, Giovanna d’Arco di Verdi sempre a Bologna nel 1989, La Donna
del Lago alla Scala nel 1992, Tannhäuser di Wagner a Palermo nel
2000, ora è la volta di I Due Foscari.
Prima di esaminare questa sua ultima fatica, abbiamo modo di scambiare qualche idea con lui. “Ascolto quasi sempre musica quando lavoro, ma vado raramente all’opera”, ci dice Herzog. “La musica si traduce in mie visioni interiori tanto che le volte che ho messo piede in un teatro lirico queste visioni si sono scontrate con l’interpretazione altrui sul palcoscenico: quindi non apprezzo adeguatamente lo spettacolo. La mia visione si scontra con quella di regista, scenografo, costumista, light designer…”.
Le opere liriche messe in scena da Herzog sono caratterizzate da una scarsa azione drammatica, “sono quelle che”, precisa, “meglio consentono di esprimere la visione drammatica interiore innescata dalla musica”. Non è un caso che Doktor Faust e Giovanna d’Arco fossero composti come grandi tableaux vivants con colori sgargianti.
I Due Foscari è in assoluto l’opera più breve di Verdi. Appartiene alla categorie di drammi in musica senza una vera azione. “È tratta da una tragedia di Byron, grande poeta ma povero drammaturgo”, spiega il regista. Byron, però, non intendeva che la sua tragedia venisse messa in scena. Al pari di quelle manzoniane e alfieriane, la tragedia era destinata alla lettura (e alla meditazione) non alla rappresentazione. Né il libretto di Piave né la tragedia di Byron illustrano il contesto storico-politico. Ai lettori di Byron, però, veniva offerta una prefazione che contestualizzava la tragedia.
Prima di esaminare questa sua ultima fatica, abbiamo modo di scambiare qualche idea con lui. “Ascolto quasi sempre musica quando lavoro, ma vado raramente all’opera”, ci dice Herzog. “La musica si traduce in mie visioni interiori tanto che le volte che ho messo piede in un teatro lirico queste visioni si sono scontrate con l’interpretazione altrui sul palcoscenico: quindi non apprezzo adeguatamente lo spettacolo. La mia visione si scontra con quella di regista, scenografo, costumista, light designer…”.
Le opere liriche messe in scena da Herzog sono caratterizzate da una scarsa azione drammatica, “sono quelle che”, precisa, “meglio consentono di esprimere la visione drammatica interiore innescata dalla musica”. Non è un caso che Doktor Faust e Giovanna d’Arco fossero composti come grandi tableaux vivants con colori sgargianti.
I Due Foscari è in assoluto l’opera più breve di Verdi. Appartiene alla categorie di drammi in musica senza una vera azione. “È tratta da una tragedia di Byron, grande poeta ma povero drammaturgo”, spiega il regista. Byron, però, non intendeva che la sua tragedia venisse messa in scena. Al pari di quelle manzoniane e alfieriane, la tragedia era destinata alla lettura (e alla meditazione) non alla rappresentazione. Né il libretto di Piave né la tragedia di Byron illustrano il contesto storico-politico. Ai lettori di Byron, però, veniva offerta una prefazione che contestualizzava la tragedia.
Giuseppe Verdi – I Due Foscari – regia di Werner Herzog
La vicenda. Nel Quindicesimo Secolo, le famiglie Foscari e Loredan si
contendono Venezia. Francesco Foscari riesce a farsi eleggere Doge per 35 anni,
mentre Loredan presiede il Consiglio dei Dieci, ossia il tribunale supremo.
Foscari ha avuto dieci figli – cinque maschi e cinque femmine. Dei maschi,
quattro muoiono in fasce, da qui il forte affetto che Francesco nutre Jacopo,
l’unico possibile erede. All’apertura del sipario, Jacopo è accusato di tradimento
e di omicidio e viene processato dal Consiglio dei Dieci. Il giovane si
proclama innocente, ma il tribunale lo condanna all’esilio, ponendo anche fine
alla dinastia. Francesco disperato per la perdita e del figlio e del ruolo
abdica e muore. Storici recenti attestano l’esistenza di lettere tra Jacopo e
gli Sforza di Milano, acerrimi nemici della Repubblica Veneta, ma anche con
Maometto Secondo che aveva mire sulla Dalmazia. Si ritiene inoltre che, in un
duello in una calle, Jacopo abbia ucciso ‘un famiglio’ dei Loredan (sebbene non
è dato sapere chi per primo avesse sfoderato la spada). Il lavoro è imperniato
più che su queste vicende sul tormento paterno per la perdita dell’unico figlio
rimastogli più che su quello della moglie di Jacopo, Lucrezia Contarini. In
scena non avviene nulla o quasi. Tutto accade prima che si alzi il sipario e i
fatti di rilievo dei tre atti si verificano, in gran misura, dietro le quinte.
L’opera ha tre personaggi principali e segue per lo più le regole dell’unità
aristotelica (tutto in un giorno, nel Palazzo Ducale e dintorni). Anche lo
sviluppo psicologico dei protagonisti è limitato. Come risolve Herzog questo
dramma senza dramma? Ancora una volta, ci presenta una Venezia visionaria,
invernale, con giacchi che dalla laguna entrano nelle prigioni e nei saloni del
Palazzo. Fuori, un cielo plumbeo si alterna ai fiocchi neve mentre l’azione si
base su una recitazione accurata.
Giuseppe Verdi – I Due Foscari – regia di Werner Herzog
Un cenno alla parte musicale. I Due Foscari è un lavoro, da un lato,
agganciato ancora al melodramma donizettiano con arie da virtuosi e,
dall’altro, rivolto alla fine dell’Ottocento, con enfasi sul declamato,
sul continuo orchestrale denso di mezze tinte. Riccardo Muti evidenzia
l’equilibrio nella strumentazione e i colori smorti nell’armonia, impiegata
prevalentemente nella tonalità bemolle. Nello spettacolo, primeggiano le voci:
Luca Salsi nelle due arie del Doge Francesco in cui la melodia è radicata in
una realtà tragica, Francesco Meli (Jacopo) nelle due arie spinte in cui
sfoggia una vocalità generosa e Tatiana Serjan (Lucrezia) nell’impervia coloratura
drammatica.
Giuseppe Pennisi
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