“Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizzetti è una delle opere più amate dal pubblico. E’ una delle più rappresentate non solo dai principali teatri lirici ma anche da compagnie a volte improvvisate. A Roma, non approdava alle Terme di Caracalla (sede estiva del Teatro dell’Opera) da circa 22 anni. E’ stata, però, vista almeno un paio di volte al Costanzi e non si contano, però, le edizioni “minori” in teatri di piccole dimensioni (e con organici ristretti) nonché nelle due principali Chiese anglicane – quella di Via Nazionale e quella di Via del Babbuino – dove vengono allestiti palcoscenici di fortuna.
Tratta da uno dei romanzi storico- romantici dello scozzese Walter Scott, di cui La Pléiade ha pubblicato sei anni fa la collezione integrale (anche se in Italia è noto solo per le edizioni holliwoodiane e televisive di “Ivanohe”), “Lucia” rappresenta un anello di transizione essenziale dal melodramma di inizio Ottocento a quello verdiano. Da un lato, l’orchestra evoca l’atmosfera delle brume scozzesi in un notturno quasi infinito (al pari di quanto avviene nel capolavoro rossiniano ispirato ad un altro lavoro di Scott, “La donna del lago”). Da un altro, le parti vocali richiedono grande maestria: vennero scritte per Gilbert-Louis Duprez, il tenore che ha inventato il “do di petto”, Fanny Persiano, un soprano, al tempo stesso, dalla vocalità leggera e dalla coloratura raffinatissima, e Domenico Coselli, baritono agilissimo.
Portare “Lucia” sui palcoscenici “grandi” rappresenta una sfida per una ragione specifica connessa alla “tradizione” italiana. Nelle edizioni in circolazione dalla seconda metà dell’Ottocento vengono operati tagli copiosi (quasi un terzo della partitura), principalmente nei ruoli maschili; la vocalità della protagonista viene portata a soprano drammatico. I tagli hanno l’effetto di imperniare tutta l’opera su Lucia, dimenticando che si svolgono due azioni parallele: una tra i quattro uomini (Edgardo, Enrico, Arturo e Raimondo) e l’altra tra l’aspro mondo maschile (dove le fanciulle, pure le sorelle, sono oggetto di compravendita) e quello della fragile Lucia, tanto debole da diventare assassina e pazza non appena l’uomo a cui è stata venduta (Arturo) si abbassa i pantaloni per avere ciò che ha pagato. La “Lucia” tagliata della “tradizione” è un romanzetto romantico, invece del doppio dramma parallelo.
Circa dieci anni fa, Zubin Mehta e Graham Vick portarono una “Lucia” quasi integrale al Maggio Musicale Fiorentino ed al Grand Théatre di Ginevra. Operazione coraggiosa che a Firenze, però, non venne approvata dal pubblico. Lo spettacolo ha avuto, invece, grande successo al Costanzi di Roma ed in altri teatri della Penisola . La regia tersa di Vick dà rilievo al dramma nel mondo maschile e al forte contrasto tra questo mondo e quello della povera Lucia. Intelligente la scena fissa di Paul Brown; un grigio quasi soffocante interrotto da cespugli rosa delicati quanto Lucia, nonché da una splendida enorme luna che, colma di speranza, irradia un mondo in cui speranza più non c’è . Un allestimento in breve da riferimento, nonostante la bacchetta di Daniel Oren mantenesse con tutti i consueti tagli e forse (ad un orecchio raffinato) anche qualcuno di più.
Viene quasi spontaneo raffrontare l’edizione Mehta-Vick con quella in visione in questi giorni alle Terme di Caracalla. Il lugubre impianto scenico di Andrea Giorgi è rudimentale. Il programma di sala afferma che c’è una regia ed è affidata a Pier Luigi Maestrini (di solito agganciato alla tradizione): non se ne è accorto nessuno dato che i cantanti vagavano nell’enorme palcoscenico senza chiara direzione che quella di fermarsi sul boccascena ad intonare arie (come negli Anni 20). Antonello Allemandi mantiene tutti i tagli e ne aggiunge altri (tra cui l’intera scena della torre); inoltre, ci va duro, pesante, ignorando la delicatezza della scrittura musica.
Un disastro da evitare? Nulla affatto. Da correre ad ascoltare a ragione del vero e proprio splendore dalla vocalità. Annick Massis è uno dei soprani lirici puri (in senso tecnico) migliori sulla scena mondiale: è arrivata al belcanto belliniano ed al melodramma donizettiano e verdiano, partendo dal barocco. Ci aveva incantato in “Traviata” a Bologna ed in “Lucio Silla” a Venezia. Ci ha sedotto in Lucia. Giovane ed attraente, presenta una Lucia che conquista il pubblico e gli specialisti sin dall’aria di apertura e dal duetto del primo atto per trionfare nella scena della pazzia. Si è meritata ovazioni a scena aperta. Stefano Secco (Edgardo) è giunto a piena maturità (dopo anni in circuiti secondari): è un tenore lirico spinto, duttile nei passaggi a “mezza voce” ma in grado di ascendere a tonalità alte ed a discendervi con grande perizia . Roberto Frontali e Giovanni Meoni si alternano nel ruolo di Enrico e mostrano come i baritoni donizettiani avessero fatto molta strada verso l’impostazione che, pochi lustri più tardi, avrebbero avuto i baritoni verdiani. Mantenendo al tempo stesso una maggiore agilità (dei verdiani) Voci, quindi, a cui l’Opera di Roma deve dare l’opportunità di risplendere nella stagione invernale, in un’edizione che riapra gli eccessivi “tagli di tradizione”, abbia una concertazione più delicata dell’attuale, una regia efficace ed un impianto scenico di livello.
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