domenica 27 luglio 2008

PATTI TERRITORIALI, IMPRESE E VOLONTARIATO PER RILANCIARE LA SCUOLA CON LE FONDAZIONI, Libero 26 luglio

“La migliore istruzione che il denaro non può comprare” è da 150 anni il motto di un piccolo, sperduto, College nel Kentucky, il Berea College. Terminati gli esami di maturità (e in gran misura anche quelli universitari e le discussioni delle tesi di laurea), completate le procedure d’iscrizione al prossimo anno, agosto è un mese di relativa tranquillità pure sul fronte sindacale (di solito particolarmente agitato nei comparti della scuola e dell’università). E’ il mese in cui la giovane e dinamica Ministro, Mariastella Gelmini, può mettere a fuoco quelle due –tre cose essenziali da lanciare in settembre e dare il tono al dicastero di cui è responsabile.

In base alla mia esperienza in Banca Mondiale (dove per dieci anni ho lavorato sui problemi della scuola, della formazione e delle università) e grazie alla successiva collaborazione al “Rapporto mondiale sulla scuola” dell’Unesco (sino a quando una dozzina d’anni fa, venne dismesso), ho la presunzione di potere dare qualche piccolo suggerimento su un tema così vasto da interessare non solo tutte le famiglie ma anche le imprese. Lo ricorda uno studio internazionale (Nber Working Paper No. W14108) appena pubblicato negli Usa e disponibile on line: esaminando la contabilità dettagliata di un campione d’imprese italiane, l’analisi conclude che gli “intangibili” (di cui in primo luogo il capitale umano) sono importanti almeno quando il capitale fisico come determinanti di produttività e competitività. In parallelo, uno studio della Banca d’Italia diramato in questi giorni (l’Occasional Paper n. 14) scava nelle differenze d’apprendimento tra le regioni – c’è stato un ampio dibattito poco più di un anno fa in base alle risultanze del progetto internazionale PISA ; spiegano in gran misura le differenze di produttività e di competitività – quindi, il differenziale di sviluppo.

Torniamo al motto del Berea College (tanto più importante poiché siamo in un periodo di restrizioni finanziarie molto severe ed è probabile che ci resteremo per il resto della legislatura). Il College è stato creato per dare istruzione d’alta qualità (ai livelli di quelli dell’Ivy League – le più prestigiose università private Usa) a “schiavi liberati” e “poveri bianchi delle montagne” (così dice ancora il suo statuto). In pratica, accetta studenti unicamente da famiglie a basso reddito ma con buoni risultati alle scuole secondarie e con tanta voglia di imparare). Offre un’istruzione rigorosa ma “no frills” (senza i lussi che caratterizzano altre università): non c’è un campo di calcio di dimensioni regolamentari (ed ovviamente nessuno si è sognato di costruire una piscina), i dormitori sono separati per genere (maschi in un caseggiato; ragazze in un’altra), nei bagni e nelle docce c’è solo acqua fredda. Inoltre gli studenti devono dedicare dieci ore la settimana nei laboratori (si costruiscono mobili) e nell’azienda agricola del College. Un regime troppo severo? Il blasonato Amherst College nel Massachussetts pensa di imitarlo. Pure dalla lontana Australia, un saggio apparso sul numero del marzo scorso dell’Austrialian Economic Review sostiene la medesima ipotesi. In Italia alcune università d’ispirazione cattolica (tra cui l’Università Europea di Roma) richiedono già ore obbligatorie di volontariato come pre-requisito per essere ammessi agli esami di materie accademiche o professionali. Ci potrebbero essere proteste da parte di famiglie e di giovani? Certo che no, se la proposta fosse preceduta da una campagna di comunicazione per spiegare come in questo modo di differenzierebbero nettamente i “bamboccioni” (di memoria padoa-scoppiana) e gli altri.
La campagna dovrebbe essere diretta in particolare alle Università del Mezzogiorno: il “work&study” (nel quadro di un rigoroso programma formativo) è anche uno strumento per creare occupazione autonoma ed imprenditorialità (come suggeriscono gli esiti di alcune attività di ItaliaLavoro s.p.a.), nonché per attirare partecipazione di medie imprese nelle proposte fondazioni universitarie. Se medie imprese di Regioni relativamente di piccole dimensioni come le Marche, l’Abruzzo, nonché della Sicilia e delle Puglie, sono entrate (a volte come soci) nelle fondazioni liriche locali non si vede perché non possano entrare in fondazioni universitarie specialmente se offrono un’istruzione sia di alta qualità sia collegata alle esigenze del territorio.

L’altra proposta riguarda la gestione del corpo insegnante. “Il Quaderno sulla Scuola” del settembre 2007 contiene numerose idee interessanti allo scopo di motivarli meglio, eliminare quelli che, brunettianamente parlando, vengono definiti “fannulloni”, inserire, con l’apporto attivo dei docenti, ad appositi “patti territoriali” con un alto grado di sperimentazione ed innovazione. Sono tutte proposte molto importanti. Il loro fulcro è in che modo i presidi dei singoli istituti interpretano la loro funzione e danno ad essa corpo. Pure questa è istruzione d’alta qualità che “il denaro non può comprare”. A riguardo è interessante notare che negli Anni Novanta ed all’inizio di questo decennio, la Scuola superiore della pubblica amministrazione ha organizzato, nelle sue sedi d’Acireale, Caserta e Reggio Calabria corsi di management (gestione dei docenti, individuazione dei meritevoli e di quelli da accantonare, contabilità, acquisti, animazioni di comitati dei genitori, definizione di patti territoriali, rudimenti di analisi costi benefici). Non so se l’esperienza sia mai stata soggetta a valutazione. E se valga rilanciarla. In caso di risposte negative, occorre trovare altre soluzioni. Non si può eludere il problema.

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