In prima, senza toglier nulla all’intuizione della Francia di dare vita ad un’aggregazione più vasta tra l’Ue ed i Paesi della sponda inferiore del bacino del Mediterraneo, è utile ricordare come, prima ancora che si parlasse di un ampliamento ad Esr di quella che allora era chiamata Comunità Europea (Ce), l’Istituto Affari Internazionali, I.A.I., aveva organizzato (sin dall’inizio degli Anni 70) un gruppo di studio che esaminasse le possibilità e le opportunità d’integrazione: uno dei risultati sono stati tre volumi , pubblicati nel 1975 presso “Il Mulino”, su “Mediterraneo: economia, politica, strategia”, nonché monografie su aspetti specifici (molto importante quella sulla cooperazione industriale). E’ sempre in questo ambito che quando l’allargamento a Est si faceva più vicino, l’Eliseo chiamò l’I.A.I. ad affiancare la Farnesina e quello che era allora il Ministero per il Commercio con l’Estero a partecipare alla Commissione presieduta dall’Ambasciatore Jacques Huntzinger , incaricato, alla fine degli Anni 80, dal Presidente François Mittterand di predisporre le basi per una collaborazione più stretta (partendo principalmente dagli aspetti economici) tra le due rive del Mediterraneo.
Ho partecipato tanto ai lavori I.A.I. degli Anni 70 quanto alla Commissione Huntzinger a cavallo tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90. Ricordare queste due tappe nei giorni in cui, con grande pompa, si lancia quella che dovrebbe essere l’Unione Mediterranea non è un “amarcordor” ma un’indicazione di come l’Italia debba essere in prima linea nell’afferrare le opportunità che il progetto apre. La stampa d’informazione ha posto l’accento principalmente sulla svolta che l’iniziativa potrebbe dare al percorso verso la pace nella regione. L’”Economist Intelligence Unit”(Eiu) ha condotto un’analisi del potenziale economico – premettendola con una punta di scetticismo britannico (le origini che affondano nelle civiltà greca, romana, punica e via di scorrendo e le modeste realtà – un piccolo segretariato, con pochi mezzi e destinato ad operare su un numero limitato di materie). Integrando le analisi dell’Eiu con quelle della Banca Mondiale (la cui documentazione è disponibile al sito www.worldbank.org) , si trae un quadro molto più interessante di quello tracciato dal gruppo britannico.
In primo luogo, nella sponda meridionale del Mediterraneo, negli ultimi 15 anni, si è verificata una rivoluzione silenziosa. Mentre gran parte degli osservatori guardava ai Paesi neo-comunitari dell’Est, le riforme economiche (iniziate in gran misura a ragione della crisi del debito estero della fine degli Anni 80) producevano risultati tangibili: una riduzione del tasso d’inflazione dal 20% l’anno al 5% l’anno, una contrazione dell’incidenza del debito pubblico sul pil dall’80 al 60 %, una diminuzione dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni dal 5% al 3% del prodotto lordo. In breve, nonostante un reddito pro-capite di $ 6200 (analogo a quello dell’Europa occidentale negli Anni 50 e della Romania nel 1975) ed un tasso di disoccupazione al 12% (secondo le fonti ufficiali, ma variamente stimato tra il 20 ed il 30 %, a detta d’istituti di ricerca privati), i dieci Paesi sembrano essere sostanzialmente in linea, sotto il profilo macro-economico.
Questi risultati sono, in gran misura, il frutto della collaborazione con l’Europa (e non solo): dal 1995 al 2006, gli accordi di cooperazione con l’Ue hanno fruttato finanziamenti a fondo perduto per € 8,7 miliardi, a cui aggiungere € 15 miliardi di prestiti Bei e Banca Mondiale. Per il 2007-2013 sono sul tappeto finanziamenti Ue per € 15 miliardi e prestiti Bei-Banca Mondiale per € 9 miliardi. Ciò equivale ad un aumento degli aiuti pro-capite da €8,30 nel 2006 a €12 nel 2016 – molto meno dell’apporto (a testa) ai cittadini dei neo-comunitari dell’Est.
E’, in ogni caso, una base su cui attivare il finanziamento privato – d’infrastruttura, agribusiness ed industria. In sei anni gli investimenti dall’estero sono aumentati di sei volte. Anche perché l’applicazione della regolazione europea rende meno conveniente che nel passato investire nei Paesi neo-comunitari: un’importante industria tessile italiana ha spostato i propri impianti dalla Romania alla Tunisia proprio per questo motivo. Il mercato, diceva Luigi Enaudi, si vendica sempre.
Sotto il profilo aggregato, è interessante notare come la proporzione dell’Europa (nei flussi d’investimento) sia rimasta invariata al 40%, mentre quella degli Usa si è ristretta dal 25% al 10%. In forte ascesa, la quota di investimenti dai Paesi del Golfo Persico (dal 16% al 30% in sei anni), nonché quella di Brasile ed India (dall’8% nel 2001 al 20% nel 2007). Altro aspetto interessante è la tipologia: dai villaggi turistici, dalla petrolchimica e dai fosfati si sta andando verso piccole e medie imprese con un forte contenuto tecnologico. Un ponte high tech non solo con la Silicon Valley e Sophia Antipolis (tra Nizza e Cannes) ma anche verso i distretti industriali della vallata dell’Etna e dalla costiera adriatica.
Le opportunità, quindi, non mancano. Sta alle imprese di coglierle ma anche alla politica di fornire il quadro per farlo.
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