Quali che siano le misure di politica pubblica per riavviare l’Italia (ed impedire la prosecuzione del lento declino iniziato con il forte aumento della pressione fiscale – sette punti percentuali del pil – attuato dai Governi di sinistra negli Anni Novanta), esse devono convergere su un obiettivo, il più urgente ed il più prioritario di tutti gli altri: dare di nuovo alle imprese il gusto di “fare intrapresa”. Per “fare intrapresa” si intende mettere insieme la combinazione di fattori produttivi (materiali ed immateriali ) al fine d’innovare processi e prodotti, d’attivare nuove linee di produzione, di conquistare nuovi mercati, di tenere conto dei continui mutamenti del contesto internazionali e d’esserne alla guida non al traino.
Ad una lettura dei dati degli ultimi tre lustri, l’economista ha l’impressione che il “gusto di fare intrapresa” (tipico di vari fasi dello sviluppo italiano, dal Rinascimento al “miracolo economico” del dopoguerra) si è affievolito sino quasi a sparire del tutto. Dai capitoli sulle privatizzazioni che da otto anni scrivo per l’annuario dell’associazione Società Libera sul processo di liberalizzazione della società italiana, appare evidente che la grande impresa italiana non ha saputo cogliere le opportunità offertole (sin dalla metà degli Anni Novanta) dalle denazionalizzazioni, richieste dall’integrazione economica internazionale e comunque imposte dalla partecipazione all’Ue. Sarebbe stata la grande occasione per le grandi imprese (soprattutto del Nord) di mantenere e d’ammodernare il proprio “core business” ma al tempo stesso di diversificarsi e d’entrare in nuovi comparti e mercati. Invece, è stata attuata quella che possiamo chiamare la strategia industriale del sedersi sulla rendita (e non si vuole utilizzare una locuzione meno elegante), basata su guerre imprenditoriali per mettere le mani, con fortissime leve finanziarie, su monopoli in via di privatizzazione nella prospettiva che una volta diventati ex-monopoli avrebbero mantenuto una posizione dominante e assicurato una comoda rendita senza le noie e le grane associate al “gusto di fare intrapresa”. Sappiamo come è finita ed abbiamo sotto gli occhi le scaramucce ancora in corso dopo che interi settori industriali (critici per la crescita dell’Italia) non esistono ormai quasi più.
Per le piccole e medie imprese del Mezzogiorno, interessante l’analisi fatta, alcuni anni fa, da Fabrizio Del Monte dell’Università di Napoli Federico II. Sino alla metà degli Anni Settanta, i trasferimenti a favore del Sud e delle Isole sono stati associati ad una riduzione graduale dei divari (di reddito pro-capite, di occupazione) misurabili. Da allora, i trasferimenti sono aumentati, ma sono cresciuti anche i divari. La spiegazione: il capitale umano imprenditoriale si è gradualmente trasformato da “produttivo” ad “improduttivo”- il “fare intrapresa” è stato rimpiazzato dalla ricerca del sussidio erogato in base alla selva oscura della miriade di leggi d’incentivazione.
Ed i “distretti industriali” della “terza Italia” su cui si sono versati fiumi (elogiativi) di inchiostro negli Anni Ottanta? La loro capacità creativa di adattamento è stata messa a dura prova non tanto dall’integrazione internazionale (e dall’ingresso sulla scena del commercio mondiale di Paesi con analoga specializzazione produttiva e bassi salari e tutele sociale) quanto dal ricambio imprenditoriali: creati spesso da capomastri diventati imprenditori, le imprese che li compongono non reggono ad una nuova generazione formata in università italiane e straniere ed a più agio a New York ed a Londra che a Pennabilli.
L’implosione industriale è da oltre un lustro di fronte ai nostri occhi. Non possiamo metterli sotto la sabbia.
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