sabato 19 luglio 2008

ANCHE GLI INVESTIMENTI IMMOBILIARI SOFFRONO DELLA GLOBALIZAZIONE Libero 19 luglio

Tanto tuonò che piovve. L’Europa, poca avversa al rischio e datata di una regolazione e di controlli minuziosi, pareva essere in grado di attutire i colpi delle tensioni finanziarie internazionali provenienti da un anno e mezzo dagli Usa raggiungono il Vecchio Continente sotto il profilo sia dei loro effetti sui mercati sia dell’economia reale. Od anche di scansarle. Mediamente, invece, dall’inizio dell’anno, gli indici azionari dell’area dell’euro hanno subito una contrazione del 25% circa e del 30% rispetto ai massimi toccati sei anni e mezzo fa. In Danimarca, Spagna e Irlanda rintoccano le campane lugubri della recessione. In Italia, quelle, non liete, della stagnazione. La Germania, che ha guidato la crescita del continente negli ultimi tre anni grazie all’ottimo andamento dell’export, sta perdendo colpi: il Center for European Economic Research di Mannheim afferma che l’indice di fiducia (e dei consumatori e delle imprese) tedeschi ha toccato il livello più basso da quando, nel 1991, si è iniziato a computarlo.
In questo quadro, cosa fare? Sarebbe fin troppo semplice accodarsi al coro a cappella di molti quotidiani e periodici che da qualche giorno intonano geremiadi. Ci sembra più utile esaminare alcuni aspetti meno appariscenti ma probabilmente più significativi tanto per interpretare la situazione quanto per difendersi dai suoi lati maggiormente negativi. Evitando anche congetture su quelli che potranno essere gli esiti del dibattito (in corso in seno al Congresso Usa) sulle misure a favore dei due tradizionali colossi dei mutui immobiliari americani, Fanni Mae e Freddie Mac.
In primo luogo, in una situazione complessa come l’attuale occorre che tutti, anche i media, tengano i nervi saldi. Da un paio di giorni, un telegiornale nazionale mostra file d’americani ai bancomat di Times Square a New York, evocando le foto ingiallite degli assalti agli sportelli ai tempi della Grande Depressione. Siamo lontani da una situazione analoga a quella degli Anni 30 non soltanto perché abbiamo imparato a meglio maneggiare le leve macro e micro-economiche ma anche e soprattutto perché il problema (pur serio) non ha l’estensione della caduta della domanda aggregata che si è verificata allora.
C’è senza dubbio una crisi di fiducia che prende l’avvio dal settore immobiliare si estende ai rapporti tra differenti tipologie d’istituti di credito e riguarda adesso pure le banche ed i loro correntisti.
Ho trovato un unico lavoro empirico sul fenomeno del “negative equity” (valorizzazione in conto capitale negativa) nell’immobiliare e sulle insolvenze. Lo ha condotto (pour cause) la Federal Reserve Bank di Boston e riguarda un campione di 100.000 proprietari di casa che negli Anni 90 ebbero, per periodo più o meno lunghi, “negative equity” negli immobili da loro acquistati (spesso a tassi d’interesse variabile) in una fase in cui i valori del mattone hanno segnato forti alti e bassi: appena il 10% sono stati dichiarati insolventi ed hanno perduto la loro abitazione (acquisita dall’istituto ipotecante e, in seguito, quasi sempre messa all’asta). Il campione si dirà non è rappresentativo poiché relativo al Massachusetts. E’, però, indicativo di una situazione che nei suoi aspetti micro-economici è forse meno drammatica (nonostante la sua complessità) e meglio gestibile di quanto non sembri.
C’è, però, un aspetto importante su cui molti hanno discettato in questi ultimi mesi senza disporre di dati concreti: gli effetti dell’integrazione economica internazionale (che tradizionalmente riguarda in gran misura i movimenti di capitale) sull’immobiliare (il quale, per propria natura, è formazione di capitale fisso). L’Università della California a Berkeley e l’Università McGill a Montreal hanno completato uno studio, in corso di stampa in queste settimane: sulla base di un campione di 946 s.p.a. in 16 Paesi nel periodo 1995-2002 hanno esaminato (con un’intelligente strumentazione statistica) l’impatto del grado di apertura di un’economia sui rendimenti azionari di aziende immobiliari in senso lato (da quelle specializzate nella costruzione a quelle rivolte invece all’intermediazione) : il risultato che i rendimenti sono negativamente correlati al grado di apertura. In parole povere, la globalizzazione incide (non positivamente) anche sull’investimento meno mobile. Di conseguenza, pure (come in molti Paesi europei) dove tale investimento è tutelato da misure di politica pubblica ed atteggiamenti cautelativi, l’apertura dei mercati ha oggi effetti sulle case che non si avevano prima della globalizzazione.
Ne conseguono due categorie di tematiche di lungo periodo ed un problema immediato per i risparmiatori e per gli investitori europei.
La prima, ben descritta in un lavoro recente del servizio studi della Bank of England pubblicato nella collana Law & Economics of Risk in Finance della Università di St. Gallen, riguarda come migliorare l’analisi della vulnerabilità al rischio, come individuare cuscinetti e paratie, come rafforzare l’infrastruttura regolatoria, come ridurre le incertezze di tipo giuridico. Argomenti che Libero Mercato affronta da mesi.
La seconda pone un tema più vasto (che si riaggancia anche al recente libro di Giulio Tremonti): in che misura l’apertura dei mercati delle merci e dei servizi (anche finanziari) non richieda qualche forma di controllo valutario. Era il principio su cui John Keynes e Robert White costruirono , nel 1944, il sistema detto di Bretton Woods.
Il problema immediato per risparmiatori e investitori è cosa fare mentre esperti e Governi discettano sul futuro dell’economia mondiale. Il suggerimento pratico è osservare, sul mercato europeo, i comportamenti delle società di assicurazione e dei fondi pensione – ambedue (tranne i fondi pensione italiani) con i portafogli gonfi di azionario. Se e quando cominciano ad alleggerirli, c’è davvero di che preoccuparsi.

Nessun commento: