lunedì 21 luglio 2008

PERCHE’ L’ITALIA HA BISOGNO DI UN ACCORDO SUL COMMERCIO MONDIALE L'Occidentale del 21 luglio

Lunedì 21 luglio, sulle rive del Lago Lemanno, nell’edificio in stile tardo-fascista costruito alla fine degli Anni 20 per ospitare l’Organizzazione internazionale del lavoro ma adesso sede dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc, ma più conosciuta con il suo acronimo inglese Wto), si riuniscono una quarantina di ministri del commercio con l’estero per tentare, con un colpo di reni, di giungere ad un compromesso (al ribasso) e salvare la Doha development agenda (Dda). La Dda – ricordiamolo – è il negoziato multilaterale sugli scambi lanciato, con molto pompa, a Doha nel Qatar nel novembre 2001; si sarebbe dovuto concludere nel 2006 e rilanciare la liberalizzazione del commercio mondiale. Allora, sembrò una salutare boccata d’ossigeno per l’economia mondiale dopo il brutto colpo ricevuto l’11 settembre precedente.
Oggi – parafrasando George Bernard Shaw- si potrebbe dire che la situazione è disperata ma non seria. In effetti, pochi ritengono che il vertice ministeriale – di cui non è chiara neanche la durata (secondo alcuni potrebbe durare sino a tarda sera di venerdì 25)-, possa terminare con un esito positivo. Sul piatto c’è una bozza di proposta di compromesso a cui hanno lavorato per mesi i capi-delegazione. E’ una bozza con molti paragrafi in bianco poiché gli ambasciatori non sono stati in grado di giungere ad un accordo neppure al ribasso. Il punto centrale del compromesso riguarderebbe l’apertura ai mercati agricoli (specialmente da parte da Usa e Ue) e la graduale liberalizzazione da parte dell’import di manufatti (da parte dei Paesi emergenti). Si è molto lontani da un’intesa sui principi perché l’India (e altri Paesi) insistono che gli Stati Uniti congelino al livello del 2007 (meno un simbolico dollaro) i sussidi all’agricoltura e Washington, specialmente in un anno elettorale , non ha alcuna intenzione di farlo. Richieste ancora più dure riguardano la politica agricola comunitaria (Pac); all’interno dell’Ue non mancano gli stati membri disposti ad utilizzare il negoziato Omc per mettere a posti i conti e ridurre il supporto al settore, ma altri capeggiati da Francia ed Olanda terranno il punto di difendere i propri agricoltori. Ove anche si arrivasse ad un accordo, l’intesa andrebbe tradotta in miriadi di cambiamenti a tariffe doganali, contingenti, norme anti-dumping e quant’altro – un lavoro certosino per barracuda-esperti.
Pur nell’eventualità che i barracuda-esperti riusciranno a farcela, è altamente improbabile che George W. Bush presenterà trattati, convenzioni e protocolli al Congresso perché li ratifichi. Ove la situazione non fosse abbastanza complicata, è scaduto il Trade Promotion Act (Tpa) che consentiva al Presidente di chiedere che la ratifica avvenisse in blocco – senza emendamenti. Nell’ipotesi che fossero superati tutti gli altri ostacoli, è verosimile che Bush lascerebbe la patata bollente al proprio successore. McCain tenterebbe un nuovo Tpa prima del ddl di ratifica. Obama non rispedirebbe neanche il documento al mittente: lo metterebbe in un cassetto, per sempre. L’attacco alla liberalizzazione degli scambi, all’Omc ed agli stessi accordi regionali (come il Nafta- il trattato di libero scambio tra gli Stati del Nord America) è stato uno dei temi fondanti e costanti della sua campagna elettorale. I toni si sono accentuati man mano che la campagna è giunta in Stati dell’Unione in corso di de-industrializzazione, come la Pennsylvania, l’Illinois, il Michigan e parte dello stesso New England. Ad aggiungere benzina sul fuoco, un’analisi dell’Economic Policy Institute , il “pensatoio” di Washington supportato dalle maggiori organizzazioni sindacali: un’analisi pubblicata a fine aprile attribuisce alla liberalizzazione degli scambi avvenuta negli ultimi 40 anni (l’Omc ed il suo predecessore, il Gatt, hanno complessivamente 60 anni) non soltanto la perdita di posti di lavoro nel manifatturiero ma anche il divario salariale tra le fasce alte delle forze di lavoro ed i “working poor” (“i salariati poveri”).
In queste circostanze, il fallimento della trattativa è facilmente prevedibile. Allora perché ce ne occupiamo? L’Italia è paradossalmente uno dei Paesi più direttamente interessati a giungere ad un accordo che non sia unicamente di facciata. Lo ha confermato il 16 luglio il rapporto annuale dell’Ice ; il nostro export ha ripreso a tirare ed ad essere una delle poche aree positive nell’attuale momento economico. Dato che è facile prevedere un ritorno alla grande del protezionismo in caso di scacco del Dda, le nostre imprese rischiano di essere tra le più danneggiate.
C’è un altro aspetto. Meno da “amichetti della parrocchietta”. In un’economia mondiale a fosche tinte, un accordo Omc/Wto darebbe una luce di speranza. Anche se, dopo qualche mese, la mancata ratifica da parte del Congresso Usa, rimetterebbe tutto in gioco.

Nessun commento: