martedì 22 luglio 2008

IL SALVATAGGIO DEL TRATTATO PUO’ ESSERE PIU’ DANNOSO DI UN FALLIMENTO Libero del 22 luglio

Sul lago Lemanno, al termine delle lunghe notti ginevrine, non sempre sorge il sole. E’ probabile che alla fine di questa settimana, quando terminerà la sessione ministeriale straordinaria convocata per tentare di giungere ad un accordo in materia di liberalizzazione multilaterale degli scambi, i partecipanti concluderanno che è meglio restare sulle posizioni reciproche, dare un nuovo assetto alla macchina negoziale e riavviarla in tempi e condizioni migliori. La sessione è iniziata il 21 luglio e dovrebbe essere lo strumento per un’intesa minima della Doha development agenda (Dda), la tornata negoziale iniziata nella capitale del Qatar nel novembre 2001 (anche con la speranza che un rilancio dell’apertura dei mercati internazionali agli scambi di merci e servizi potesse dare una spinta all’economia mondiale e contrastare gli effetti negativi dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre). La trattativa viene svolta nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc, meglio conosciuta in base all’acronimo in inglese Wto). Libero Mercato la ha seguita in dettaglio ed ha commentato le prospettive (quali si presentano adesso) all’inizio di giugno.
Alla vigilia della riunione straordinaria ministeriale, molti quotidiani economici hanno titolato i loro servizi da Ginevra e dalle principali capitali chiedendosi, in vario modo, se è ancora possibile salvare il negoziato. Noi, convinti assertori della libertà degli scambi, ci chiediamo se vale la pena fare gli sforzi necessari per il salvataggio. E se un tale salvataggio non sia più dannoso di un fallimento. +-

Sotto il profilo dell’evoluzione del commercio mondiale, la risposta non può non essere negativa per le seguenti ragioni:
1. In primo luogo, si sta tentando di definire un accordo al ribasso, che potrebbe penalizzare l’Europa (e gli Usa) senza dare garanzie in materia d’apertura dei mercati (all’import da Europa ed Usa) dei Paesi in rapida crescita economica ed a forte densità di popolazione. Tale accordo metterebbe a repentaglio i principi della reciprocità e della non discriminazione che sono stati i cardini della liberalizzazione del commercio mondiale, su base multilaterale, dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli Anni 90 (quando è stata conclusa la trattativa denominata “Uruguay Round”). Abbiamo spiegato circa due mesi fa perché né l’attuale direttore generale dell’Omc Pascal Lamy né il capo della delegazione Ue Peter Mandelson, possano essere considerati liberisti; sono abili negoziatori di stampo socialista, non convinti assertori della libertà degli scambi. Pur di poter terminare il Dda con un accordo sono pronti a renderlo tanto modesto da non essere utile al commercio mondiale.
2. In secondo luogo, anche ove i Ministri arrivassero a parafare un testo, ci vorrebbero settimane perché le loro delegazione tecniche (a titolo d’esempio, si pensi quella canadese è composta di 150 persone) giungano a mettere a punto i dettagli delle singoli voci daziarie e contingentali, delle complesse materie dei sussidi e delle barriere indirette e via discorrendo. Un lavoro da barracuda-esperti che difficilmente potrà portare ad esiti positivi. Ciò fu possibile ai tempi del Kennedy Round della seconda metà degli Anni 60 quando i barracuda -esperti avevano una guida: il metodo delle riduzioni lineari (reciproche e non discriminatorie) approvato dai Ministri.
3. Pur ove i barracuda-esperti riuscissero a compiere un miracolo, il Trade Promotion Act (Tpa che consentiva al Presidente Usa di chiedere la ratifica degli eventuali accordi senza che i testi potessero essere emendati) non ha più validità; è improbabile che George W. Bush si rivolga, a pochi mesi dalle elezioni Usa, al Congresso per l’approvazione di documenti su cui pioverebbe il fuoco di migliaia d’emendamenti. Il suo successore (chiunque vinca in Novembre) non darà priorità all’attuazione degli accordi Dda. Ciò servirebbe come pretesto per mettere gli Usa sul banco degli accusati e dar vita ad una nuova, pericolosa, ondata di protezionismo.

Il vostro “chroniqueur” lavora su questi temi da oltre 40 anni (il suo primo libro in materia è stato edito da Il Mulino nel 1967) e si è persuaso che la macchina negoziale costruita nel 1948 per 23 “Parti contraenti” non è affatto adatta ad un organizzazione che ha 153 Stati membri. I 153, a loro volta, si raggruppano i vari sotto-gruppi (il G77, il G33, il G20) con interessi simili ma non identici. Nel contempo la sala dei negoziati (la “Green Room”) contiene, fisicamente, non più di 40 Ministri dando luogo a problemi di protocollo (e di permalosità) d’ogni genere. Negli Anni 60, l’accordo che diede un risultato positivo al Kennedy Round venne definito tra una dozzina di persone nello studio dell’allora Direttore Generale, Sir Wyndham White, un amabile, ed astuto, avvocato britannico, al termine di una lunga notte in cui ci si sosteneva a base di brandy & soda. Un approccio impensabile adesso con oltre duemila delegati al seguito, oltre che interessi divergenti anche all’interno di gruppi relativamente omogenei come l’Ue. Il costo più pesante di un cattivo accordo sarebbe quello di non fare scattare la molla per ripensare la macchina.

Proposte non mancano. Tra le tante merita particolare attenzione quella redatta congiuntamente dal Kiel Institute for World Economy (un centro di ricerche tedesco) ed il Center for Economic Policy Resarch (un centro studi americano). Prevede negoziati brevi e concentrati soltanto su alcuni temi ben definiti , differenti da quelli attuali sia in durata (oggi durano 6-10 anni superando, quindi, i cicli politici) sia in scopo (oggi cercano di abbracciare tutti i problemi degli scambi mondiali).

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