Il nuovo allestimento di Turandot (in programma sino al 23 agosto) è il modo migliore per toccare con mano pregi e difetti del Grande Teatro inaugurato a Torre del Lago, con un concerto ad inviti, il 15 giugno. Ad un profano d’architettura, la struttura (una cavea di circa 3400 posti, un teatro al coperto di 400 posti, ampi spazi per prove e servizi) pare un successo: immersa in un parco curatissimo e con vista (da tutti gli ordini di posti) del lago, dell’Appennino e delle Alpi Apuane come fondale palcoscenico, attraente e funzionale. Per l’intenditore di musica, invece, occorre fare uno sforzo aggiuntivo per migliorare ancora l’acustica : il sistema attuale privilegia orchestra e boccascena, provocando squilibri con il canto di chi a metà del palcoscenico e nel fondo-scena.
La vicenda di Turandot è nota: la principessa di ghiaccio (che manda al capestro tutti i pretendenti non in grado di risolvere i suoi tre indovinelli) si sgela (e si innamora) di fronte alla prova di amore della schiava Li pronto a morire per il principe Calaf. Simbolismo e tardo romanticismo s’intrecciano in un lavoro in cui Puccini incorpora le lezioni del “Pelléas et Melisande” di Debussy e de “La Donna senz’Ombra” di Strauss. L’ allestimento (regia di Maurizio Scaparro, scene di Enzo Frigerio, costumi di Franca Squarciapino) è molto accattivante sotto il profilo visivo e drammaturgico. La scena unica si apre mostrando il lago da ambedue i lati dell’impianto fisso (una Pechino del regno delle favole basata su reperti antichi ancora visibili della capitale cinese- quali la Porta della città). Le masse si muovono con agilità encomiabile. Buoni il coro di bambini e quello femminile, meno rodato quello maschile. Sbandieratori e mimi accentuano il carattere colossal della produzione, pur se Scaparro riesce a sottolineare i lati intimisti (ad esempio nel terzetto del primo atto e nel duetto del terzo).
Sotto il profilo musicale, due sono i punti salienti. L’ esecuzione del finale re-introduce alcune di tagli di quello composto da Franco Alfano sugli appunti di Puccini (morto prima di completare il lavoro) - e non come ritoccato da Toscanini. Sarebbe stato preferibile proporre la versione integrale del finale di Alfano, non soltanto la più fedele alle intenzioni dell’autore ma anche la più efficace tra quelle correnti. La presenza di Francesco Hong nel ruolo di Calaf conferma come il tenore coreano sia non solo la grande scoperta vocale di questa stagione ma uno dei pochi in grado di affrontare ruoli da tenore lirico spinto del repertorio italiano a cavallo tra Ottocento e Novecento; inoltre, il suo volume sfida le difficoltà acustiche del luogo e la sua dizione in italiano fa sì che in ciascun ordine di posti si possa comprendere ogni parola del suo canto. Ha meritato applausi a scena aperta anche la Liù di Donata DAnnunzio Lombardi. La Turandot di Francesca Patané un soprano drammatico di indubbie capacità ha, invece, deluso della grande scena ed aria del secondo atto (ma si è ripresa nel duetto finale). Le ragioni possono essere molteplici: la complicata acustica che la ha costretta ad esagerare negli acuti, la direzione musicale dilatata (a volte quasi rallentata) d’Alberto Veronesi non interamente in linea con la tradizione. Daltro canto, a difesa del maestro concertatore si deve dire che proprio cesellando l’esecuzione della partitura si avvertono meglio le inquietudini moderniste dell‘ ultima opera di Puccini.
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