Uno dei meriti delle manifestazioni (e degli studi) innescati dai 150 anni dalla nascita di Giacomo Puccini è quello di riaprire un capitolo da molti poco considerato: quello dei rapporti tra il compositore ed il cinema. Puccini – è stato scritto in varie sedi – è stato l’ultimo dei grandi compositori italiani davvero internazionali. Nella sua maturità ha vissuto negli anni in cui il teatro in musica era sconfitto, come principale mezzo d’entertainment di massa e commerciale, dalla nascente settima arte. Era l’epoca in cui le battaglie tra le grandi case editrici musicali (ad esempio, Ricordi e Sonzogno) stavano per essere sostituite da quelle tra i maggiori produttori cinematografici. Julian Budden, uno dei maggiori studiosi pucciniani , ha scritto, correttamente, che “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Mentre altri compositori italiani (si pensi a Mascagni ed a Pizzetti) e stranieri (si pensi a Korngold ed a Prokogiev) venivano attrattiva dal nuovo strumento e dalla sue convenzioni, Puccini non ha mai composto musica da film ed i suoi rapporti con la cinepresa ed il suo lessico sono rimasti avvolti in un cono d’ombra.
Un saggio di Pier Marco De Santi, la mostra “Puccini al Cinema” ed una serie di proiezioni (oltre 40 film ispirati ad opere di Puccini o sulla vita del compositore) gettano una luce nuova ed interessante. De Santi scava nelle esperienze di Puccini come autore dilettante di un film muto (“Il Libeccio”, prodotto dalla Versilia Film) di cui non è rimasta traccia, nel suo gusto a farsi riprendere dalla macchina da presa, nel suo ruolo in documentari su sé stesso ed anche nella sua breve apparizioni (nel ruolo di gentiluomo maleducato) nel film commerciale “Cura di Baci” del 1916. Indaga, poi, su “Puccini spettatore”, in particolare di film tratti, in tutto il mondo, da sue opere. Analizza, poi, come il cinema abbia trattato le opere di Puccini , a volte bistrattandole- dagli anni del muto ad oggi oppure su come la musica pucciniana sia stata presa in prestito a supporto di film che, con il compositore lucchese, non avevano nulla a che fare.
E’ un lavoro minuzioso e stimolante di storia del cinema. Sarebbe utile integrarlo con un’analisi di quanto l’allora nascente settima arte abbia influenzato Puccini nella scelta delle sue opere e nei “tagli” specifici dati a ciascuna di esse. Ad esempio, è difficile immaginare “La Fanciulla del West” al di fuori del contesto dei film western oppure “Gianni Schicchi” senza le gags dei film muti di Chaplin e dei Fratelli Max oppure ancore “Turandot” senza i “colossal” americani ed italiani che, proprio in quegli anni, portavano via pubblico ai teatri d’opera per attirarlo verso sale cinematografiche. E’ questa interazione che merita di essere approfondita. Un approfondimento a cui l’iniziativa del Comitato per le Celebrazioni Pucciniane e la Fondazione Puccini danno, con “Puccini al Cinema” un contributo non secondario.
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