Sergej Prokofiev aveva poco più di vent’anni, quando, nel 1915-16, scrisse il libretto de “Il giocatore” ispirandosi ad un racconto di Dostojevkj, e compose la musica dei rapidi quattro atti affollati da una quarantina di personaggi. La musica rispecchia il periodo dadaista e futurista dell’autore il quale, affascinato dal cinema, voleva riproporre i ritmi incalzanti del “muto”. L’opera presenta una società malata (dal gioco d’azzardo in un’ipotetica stazione termale dal nome emblematico di Roulettenburg) ed è incentrata sul principio della “disonestà vittoriosa”- chi bara accalappia il successo. L’opposto della morale del realismo socialista. Prokofiev, “figlio geniale ma capriccioso” della Russia (la definizione è del musicologo Tommaso Manera), ebbe con il regime autoritario un rapporto complicato: lasciò la Patria all’inizio di una “rivoluzione proletaria” per lui “problematica”, ma vi ritornò mentre stava cominciando il terrore stalinista. Nel 1917 l’opera era stata inclusa nel cartellone del maggior teatro di San Pietroburgo, ma venne accantonata nonostante fossero state fatte numerose prove. La “prima” mondiale ebbe luogo nel 1929 a Bruxelles (ed in una versione francese curata da Prokofiev in persona). Da allora le riprese sono state rare, anche in quanto il lavoro richiede una trentina di solisti (molti dei quali in più ruoli).
L’edizione coprodotta dalla Scala (dove è in scena sino al 30 giugno) con la Staatsoper di Berlino (dove ha debuttato in primavera ed è in programma anche nel 2009) ci porta in una Roulettenburg moderna un po’ dimessa, dove si propone l’apologo amaro di un mondo in cui ciascuno cerca di imbrogliare il proprio vicino. L’allestimento è curato dal giovane Dmitri Tscherniakov (autore pure delle scene e dei costumi). I più tradizionalisti alzano le sopracciglia poiché si aspettano una stazione termale di lusso (con annesso gioco d’azzardo) simile a Marienbad od a Baden Baden, nonché un’ambientazione inizio Novecento. La messa in scena è, però, in piena armonia con la direzione musicale di Daniel Barenboim che dilata i tempi cesella la partitura e dà spazio a singoli gruppi di orchestrali (i fiati, gli strumenti a corda) al fine di dare rilievo non tanto ad una raffigurazione grottesca della società (come nell’edizione di Valery Gergev vista 12 anni fa in occasione di una tournée del Teatro Mariinkij in Italia) quanto al progressivo degrado di un “bravo ragazzo” (il protagonista Aleksej) in un mondo in disfacimento. Si perde in tempi “futuristici”: la durata complessiva è circa 140 minuti rispetto ai 115-121 delle versioni discografiche correnti. Ma il messaggio dell’apologo risulta attualissimo. Si avvertono, inoltre, interessanti anticipazioni di quella che sarebbe stato il teatro in musica dell’ Europa Centrale degli Anni Trenta.
Alla “prima”, gran parte del pubblico della Scala ha risposto con entusiasmo a tale lettura . Al successo ha senza dubbio contribuito la squadra di cantanti attori – in gran misura russi e tedeschi, ma anche molti italiani tra i caratteristi. Ciò mostra il vantaggio di disporre di un organico fisso ed affiatato (come avviene alla Staatsoper e negli altri teatri “di repertorio”). Tra tutti spicca Misha Didyk, il protagonista, un tenore generoso il cui ruolo è particolarmente difficile non solo per la continua presenza in scena ma pure in quanto la vocalità è imperniata quasi costantemente sul registro di centro.
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