Ancora una volta un “vertice straordinario” della Fao (Food and Agricolture Organization, Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, agenzia specializzata delle Nazioni Unite) si chiude con torrenti di parole, geremiadi, auspici, richieste d’aumenti degli aiuti dal Nord al Sud del mondo ma con un sostanziale nulla di fatto. Un nuovo fallimento, quindi, della principale tra le organizzazioni agro-alimentari con sede a Roma (le altre due sono il Wfp, World Food Program o programma mondiale alimentare e l’Ifad, International Fund for Agricultural Development, Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo). Anche poiché la Fao ha la sede a Roma, il Governo italiano ne è il principale finanziatore. Dopo questo ulteriore scacco, sarebbe appropriato che il Ministero degli Affari Esteri rivedesse le priorità nell’allocazione degli scarsi fondi per la cooperazione allo sviluppo.
Dopo tre giorni di riunioni, la stampa internazionale (interessanti i commenti del “New York Times” e di “Le Monde”) sottolinea come la politica pura (principalmente il desiderio di esibirsi dal pulpito Fao da parte di Capi di governi autoritari, messi al mando dalla comunità internazionale) hanno avuto il sopravvento sui temi sostanziali: come affrontare il doppio problema della fame sempre più mortale per un miliardo di persone e dell’aumento dei prezzi delle derrate. Nelle sessioni “tecniche” si è discusso molto nel nesso tra l’alto (e crescente) costo degli alimentari ed i prodotti bioconbustibili, del protezionismo, dell’ascesa dei prezzi del petrolio e delle distorsioni apportate dai sussidi. Si è anche parlato di un’espansione degli aiuti alimentari (ossia di convogliare una crescente parte delle eccedenze di Paesi Ocse verso i Paesi in via di sviluppo). Tuttavia, poco o nulla dei dibattiti hanno riguardato il nodo centrale: come investire di più nell’agricoltura dei Paesi il cui reddito pro-capite è nella scala più bassa, facilitare l’aumento delle rese in quello che un tempo veniva chiamato il Terzo Mondo e spendere di meno nel trasportare alimentari attraverso del metà del globo (con perdite anche considerevoli di merci) per tentare di dare da mangiare agli affamati.
A Viale Aventino, dove hanno sede gli uffici principeschi della Fao, si afferma che le responsabilità del fallimento sono interamente degli Stati membri non dell’Organizzazione. C’è del vero in questa constatazione. Tuttavia non si può ignorare la Fao in quanto tale ha mancato ad i suoi compiti istituzionali essenziali.
In primo luogo, con i suoi 4000 dipendenti (sostanzialmente privi di funzioni operative, affidate invece agli 8000 dipendenti del Wpf ed i 600 circa dell’Ifad) , non ha previsto per tempo il mutamento strutturale dell’economia mondiale in corso da un decennio. E’ vero che in un rapporto provocato l’autunno scorso (ossia quando la tendenza in atto da oltre due lustri era chiara a tutti) avvertiva che siamo alla fine dei bassi costi delle derrate alimentari (dal 1850 al 1970 l’indice delle loro quotazione è aumentato appena del 50% per poi prendere un impennata che lo ha portato nel 2005 a superare di dieci volte il livello del 1850 ed all’ultima rilevazione di ben quindici volte). Un nuovo documento Fao ricorda anche che nel 2007, i prezzi mondiali dei lattiero-caseari sono aumentati dell’80%, quelli del frumento del 42%. Due anni prima della Fao, l’Ocse aveva avvertito, nei prossimi dieci anni i prezzi del granturco aumenteranno del 27%, quelli dei semi d’olio del 23% e quelli del riso del 9%. All’ultima tornata, l’indice aggregato dell’Economist dei prezzi degli alimentari corre ben del 60% tra il giugno 2007 ed il giugno 2008.
In secondo luogo, la Fao è virtualmente assente dalle discussioni della Doha development agenda (Dda), la trattativa multilaterale in corso dal 2001 in seno all’Omc (Organizzazione mondiale del commercio) , uno dei cui obiettivi principali è la liberalizzazione del commercio agricolo (strumento essenziale) per incoraggiare la produzione agricola.
In terzo luogo, la Fao è stata ambivalente ed ambigua in termini di nuove tecnologie per aumentare le rese agricole (omg e non solo). Già alla fine degli Anni Sessanta un’analoga ambivalenza ed ambiguità caratterizzarono la Fao di fronte a quell’”agribusiness” che avrebbe innescato la cosiddetta “rivoluzione verde”: Restò tale anche quando nel 1967, il 20th Century Fund dava alle stampe uno studio in tre fitti volumi curato dal Premio Nobel Gunnard Myrdal: “Asia Drama – An enquiry into the poverty of Nations” (“Il dramma asiatico: un’indagine sulla povertà delle Nazioni”) che tratteggiava un quadro apocalittico del futuro della regione. Myrdal , uomo di sinistra, invocava, tra l’altro, l’aumento delle rese tramite l’”agribusiness”.
L’incapacità della Fao di adempiere alla propria funzione di base – essere un maxi-ufficio studi, affetto da endemica lentocrazia – dipende da numerose determinanti. La principale è che il senegalese Jacqued Diouf ne è alla guida dall’8 novembre 1993 e, in seguito a vari rinnovi, è in carica sino al 2012. Quasi vent’anni alla testa dell’organizzazione sono davvero troppi. Qualsiasi istituzione si sclerotizzerebbe. All’inizio del suo primo mandato, Diouf ha cercato di riorganizzare la Fao, decentrarne le funzioni e ridurre il personale. Da quando, nel 1998, si avvicinava la rielezione il suo obiettivo principale è stato quello di restare in carica, anche accentuando assunzioni seguendo criteri non effettivamente meritocratici.
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