martedì 3 giugno 2008

TERZA MAHLER

Roma/Parco della Musica
LA TERZA SINFONIA DI GUSTAV MAHLER


Gustav Mahler è nato in Boemia nella seconda metà dell’Ottocento. Si è costruita una prima carriera a cavallo tra l’Impero tedesco (sempre più dominato dalla Prussia) e la Monarchia austro-ungarica. Si è stabilitosi a Vienna proprio mentre un secolo stava per terminare l’altro per iniziare. Esiliatosi a New York per fuggire dagli intrighi di una società già sul punto di correre al suicidio (la prima guerra mondiale); è rientrato a Vienna solo in tempo per morirvi. In sintesi, Mahler esprime la crisi della cultura occidentale a cavallo tra due epoche. Crisi molto presente nella terza delle sue sinfonie, la più prossima, per struttura e contenuto, ad un dramma in musica.
Mahler è stato direttore d’orchestra acclamato ed innovativo di musica lirica prima ancora che di sinfonica poiché volto alla rigorosa interpretazione della partitura senza abbellimenti da parte degli interpreti. In effetti, in vita, è stato apprezzato più come concertatore che come compositore perché troppo netta era la rottura sia nella sinfonia (dove venivano introdotti elementi folcloristici e popolari, oltre alla voce umana) sia nel lieder (dove il canto veniva giustapposto al grande organico); l’Olanda diventò la roccaforte degli stimatori delle sue composizioni. La sua musica, messa al bando in Germania nel 1933, è tornata ad essere eseguita con frequenza dalla fine degli Anni Cinquanta, non solo grazie ai suoi allievi (Walter, Kemplerer) ed alla nidiata di (allora) giovani concertatori (Kubelik, Bernstein, Solti, Haitink) ma pure a ragione della stereofonia che ha reso possibile la realizzazione del concetto mahleriano di suono spaziale. Concetto- si badi bene- che si applica al teatro in musica quasi più che alla musica sinfonica e che è stato ed è, dunque, centrale all’opera sia del “Novecento storico” sia, anzi soprattutto, contemporanea.
Mahler è stato partecipe attivo dei movimenti culturali al tempo stesso più nuovi e più tormentati del suo periodo (in primo luogo la “secessione” in architettura e nelle arti figurative): ben lo raffigurano le riproduzioni di Klimt nel cofanetto fine Anni Sessanta dei 14 long-playing delle sinfonie dirette da Kubelik alla guida dall’orchestra della radio della Baviera. Avido lettore di Dostojevsky, di Nietzche e (ovviamente) di Goethe, ed accompagnato da una vita interiore complessa (da una conversione di maniera al cattolicesimo al complicato rapporto con la giovane e bellissima moglie Alma Schindler), Mahler rappresenta più di altri le difficoltà dell’intellettuale mittle-europeo agganciato ad un passato sul punto di scomparire e rivolto verso un futuro da contenuti e contorni ancora non definiti.
A titolo di raffronto, Richard Strauss è stato anche lui espressione di una crisi di transizione, almeno sino ad “Elektra”; già con il “Rosenkavalier” mostrò di avere meravigliosamente metabolizzato il passaggio del tempo; con “Ariadne auf Naxos” e “Die frau ohne schatten” (rispettivamente, trionfo dell’eros sulla morte e inno alla paternità ed alla maternità) provò d’aver superato ogni tremore e di essere tra gli intellettuali del XX secolo che guardavano con una punta di ironica melanconia al XIX.
Si era al crepuscolo degli Stati Nazione e degli Imperi multinazionali; il centro della politica, dell’economia e dell’intellighentzia cominciava a spostarsi dall’Europa all’altra sponda dell’Atlantico. Nell’immaginario del pubblico meno accorto, Mahler condivide, con Wagner, una leggenda: quella di essere stato un compositore fluviale. Al pari di Wagner, Mahler compose relativamente poche ore di musica. Wagner rivoluzionò il teatro in musica, ove non la musica occidentale in tutti i suoi canoni, con 13 drammi (e pochissime composizioni orchestrali). Mahler ci ha lasciato appena dieci sinfonie (di cui l’ultima incompiuta) e 43 lieder (uno di meno di quelli contenuti nel solo ciclo del “libro dei lieder spagnoli” di Hugo Wolf), numero modesto rispetto a quelli di Schubert, Schumann e Brahms. Mahler, tuttavia, rivoluzionò la sinfonia togliendola dalle strutture formali rimaste sostanzialmente immutate da Haydn a Beethoven, aggiungendovi voci e cori e fondendola con il lied (si pensi al quarto tempo della seconda, della terza e della quarta sinfonia, nonché al quinto della terza). Una concezione nuovissima che la avvicinava all’opera: Luigi Rognoni ha scritto efficacemente che così come Wagner introdusse la sinfonia nell’opera, Mahler introdusse l’opera nella sinfonia. Inoltre, nelle prime quattro sinfonie è presente quella “musica a programma” (i “poemi sinfonici” nel lessico italiano) che Mahler affermava di respingere in toto.
Un grimaldello per comprendere Mahler come espressione di crisi è l’accostamento, della “Settima” del 1908 alla “Terza” del 1895-96. La “Settima” entusiasmò Schoenberg poiché ha, in nuce, tutti i contrasti e le contraddizioni del secolo breve: è avvolta in un mistero notturno in mi minore (gli è stato attribuito il nome di “Canto della notte”) dominato da fantasmi, specialmente nello sterminato primo movimento. Gli spettri paiono avere il sopravvento anche nello “scherzo” e ricompaiono infuocati nel rondò finale- un’orgia di suoni modernissimi su un tema antico (come il finale di “Elektra” di Strauss). La “Terza” è, invece, un immenso poema in re minore che inneggia al risveglio della natura in una mattina d’estate. Un saluto gioioso al nuovo secolo, anche con toni elegantemente sguaiati, la “Terza”; premonitrice del suicidio d’Europa, la “Settima”.
Ciò ne rende ancora di più i suoi contenuti analoghi a quelli di un dramma in musica – sulla falsariga di come il teatro in musica stava evolvendo in Germania ed Europa Centrale, lontano quindi da tentazioni veristiche ma sempre più agganciato al simbolismo (si pensi a Bartòk, a Korngold, a Schekrek , a Krenek, a Zemlisky). Tanto più che c’è un personaggio: il contralto che nel quarto movimento intona un passaggio dal “Così parlo Zaratustra” di Nietzsche e nel quinto dialoga con un coro femminile ed un corso di voci bianche su liriche dal “Corno magico del fanciullo”. La presenza del personaggio e del doppio coro preparano, dopo l’esaltato primo movimento (un vero e proprio quadro sul risveglio della natura), il finale sereno (quasi buddista) di un sesto movimento in cui quasi si anticipa l’addio al mondo del “Adschield” del “Das Lied von der Erbe”.
L’esecuzione dei complessi dell’Accademia di Santa Cecilia diretta dal 27enne Gustavo Dudamel (e con Michelle DeYoung nel ruolo di solista vocale) si differenzia molto da altre letture recenti della partitura. Sinopoli, ad esempio, ne ha dato un’interpretazione filosofica, Chung una religiosa, Abbado una tecnicamente perfetta ma quasi glaciale, Ferro una passionale, Maazel una elegante e precisa. Dunadel ne offre una lettura originalissima, non soltanto perché fresca e giovane ma soprattutto perché passionale e caratterizzata da una grande abilità di affrettare i tempi in certi passaggi e dilatarli in altri. E’ anche una lettura grandiosa e monumentale: dura complessivamente un’ora e 50 minuti, invece di un’ora e 40 minuti (come di prammatica).
Il piglio si avverte sin dall’esordio della lunga (35 minuti) e complessa prima parte. L’inizio è impetuoso, ma, successivamente, Dudamel scivola, volutamente, in un lirismo molto delicato che quindi fa notare ancora di più l’annuncio delle varie marce (da quella funebre e quella festosa e vagamente sguaiata) che si intrecciano prima dell’allegro moderato con cui si chiude il movimento. Impeto, lirismo ed intreccio di marce esaltano il panteismo al centro specialmente della prima parte della sinfonia.
Il “minuetto” con cui viene intitolato, con un pizzico d’ironia, il secondo movimento, quello con cui si apre la seconda parte, è trattato con un piglio tra il languido e lo scherzoso, tenuto anche nel terzo movimento, incentrato sull’episodio del “corno del postiglione” ; l’atmosfera è quella di un viaggio allegro quale vorrebbe essere quello della vita. Al quarto movimento –chiamato da Mahler “misterioso”- Dudamel , splendidamente aiutato non solo dall’orchestra ma anche dall’ampio registro e dal timbro chiaro di Michelle DeYoung, ci riporta al punto centrale della sinfonia, ed al suo anticipare l’opera più amata da Richard Strauss , “Die frau ohne schatten”: non ci può essere gioia, neanche quella del risveglio panteistico in un mezzogiorno d’estate, senza dolore, Lo dicono i bei versi di Nietzsche cantati da Michelle DeYoung e l’orchestra tutta (specialmente i fagotti). La tensione drammatica, fortissima, sfocia nell’esplosione di gioia del quinto movimento – dal “Bim Bam” del coro dei bambini all’evocazione del peccato e della redazione (nell’interazione tra solista e coro femminile); Dunadel affretta i tempi di un movimento già breve (meno di cinque minuti) per dilatarli nella mezz’ora circa del sesto e ultimo movimento. Una chiusura lenta (quasi in aperta polemica con la struttura convenzionale delle sinfonie) ma in cui, prima del diminuendo finale, fiati, percussioni ed archi rievocano l’afflato panteistico iniziale.
Una direzione musicale strepitosa a cui il pubblico ha risposto con vere ovazioni da stadio.

Giuseppe Pennisi

24 maggio 2008




LA LOCANDINA

Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Coro di Voci Bianche di Roma

direttore: Gustavo Dudamel

mezzosoprano: Michelle DeYoung

Mahler
Sinfonia n. 3

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