venerdì 20 giugno 2008

NOTE PER L’ANNO DI PUCCINI, L’ULTIMO DEI COMPOSITORI ITALIANI INTERNAZIONALI, Il Foglio del 20 giugno

Il 2008 è, per tutto il mondo che ruota attorno all’opera lirica, “l’anno pucciniano” poiché ricorrono i 150 anni dalla nascita del compositore (il 22 dicembre 1858 a Lucca). Non si è travolti da una vera e propria valanga d’esecuzioni – come avvenne nel 2006 in occasione dell’”anno mozartiano”. Sei dei dieci lavori di Puccini per il teatro sono o di “repertorio” o nei cartelloni abituali dei teatri. Altri due (“Il Trittico” e “La Rondine”) compaiono con una certa frequenza, pur se non con l’assiduità di “Manon Lescaut, “La Bohème”, “Tosca” , “Madama Butterfly”, “Fanciulla del West” e “Turandot”). Di rara rappresentazione scenica soltanto le due opere giovanili: “Le Villi” e “Edgard”. In un’epoca in cui il cinematografo stava soppiantando l’opera lirica come spettacolo di massa, Puccini fu l’ultimo compositore italiano ad essere un vero autore internazionale. Tra l’altro, molti compositori americani oggi di successo si riallacciano direttamente a Puccini tanto nella scrittura orchestrale e vocale quanto nella drammaturgia.
Il 15 giugno, l’inaugurazione del nuovo Parco della Musica Puccini a Torre del Lago – una superficie totale di 6600 mq, una cavea all’aperto di 3370 posti, uno spazio scenico di 660 mq, una buca d’orchestra di 190 mq, un foyer coperto di 1200 mq ed un auditorium, anch’esso coperto di 495 posti, ad un costo di 17 milioni di euro coperto da enti locali e fondazioni private- è stata un’occasione per riflettere sulle “inquietudini moderniste” del compositore. E’ questo il titolo del concerto inaugurale dell’orchestra e del coro del Teatro alla Scala, replicato a Roma il 18 giugno nella Sala Santa Cecilia della capitale con leggere modifiche dovute all’indisposizione di uno dei solisti.
Nella prima metà del Novecento, Puccini guardava verso nuove frontiere. Non era l’unico a farlo: Casella, Dallapiccola, Malipiero ed altri lo facevano quanto e più di lui ma, da un lato, non hanno avuto una fama internazionale analoga alla sua e, dall’altro, su di essi grava ancora la “damnatio memoriae” poiché coetanei con il Ventennio (mentre pochi ricordano dell’iscrizione del lucchese al PNF sin dalla prima ora e dei progetti da lui presentati a Mussolini e respinti per la difficoltà di dare ad essi una copertura finanziaria). Puccini era anche un figlio della seconda metà dell’Ottocento e del modo di fare musica e teatro in musica in quel periodo.
Il concerto diretto da Chailly a Torre del Lago ed a Roma coglie efficacemente queste “inquietudini moderniste”. La versione del 1892 del preludio di “Edgar” mostra come il nostro rivaleggiasse con Verdi (più che lanciarsi verso nuovi orizzonti). La fine del primo atto di “La Bohème” e l’intermezzo di “Manon Lescaut” svelano invece come lavorasse su sentieri simili a quelli su cui si sarebbe mosso Janaceck. Il finale di “Suor Angelica” anticipa la dodecafonia. Quello di “Turandot”, nella versione originaria messa a punto da Franco Alfano sugli appunti del maestro (non in quella corrente manipolata da Arturo Toscani), assorbe la lezione di Debussy e prefigura quella di Richard Strass. All’appello delle “inquietudini” manca il brano che forse desta più interrogativi: il finale de “La Rondine”, drasticamente non melodrammatico nonostante esprimesse una situazione tipica del melodramma.
C’è una lacuna di rilievo, non tanto nel programma del concerto quanto nelle “inquietudini moderniste” da scavare in occasione del 150nario: una messa in scena della prima edizione di “Madama Butterffly” (quella che crollò alla Scala nel 1904 – di solito si rappresenta la quarta edizione , riveduta per l’Opèra di Parigi nel 1906) con un Pinkerton apertamente razzista, una Cio-Cio-San, piccola (ma generosa) prostituta che rifiuta il denaro offertole dall’americano, nonché la suddivisione dell’opera in due soli atti. Un’edizione critica, a cura di Julian Smith, è stata allestita (nel 2000) dalla Welsh National Opera e da allora appare frequentemente nei teatri stranieri, ma solo di tanto in tanto in quelli italiani. E’ una versione inquietante che meglio di quella rappresentata correntemente esprime le inquietudini moderniste di Puccini.
Julian Budden, uno dei maggiori studiosi pucciniani , scrive che “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Puccini ne era drammaticamente consapevole; restò sconvolto all’ascolto, ad un’esecuzione privata, dell’abbozzo di “Die Tode Stadt” (“La città morta”) del ventunenne Erich Korngold , opera da qualche anno tornata in cartellone con successo a Vienna, Madrid, Barcellona, Salisburgo, Ginevra ed altrove. Ormai anziano e malato, comprese che le sue “inquietudini moderniste” erano destinate a rimanere tali. Ossia incomplete e non attuate.

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