Gli esiti dell’ultima rilevazione Istat sulle forze lavoro (relativa al periodo che va dal 31 dicembre 2007 al 30 marzo 2008) è stata commentata su gran parte della stampa principalmente sotto il profilo dell’aumento di quello che viene giornalisticamente chiamato “il tasso di disoccupazione”, un indice che invece rappresenta il rapporto tra coloro che cercano lavoro senza trovarlo e la forza lavoro. A sua volta, la forza lavoro stima coloro i quali vogliono e possono lavoro sul totale di coloro in età da lavoro (convenzionalmente 15-64 anni). E’ un’ottica errata poiché il dato più significativo riguarda il numero degli occupati.
Nel primo trimestre 2008 il numero di occupati è risultato pari a 23.170.000 unità, con un aumento su base annua dell’1,4 per cento (+324.000 unità). Un rilevante contributo è stato ancora fornito dagli occupati stranieri a tempo indeterminato (+141.000 unità) e dalla permanenza nell’occupazione degli italiani con almeno 50 anni di età (+157.000 unità). In termini destagionalizzati e in confronto al quarto trimestre 2007, l’occupazione nell’insieme del territorio nazionale ha registrato un lieve incremento pari allo 0,1 per cento. Altro dato rivelatore che è che il tasso d’occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è aumentato di quattro decimi di punto rispetto al primo trimestre 2007, portandosi al 58,3%. Presi insieme i due indicatori vogliono dire non solo che l’occupazione continua a crescere ma soprattutto che un numero di coloro che, scoraggiati, hanno, in passato, lasciato il mercato del lavoro, ma sono ora tornati a fare parte della forza lavoro, quindi non solo possono (sono nei limiti d’età, non sono malati, non sono disabili, non sono in prigione), ma vogliono lavorare e nelle ultime settimane precedenti l’indagine Istat hanno effettuato azioni specifiche dirette a trovare un’occupazione.
Sono indicazioni incoraggianti. Pur se il tasso d’occupazione dell’Italia (al 58,9% della popolazione in età da lavoro) è ancora inferiore alla media Ue (ormai prossima al 65%). Una serie di misure per stimolare l’incremento ulteriore e dell’occupazione in termini assoluti e del tasso d’occupazione sono nel decreto legge e disegno di legge approvati la settimana scorsa e che costituiscono la prima fase dal programma triennale di politica economica. Tuttavia poco si potrà fare se non affrontiamo il nodo della bassa partecipazione delle donne alla forza lavoro, soprattutto nel Sud e nelle Isole.
Lo conferma un’analisi condotta congiuntamente da università britanniche, spagnole e svedesi in base di dati empirici di sette Paesi dell’Ue. Secondo lo studio, stanno emergendo quattro modelli distinti (quindi poco integrati) di mercati del lavoro nell’Ue; la loro variabile principale non è (come si riteneva negli Anni Novanta) il grado d’intervento pubblico nella regolazione del mercato del lavoro ma il valore che si dà al “tempo” disponibile per la famiglia ed alle pertinenti politiche economiche e sociali. Le differenziazioni più marcate riguardano il genere. Nei Paesi nordici, viene dato lo stesso valore al tempo degli uomini e delle donne; lo “universal breadwinner model” che ne risulta comporta alta partecipazione tanto di uomini quanto di donne nel mercato del lavoro, ampia diffusione del tempo parziale e di altre forme di flessibilità e tassi di occupazione elevati per ambedue i generi nel corso della loro vita attiva. Un modello differente è quello francese (viene chiamato il “modified breadwinner model”) dove le donne o lasciano il mercato del lavoro per dedicarsi alla famiglia (e tentano a volte di rientrarvi più tardi con vario grado di successo) o restano in rapporti di lavoro a tempo pieno per tutta la loro vita professionale. Ancora più marcata la differenziazione nei Paesi mediterranei (i due studiati sono Italia e Spagna): vi prevale un modello “aut aut”- “esci” o “resta a tempo pieno”, in cui la partecipazione femminile al mercato del lavoro è relativamente bassa ma le donne che trovano un’occupazione la mantengono a tempo pieno. Il quarto modello esaminato è quello del “maternal part-time work” prevenante in Germania, in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi: la maternità è associata ad una riduzione della partecipazione nella forza lavoro meno marcata che in Francia e nei Paesi mediterranei, ma anche ad una forte diffusione del lavoro a tempo parziale in cui le donne restano anche quando i figli sono grandi. L’analisi conclude che il modello nordico è quello che produce la meno pronunciata differenza di genere nell’allocazione del tempo all’occupazione ed il miglior invecchiamento “attivo” dei lavoratori anziani. E’ il frutto di politiche coerenti di gestione del tempo e del reddito non di misure frammentarie ed a macchia di leopardo che caratterizzano gli altri modelli.
Ci sono, senza dubbio, elementi socio culturali di lungo periodo. Possiamo, però, pensare di incidere su queste determinanti senza una politica della famiglia ben articolata? Man mano che il programma triennale si articola è su questa politica che occorre puntare per avere anche in Italia un mercato del lavoro europeo.
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