Da anni, il nesso tra terrorismo ed economia è, prepotentemente, alla ribalta. Da un lato, in Italia, e nel resto d’Europa, l’allarme terrorismo è elevato: si paventano attacchi a siti storici, a reti di trasporto, ad autostrade dell’informazione ed ad altri possibili obiettivi di gruppi che intendano coniugare stragi con alto contenuto mediatico, come peraltro annunciato in televisioni arabe da dirigenti di Al Quayda all’inizio di aprile. Da un altro, ogni giorno i giornali e le televisioni sono pieni di notizie su attentati terroristici in Medio Oriente, in particolare in Iraq, nonché di minacce ai Paesi europei impegnati nell’operazione, sanzionata dalle Nazioni Unite, di aiutare il tormentato Paese a traghettare verso la democrazia e verso la convivenza tra differenti gruppi etnici e religiosi. Da un altro ancora, proprio mentre sembrava, che si fosse computato e scritto tutto sui costi diretti ed indiretti dell’attentato alle Torri Gemelle, un’analisi, curata da Bertrand Maillet e Thierry Michel della Università Panthéon Sorbonne , e pubblicata sul numero di agosto 2005 della “Review of International Economics”, ha concluso che pure in termini meramente economico-finanziari (e senza tenere conto delle perdite di vite umane) si è trattato del danno maggiore accusato dalla comunità internazionale dalla crisi delle borse del 1987 e del terzo più grave dei nove più grandi incidenti censiti nei libri di storia dell’economia e della finanza. Maillet e Michel utilizzano un indicatore statistico innovativo (analogo alla scala Richter per misurare il grado dei terremoti). Il computo è stato fatto da accademici francesi, di rigorosa formazione matematica, che non possono certo essere tacciati di lavorare per l’Amministrazione americana della Presidenza di George W. Bush o di simpatizzare per la politica seguita dalla Casa Bianca in questi anni.
Un lavoro ancora più recente “A law and economics perspective on terrorism" di Nuno Garoupa (Università di Lisbona) , Jonathan Klick (Florida State University College of Law) e Francesco Parisi (George Mason University School of Law) edito dalla George Mason University – traccia un bilancio di quanto realizzato dall’ “economia del terrorismo” (un raggruppamento disciplinare riconosciuto in molte università americane ed europee ma ancora poco seguito in Italia) negli ultimi 30 anni in termini di comprensione dell’andamento dell’economia di un Paese e di strumenti per contrastare il fenomeno del terrorismo. E’ noto che il fenomeno aumenta l’avversione al rischio, comprime sia i consumi sia gli investimenti ed incanala il risparmio verso attività a basso rendimento; tutto ciò ha l’effetto di ridurre di circa un terzo la crescita reale rispetto a quella potenziale. Questa è una spiegazione del rallentamento dell’economia europea dall’inizio del decennio poiché nel Vecchio Continente non si è risposto all’attacco dell’11 settembre (ed ai grandi attentati di Madrid e Londra) con lo scatto di vitalità che ha caratterizzato la reazione americana. L’Europa – sostiene un saggio Antje Wiener nel numero di gennaio 2008 del “Journal of Common Market Studies” – è molto meno attrezzata soprattutto concettualmente alla lotta al terrorismo ed all’utilizzazione, a questo fine, dell’analisi economica. Il contributo di Garoupa, Klick e Parisi è particolarmente utile, sotto il profilo operativo: mette in discussione alcune ipotesi di base della letteratura dell’ultimo trentennio – principalmente quella secondo cui il terrorista sarebbe, dal punto di vista economico, “un agente razionale” – , esamina i dettagli delle normative anti-terrorismo varate negli ultimi anni, sottolinea in che misura tali dettagli tengano conto dei paradigmi dell’”economia della criminalità” (disciplina molto più antica dell’”economia del terrorismo” ed a cui circa venti anni fa la Società Italiana degli Economisti ha dedicato un Congresso Scientifico) e propone un meccanismo economico per far sì che il terrorista (o chi è a conoscenza di terroristi) venga “incentivato” a collaborare con le autorità.
Interessante vedere come avendo a propria disposizione dati realmente unici (le biografie dei terroristi-suicidi palestinesi), un economista di Harvard ed uno della Rand Corporation siano giunti – in un lavoro recente. lo NBER Working Paper No. W12910 – a conclusioni in parte analoghe a quelle di Garoupa, Klick e Parisi: seguendo principi rigorosi di selezione economica (quali quelli della selezione del personale o delle scelte di mercato) i terroristi più maturi e più istruiti vengono scelti per le missioni suicide più che fanno più danni all’infrastruttura (ossia al capitale fisico) e causano più perdite di vite (ossia di capitale umano) anche tra i civili.
In effetti, l’”economia del terrorismo” esplora, soprattutto, come la cassetta degli attrezzi può servire a combattere il fenomeno. Si distingue nettamente dalla “finanza del terrorismo” che analizza sia quali sono le fonti d’approvvigionamento finanziario del terrorismo sia quali le implicazioni d’episodi di terrorismo sui mercati finanziari quali le Borse; interessante notare a riguardo che un’analisi quantitativa recentissima dell’Università di Zurigo basata su una rassegna di episodi di terrorismo in 11 Stati nell’arco di 25 anni, conclude che gli impatti sui mercati finanziari anche di attentati con grande richiamo mediatico, sono, tutto sommato, trascurabili. Ancora una volta, l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 è, per le sue conseguenze anche solamente finanziarie quali quelle riassunte in apertura di questa nota, un’eccezione rispetto ai numerosi episodi trattati nello studio.
In una prima fase, l’”economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto il suo centro all’Università di Chicago dove è di casa l’assunto che milioni di teste ragionano meglio di una sola e che il mercato (reale o virtuale) è il veicolo per farle incontrare e trarre da esse il meglio. Grazie ai lavori del centro sull’”economia del terrorismo” di Chicago è stato, ad esempio, possibile simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai entrati nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno pure sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: posto un argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il cenacolo Usa più importante di studi di “economia del terrorismo”; la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie ad elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico e comunicativo. Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio od a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi- strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti, analoghi a quelli analizzati nella teoria economica dell’informazione e della comunicazione.
Può interessare notare che in Italia l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi tre lustri, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre dal 2000 circa si tengono presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA) corsi e percorsi formativi d’economia dell’informazione e comunicazione con enfasi su tematiche quali il mercato del lavoro, la previdenza, il processo di formazione del bilancio dello Stato, i beni e le attività culturali di immediato interesse per dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni. In un Master in Economia dell’Informazione, tenuto nel 2003-2004, una sessione è stata dedicata all’”economia del terrorismo”. La SSPA ha anche pubblicato due volumi su questi argomenti- uno è il frutto di una conferenza internazionale tenuta presso la Reggia di Caserta in collaborazione con la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite. Altre Scuole Superiori potrebbero considerare corsi e percorsi formativi specialistici su questi temi, anche in collaborazione con il Nato Defense College a Roma e con lo Staff College delle Nazioni Unite a Torino..
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità” ed in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche (come l’opera lirica). Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino. Le analisi più immediate, e di più immediato effetto, sono rivolte alla strumentazione economica per disinnescare la rete finanziaria del terrorismo. Circa cinque anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica, ha documentato che almeno tre miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal Governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi ed una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam ed i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Brs) a Basilea ed in istituti di credito giapponesi. Di questi 2.45 miliardi di dollari, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Brs – è stato restituito al (nuovo) Governo irakeno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie – dice il rapporto - sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Irak; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli chiamati a bombetta proprio per questa ragione, nei nichilisti all’inizio del Novecento. Le briciole vanno a terrorismi “caserecci”, spesso nipoti (spirituali) delle bande terroristiche tipo quelle, niente affatto islamiche. che imperversavano in Italia ed in Germania negli Anni 70; non devono necessariamente approvvigionarsi tramite rapine in banca in quanto, nell’epoca dell’integrazione economica internazionale, si dispone di reti diffuse – da centri più o meno sociali, a certe comunità d’immigrati, od anche di figli di immigrati, a focolai dell’irredentismo islamico.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse per l’”economia del terrorismo” è proprio quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati della Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economiche: i giovani mussulmani, cresciuti negli Usa od in Europa oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso (in cui spesso non credono affatto) ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà- e della democrazia e del mercato rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega – come si è accennato in precedenza- la scelta di terroristi maturi e istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano oppure considera il suicidio-eccedio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Per comprendere i risvolti della tattica occorre avere dimestichezza con la “teoria economica del suicidio”, elaborata una trentina di anni fa da Daniel Hamermesh e Neal Soos , ed aggiornarla alla luce dei contributi su opzioni reali di Avinash Dixit e Robert Pyndick. Nella decisione di diventare un kamikaze entra non solo il valore “zero” attribuito al resto della propria vita ma il valore dell’”opzione negativa”, “liability option” nel linguaggio dell’economia e della finanza, (l’eccidio) che si pone in capo ai propri nemici come strumento di guerra per frenarne i valori (quelli economici non sono mai distinti da quelle culturali ed etici). I nemici si distinguono dagli avversari perché sui secondi si mira alla vittoria, mentre dei primi si cerca la distruzione ed eliminazione fisica.
Quali alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi i 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino?
In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo Paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria;: negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa-(l’agenzia delle entrate) Usa ed il Comptroller of Currency (una direzione generale di del Ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle Finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna. In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione abbassando l’attenzione dei media ed aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey , il decentramento politico ed amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi Governi sono pronti a seguire anche poiché, per ragioni non economiche, “combattere il terrorismo a tutti i costi” è un obiettivo importante per tenere alto il morale. I leader del terrorismo si oppongono ad una strategia negoziale , e che offra alternative, proprio per le stesse ragioni: mantenere le loro truppe unite ed in continua tensione. Lo conferma un’analisi di Eli Berman (della scuola californiana di Todd Sandler) nella monografia “"Hamas, Taliban and the Jewish underground: an economist's view of radical religious militias" (“Hamas, i talebani, le milizie ebree sottotraccia: il punto di vista di un economista sul terrorismo radicale religioso”). Modelli economici basati sulle teorie delle scelte razionali spiegano che atti di violenza gratuita distruggono opzioni alternative e rafforzano la lealtà di gruppo.
Aumentare gli aiuti a Paesi dove c’è terreno fertile per il terrorismo al fine di fare sì che gli aratri rimpiazzano le bombe? E’ la speranza di tante anime belle e della cooperazione allo sviluppo. Un’analisi di Michael Mandler e Michael Spagat (ambedue dell’Università di Londra) pubblicata dal Centre for Economic Policy Research (“Foreign aid designed to diminish terrorist atrocities can increase them") dimostra, sulla base di teoria economica ed evidenza empirica, che si tratta di un’ipotesi errata: gli aiuti affinano le spade dei terroristi, dentro e fuori i confini nazionali.
Per approfondire il tema tramite di lavori recenti e di facile reperimento in telematica:
Benmelech E., Bellebi C. “Attack Assignments in Terror Organizations and the Productivity of Suicide Bombers" NBER Working Paper No. W12910
Berrebi C., Lakdawalla D. “How Does Terrorism Risk Vary Across Space and Time? An Analysis Based on the Israeli Experience" Rand Corporation, 2007
Berman E., Laitin D. "Religion, Terrorism and Public Goods: Testing the Club
Model" NBER Working Paper No. W13725
Chesney M. , Reshetar G. "The Impact of Terrorism on Financial Markets: An Empirical Study" (in corso di pubblicazione presso l’Università di Zurigo) ; si può richiedere il manoscritto a mchesney@isb.unizh.ch oppure a reshetar@isb.uzh.ch
Keohane D. "The Absent Friend: EU Foreign Policy and Counter-Terrorism" JCMS: Journal of Common Market Studies, Vol. 46, Issue 1, pp. 125-146, January 2008
Kerjan E-M. Pedell B."How Does the Corporate World Cope With Mega-Terrorism? Puzzling Evidence from Terrorism Insurance Markets" Journal of Applied Corporate Finance, Vol. 18, No. 4, pp. 61-75, Fall 2006
Kunreeuther H., Kerian E-M. “Evaluating the Effectiveness of Terrorism Risk Financing Solutions", NBER Working Paper No. W13359
Wiener A. "European Responses to International Terrorism: Diversity Awareness as a New Capability?" in JCMS: Journal of Common Market Studies, Vol. 46, Issue 1, pp. 195-218, January 2008
Giuseppe Pennisi è professore stabile alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. E’ stato Dirigente generale presso i Ministeri del Bilancio e del Lavoro e per 15 anni funzionario e dirigente della Banca Mondiale. E’ autore di vari libri di analisi economica e collabora assiduamente a quotidiani e periodici.
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