Domani, mercoledì 18 giugno, il Consiglio dei Ministri prenderà in esame l’impalcatura generale della manovra economica da attuarsi nei prossimi tre esercizi finanziari ed una serie di provvedimenti immediati per rimettere in sesto i conti pubblici. Dallo scorso dicembre (quando si profilava già il crollo del traballante Governo Prodi), Libero Mercato ha quantizzato – con l’ausilio di una strumentazione econometrica molto semplice – il “buco annunciato” in dimensioni molto vicine a quelle che il nuovo Esecutivo ha, successivamente, riscontrato. L’Italia ha reiterato l’impegno assunto nei confronti del resto dei Paesi dell’area dell’euro di giungere al pareggio di bilancio d’esercizio entro il 2011 e di cominciare a ridurre in maniera sostanziale il peso del debito pubblico sul pil. La correzione da effettuare (rispetto al “tendenziale”, ossia a cosa avverrebbe se non si intervenisse) è stimata in circa 35 miliardi su tre anni. I quesiti principali sono come scaglionarla nei tre anni e l’importanza relativa da dare all’aumento delle entrate ed alla riduzione delle spese. Secondo le indiscrezioni che circolano nei Palazzi, si cercherebbe di fare una manovra upfront , ossia incentrata sul primo anno (quando la correzione sarebbe di 13,1 miliardi). Questa sarebbe una strategia corretta anche per l’effetto psicologico che avrebbe su cittadini ed imprese, oltre che sull’estero: sarebbe, infatti, un’indicazione concreta che l’Italia è in grado di prendere decisioni difficili e di farlo all’inizio della legislatura.
Più complicato il riparto tra misure per aumentare le entrate e provvedimenti per ridurre la spesa. I due schieramenti che si sono fronteggiati prima delle elezioni si sono impegnati a ridurre la pressione fiscale e contributiva. Non a farla crescere. Quello che ha vinto lo ha fatto con maggiore energia e persuasione dell’altro. Noi di Libero Mercato abbiamo sostenuto questa strategia anche e soprattutto perché in un contesto di mercati aperti una pressione fiscale-contributiva prossima al 45% del pil ci rende non competitivi rispetto ad aree dove non supera il 30% (Usa, Canada) o non sfiora il 25% (Paesi emergenti).
Tuttavia, è difficile concepire una manovra interamente dal lato della spesa, per coraggiose che siano le proposte di Renato Brunetta diretta a ridurre i costi della burocrazia ed ambizioso che sia il processo di semplificazione guidato da Roberto Calderoli. Vorrebbe dire posporre gran parte della spesa in conto capitale (con effetti negativi di medio e lungo periodo sulla competitività del sistema Italia) e bloccare non solo nuove assunzioni nel pubblico impiego (pure in aree dove ce n’è esigenza) ma anche i rinnovi contrattuali (innescando una dura conflittualità). Significherebbe inoltre venire meno ad impegni importanti in materia di politica per la famiglia.
In questo quadro, si pone quella che è chiamata, in gergo giornalistico, la Robin Hood Tax e che molti giornalisti chiamano tassa mentre è invece un’imposta sugli utili eccezionali avuti, nell’attuale congiuntura economica, da alcuni settori – innanzitutto l’industria petrolifera ma anche, come evidenziato ( domenica 15 giugno) da Il Corriere della Sera pure altri comparti, specialmente quelli in cui la regolazione è stata lasca. Dell’imposta ancora non si conoscono né gli aspetti tecnici né il gettito che si stima di ricavarne. Su questi punti torneremo quando saranno disponibili i dati essenziali.
E’ naturale che nei confronti dell’imposta si alzi una levata di scudi da parte dei diretti interessati (i settori che dovranno pagarla). Più difficile spiegare i mal-di-pancia di quelli che chiamerei i “liberisti delle feste comandate”, liberali che passano da una crisi (intellettuale) ad un'altra e, tra una geremiade e l’altra, si ricordano unicamente degli aspetti più superficiali delle regole del mercato.
Sotto il profilo della storia economica, le imposte sugli utili eccezionali sono, di norma, introdotte in circostanze di difficoltà economiche speciali. Negli Usa, la prima è stata messa in atto nel 1863 in Georgia in occasione della guerra di secessione. Ancora, dal 1917 al 1921 è stata in vigore un’imposta federale sugli utili eccezionali (con aliquote che arrivano all’80% dei profitti aggiuntivi rispetto a quelli riportati negli anni precedenti il conflitto, ma esentavano parte dei nuovi investimenti). Misure analoghe sono state applicate, negli Usa, dal 1933 al 1935, dal 1940 al 1943 e dal 1950 al 1953. Un’imposta addizionale del 40% sugli utili delle società petrolifere stava per essere varata dal Congresso americano nell’ambito di una politica energetica volta al risparmio delle fonti non rinnovabili. Sono state formulate proposte in questa direzione sia subito dopo l’11 settembre 2001 (a supporto della guerra contro il terrorismo) sia per finanziare la guerra in Iraq. Questi cenni all’evoluzione di un’imposta federale di questa natura in un Paese tradizionalmente a tassazione relativamente bassa (rispetto all’Europa) mostrano come c’è un nesso forte con le situazioni di conflitto armato ma anche che l’imposta è stata applicata anche in momenti di gravi difficoltà (la depressione degli Anni Trenta) senza che ci fosse una guerra in atto od in potenza.
In momenti di difficoltà economiche – lo scriveva anche Hayek in “A Road to Serfdom”- le imperfezioni di mercato si acuiscono, i costi del riassetto non sono simmetrici e, quindi, la mano pubblica deve intervenire (nel modo più neutrale possibile) non solo per ragioni d’equità distributiva ma anche e soprattutto per sostenere il buon funzionamento del mercato e rendere, per tutti, meno lunga e meno pesante la transizione verso un nuovo equilibrio. Questa giustificazione analitica ha il supporto di numerosi studi empirici: l’ultimo (in ordine di tempo) è nel libro, datato maggio 2008 (ed appena giunto in Italia), in cui l’American Economic Association produce un florilegio dei migliori saggi presentati al suo ultimo Congresso Scientifico (tenuto in gennaio a New Orleans). Si tratta di un lavoro di Gilbert Metcalf sulle “tax expenditures” (deduzioni d’imposta) per raggiungere obiettivi di politica energetica. Più vicina a noi una raccolta di saggi sulla tassazione in Europa curata da Krister Anderson, Eva Eberthartinger e Lars Oxelheim. Dai testi citati si ricava che per i liberali che non sono in crisi e che non si ricordano di essere tali unicamente in occasione delle feste comandate si dovrebbe andare verso un sistema ad aliquota unica (od a due-tre aliquote al massimo), privo di detrazioni e deduzioni particolaristiche ma corredato di imposte ad hoc dirette a ridurre imperfezioni di mercato (quali quelli sugli utili eccezionali derivanti da fasi di gravi difficoltà economica).
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