Dopo un inizio deludente, il 71simo Maggio Musicale Fiorentino ( che si estende sino a luglio) ha azzeccato un colpo da maestro: la “prima” italiana di “Phaedra”, ultimo (per ora) lavoro dell’82nne Hans Werner Henze. L’opera ha debuttato a Berlino lo scorso dicembre e ha già avuto grande successo a Francoforte, Bruxelles e Amsterdam. Il viaggio continua a Vienna e forse a Roma (oltre che in vari teatri americani e britannici). Henze è sulla breccia del 1952 quando con “Boulevard Solitude” rese la dodecafonia comprensibile al grande pubblico. Autore prolifico, residente da decenni nei pressi di Roma, si pensava che “L’Upupa” (presentata a Salisburgo nel 2003) fosse il suo utopistico e sereno addio alla vita, anche a ragione di una lunga malattia e della perdita della persona a lui più cara.
Con “Phaedra” appassiona e sconvolge il pubblico, specialmente di quello più giovane che ha affollato il “Goldoni” di Firenze. L’opera, in due atti di 45 minuti ciascuno, si ispira, nella prima parte, ad Euripide e Seneca - al mito greco della donna matura invaghita dal bel figliastro, interessato più allo sport che al sesso. La protagonista si suicida e calunnia il giovane, inducendo il padre del ragazzo a maledirlo ed il Dio del mare a ucciderlo. Nella seconda parte, tratta da Virgilio ed Ovidio, , il giovane è riportato in vita nei pressi del lago di Nemi e diventa il Dio latino dei boschi, Virbio . I fantasmi delle donne ( e delle Dee) che furono prese dalla sua avvenenza quando viveva in Grecia tentano ancora di sedurlo sino a quando in una splendida alba tutti i protagonisti dell’allegoria intonano un coro al giro eterno degli eventi ed al ritorno di ogni realtà naturale dopo la morte. Esplicitando, così, la chiave dell’apologo.
Il libretto è un raffinatissimo poema di Christian Lehnert. I due atti sono contrapposti per colore musicale: il primo è di compostezza apollinea, il secondo è invece orgiasticamente dionisiaco. Un organico di 23 strumentisti per una trentina di strumenti (pochissimi gli archi) e cinque cantanti-interpreti rendono l’opera “trasportabile”. Dualità e simmetrie si ritrovano nella strumentazione, concepita in funzione drammaturgica ed articolata sui due grandi blocchi degli ottoni - che evocano la regalità del mondo di Fedra - e dei legni - che restituiscono il colore dei boschi. Si aggiunge un contributo non secondario delle percussioni che tingono d’ arcaico il lavoro. Ciò che colpisce lo spettatore non specializzato in musica contemporanea è l’accessibilità di una partitura estremamente complessa dominata dal contrappunto e da forti componenti timbriche nonché il carattere sensuale (ove non erotico) della scrittura sia musicale sia vocale. Dopo lustri in cui Henze si è rivolto a tematiche filosofiche, politiche e sociali , torna all’esplosione di eros con cui a 28 anni, con le rappresentazioni di “Boulevard Solitude” in Italia, scatenò polemiche al San Carlo di Napoli ed all’Opera di Roma, ottenendo censure dalla stampa che allora si considerava benpensante e perbenista. E’ un eros filtrato dalla memoria di un 82enne ma ingigantito rispetto a “Boulevard Solutide” (di cui è in commercio un buon DvD)..
Regia (Michael Kerstan), scene e costumi (Nanà Cecchi) e direzione musicale (Roberto Abbado) operano sotto la supervisione dell’autore. Di livello i cinque solisti (Natasha Petrinsky, Cinzia Forte, Mirko Guadagnini, Martin Oro, Maurizio Lo Piccolo). La Petrinsky e guadagnino hanno ruoli specialmente difficili e spiccano sugli altri.
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