La Grecia, il cui pil sta crescendo, nell’anno in corso, al 3% rispetto al pallido 0,5% atteso per l’Italia, sta per superarci in termini di reddito pro-capite. Dall’ingresso nell’area dell’euro nel 2001, la Repubblica Ellenica ha un saggio sostenuto d’aumento della produzione, dei consumi e degli investimenti, mentre l’Italia ristagna (a ragione sia delle stangate fiscali negli anni in cui ha governato la sinistra sia della timidezza con la quale i Governi di centro-destra ha affrontato liberalizzazioni dei mercati dei beni, dei fattori di produzione e, soprattutto, dei servizi). Evitiamo di versare lacrime il giorno in cui l’Eurostat dichiarerà che il sorpasso è avvenuto. Cerchiamo, invece, di capire cosa ha messo il freno al sistema Italia. Alcune determinanti sono sotto gli occhi di tutti: la pressione fiscale (ridotta in Grecia), l’oppressione regolatoria (diminuita nell’Ellade), l’accento sulle politiche per l’export (debole a casa nostra).
Economisti come Yanni Stournaras, dell’Università di Atene e George Pscacharoupolos a lungo, alla London School of Economics e successivamente (rientrato in Grecia) alla guida di un partito iperliberista piccolo ma influente come pungolo per gli altri sottolineano che la differenza principale sta nella politica delle risorse umane. Nell’Ellade si è dato priorità alla modernizzazione della scuola e della università, mentre da noi la riforma Moratti è giunta circa 70 anni dopo quella che porta il nome di Giovanni Gentile. Inoltre, l’enfasi sulla meritocrazia anche nella pubblica amministrazione è stimolo per far restare in Grecia i giovani migliore o fare tornare quelli che hanno espatriato.
E’ triste notare che il principale studio sul “brain drain” dall’Italia non sia stato condotto dai nostri numerosi istituti pubblici di ricerca (che non mancano certo di personale) ma dall’Iza , l’istituto tedesco di studi del lavoro a cura di Amelie Constant che lavora da anni in Germania e di Elena D’Agosto dell’Università di Roma , Tor Vergata. La prima parte del lavoro è descrittiva: esamina, sulla base di una vasta rassegna della letteratura, il fattore “push”, ossia ciò che “spinge” i giovani più promettenti a cercare fortuna altrove. La seconda è analitica : la costruzione di un modello econometrico (di stampo migratorio) per individuare i Paesi “di preferenza”, ossia quelli che meglio utilizzano capitale umano formato, almeno in parte in Italia- con grave danno economico, quindi, per il nostro Paese. Nella terza il modello viene applicato ad una banca dati al 2001 costruita utilizzando informazioni derivanti da studi del Censis, della Fondazione Cassa di Risparmio di Venezia, dal Ministero degli Affari Esteri e dal progetto europeo “Leonardo da Vici”- un campione di circa 3.000 i uomini e donne (in Canada, Ue e Usa), interpellati dall’Iza (ancora una volta è spontaneo chiedersi perché non lo abbiano fatto i nostri enti di ricerca) tramite questionari. La risposta è stata buona: hanno risposto circa un terzo di coloro contattati.
L’età media dei “cervelli italiani” all’estero è 38 anni. Ci sono differenze profonde di genere. Gli uomini sono molto più numerosi delle donne, specialmente negli Usa – segno che il “brain drain” femminile è soprattutto verso il resto dell’Ue, in modo particolare il Regno Unito. In Gran Bretagna troviamo anche la percentuale più alta (il 53%) di italiani con dottorati di ricerca ottenuti al di fuori dell’Italia (rispetto al 31% negli Usa). Paradossalmente, quindi, gli Stati Uniti sono un Paese a capitale umano fortemente “sussidiato” dai contribuenti italiani. Ciò appare marcatamente nelle discipline scientifiche: il 46% degli scienziati italiani in America ha oltre un titolo accademico elevato del nostro Paese anche esperienza all’estero (prima di approdare negli Usa). Il 64% dei “cervelli” italiani negli Usa afferma che la motivazione all’espatrio risiede nelle migliori condizioni economiche, per il 39% in migliori opportunità di carriera, per il 37% per la mancanza di fondi di ricerca in Patria. Il 42% ed il 27% degli scienziati italiani in Gran Bretagna sostiene di avere varcato i confini per determinanti economiche o di carriera, mentre il 20% perché in Italia non c’erano le condizioni di base per fare ricerca. Appena il 10% dei “cervelli italiani” all’estero considera la loro condizione “normale” o frutto della globalizzazione. Imputano la loro scelta alla situazione (tutt’altro che soddisfacente) delle università e della ricerca in generale in Italia. Pronti a rientrare? Certo, purché ci siano condizioni migliori di progressione economica e di carriera e soprattutto di ricerca.
Interessanti alcune conclusioni che si evincono dall’applicazione del modello econometrico. La tendenza è ad emigrare per lavoro nel Regno Unito ed ad andare a studiare negli Usa. In pratica, la Gran Bretagna diventa spesso una tappa di passaggio verso gli Stati Uniti ed in America ci si resta a ragione delle condizioni nettamente migliori offerte dopo il completamento degli studi.
Cosa può fare la politica? Guardare al medio e lungo termine (impostando sin da ora il cambiamento). Altrimenti non si verificherà mai.
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