martedì 24 giugno 2008

TORNA A FIRENZE LA LADY CHE NON PIACQUE A STALIN Il Velino 24 giugno

Roma, 24 giu (Velino) - L’ultima opera del 71esimo Maggio Fiorentino è “Lady Macbeth del distretto di Mzensk” di Dmitri Sostakovic, nell’allestimento che nel 1998 ottenne il “Premio Abbiati” (l’Oscar italiano per il miglior spettacolo lirico). Chiude in bellezza una manifestazione che si è estesa per oltre due mesi (dal 24 aprile al primo luglio) e che ha avuto alcuni elementi deboli, specialmente “Carmen”, spettacolo con il più alto numero di repliche ma non all’altezza dell’evento sia perché si tratta di un’opera molto rappresentata (ben cinque nuovi allestimenti questa estate) sia per la modestia della produzione. Si addice a un festival (che si dovrebbe caratterizzare per una serie di eventi unici) una “ripresa”? Nel caso di “Lady Macbeth del distretto di Mzensk” credo si debba, eccezionalmente, rispondere di sì. Lo spettacolo del 1998 (regia di Lev Dodin, scene e costumi di David Borovsky, direzione musicale di Semyon Bychkov) è stato considerato esemplare sia in Italia sia all’estero. Riguarda, poi, un’opera che ai tempi del “pensiero unico” non veniva quasi mai eseguita nonostante abbia avuto una serie di rappresentazioni esemplari in traduzione ritmica italiana, come si usava all’epoca, alla Fenice nell’ambito del Festival di Musica Contemporanea di Venezia nel 1947.
Dmitri Sostakovic aveva circa 25 anni quando scelse un racconto di Nicolai Leskov come spunto per “Lady Macbeth”, una storiaccia di sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina Lvovna, borghese di provincia mal ammogliata e assatanata, uccide gli uomini che si porta sotto le lenzuola (suocero e marito), il figlio del cognato e anche la nuova fidanzata del suo amante durante una deportazione della coppia omicida - lei e il suo ganzo - verso la Siberia. Bell’uomo, donnaiolo, viveur nella San Pietroburgo che stava diventando Leningrado, Sostakovic si considerava un comunista doc. Non lasciò la Madre Russia (come Stravinsky, Prokofiev e altri) ai primi bagliori della rivoluzione, ma intendeva contribuire a essa con il suo talento. L’opera avrebbe dovuto essere la prima di una tetralogia dedicata alla donna russa, ovviamente alla donna post-rivoluzionaria, liberata sessualmente e politicamente. La “Lady” in fin dei conti uccideva tre kulaki proprietari terrieri reazionari in un mondo in cui la polizia era corrotta e i pope chiudevano, in cambio di una buona offerta alla questua, non uno ma entrambi gli occhi pure di fronte agli omicidi. Sostakovic era convinto di andare sul sicuro dato il successo di pubblico (e di critica “socialista”) della versione cinematografica di Ceslav Savinki in cui (si era negli anni della transizione tra “muto” e “parlato”) sangue, sbudellamenti e torture varie venivano accentuati.
La musica – ha scritto il compositore - era “fatta appositamente alla rovescia, in modo da non ricordare affatto la classica musica d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il linguaggio musicale semplice e comprensibile a tutti”. La “Lady Macbeth” venne rappresentata la prima volta il 22 gennaio 1934 a San Pietroburgo con un esito trionfale. L’opera varcò i confini dell’Urss e venne ripresa anche a Londra, Praga e Cleveland. A neppure un anno e mezzo di distanza dalla “prima”, se ne annunciarono messe in scena a Bruxelles, Parigi e New York. Nel gennaio del 1936 arrivò, attesissima, al moscovita Bolscioi. La mattina del 28 gennaio, la Pravda pubblicò un editoriale non firmato, ma pare dettato dallo stesso Stalin, intitolato “Caos anziché musica nel quale si accusava l’opera di pornografia e cacofonia. Da allora (si era nel 1936) iniziò, per Sostakovic non ancora trentenne, un processo di isolamento che durò sino alla fine degli anni Cinquanta. Il compositore fu costretto a ritirare il lavoro, sua seconda e, per molti aspetti, ultima opera. Passò dal teatro alla musica, si buttò nella sinfonica per grande organico, nella cameristica e negli accompagnamenti ai film (eccezionale il componimento per un “Amleto”).
Solo dopo la morte di Stalin, ritornò, moderatamente, all’innovazione. Nella tredicesima sinfonia introdusse la voce solista (su testi di Evtuscenko). Nel 1963 propose una nuova edizione della “Lady Macbeth”, spurgata, però, nel testo, nella partitura e anche nel titolo (diventato “Katerina Ivanova”): è questa la versione conosciuta in Italia, principalmente tramite tournée dell’Opera di Zagabria, di Lubiana e di Sarajevo a Napoli, Genova e nei circuiti della Lombardia e dell’Emilia-Romagna negli anni ’60 e ‘70. La “Lady Macbeth” del 1934 è riapparsa nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, nel 1992 e nel 2007 alla Scala e nel 1994 e 1998 a Firenze. Cosa irritò Stalin? L’opera è senza dubbio violenta con scene di stupro e di sesso in palcoscenico, ma il film di Ceslav Savinki lo è ancora di più. Alcune scene (quella del commissariato e della corruzione diffusa tra le forse dell’ordine) si riferivano all’epoca zarista, ma probabilmente la situazione non era cambiata molto durante il comunismo. In un breve saggio scritto nel 2006, in occasione del centenario della nascita di Sostakovic, ho sostenuto che alla radice del divieto ci fossero due elementi: la rivoluzione musicale e il successo all’estero di cui Stalin era invidioso e perplesso in quanto dava al mondo un’immagine della Russia differente da quella propagandata dal Pcus.
Due parole sullo spettacolo fiorentino. Nonostante regia, scene e costumi siano quelli del 1998, la direzione musicale è differente. La bacchetta di James Conlon non ha il fuoco e la concitazione di quella di Bychkov (o di quelle di Chung e Gergiev per ricordare altre edizioni recenti) ma è melanconica e a volte ironica come nella scena del commissariato e in quelle in cui è presente un pope ridotto a ridicola macchietta. Grande attenzione ai dettagli. Enfasi sui violoncelli e sui fiati piuttosto che sugli ottoni. Risalto agli intermezzi in cui la buca d’orchestra viene portata al livello del palcoscenico. Una “Lady”, quindi, più dolente che demoniaca. Più vicina forse a quella che Sostakovic intendeva rappresentare. E più tagliente nei confronti del comunismo. Anche per questo non piacque alle nostra intellighenzia sino alla fine degli anni Ottanta (l’edizione spoletina fu fortemente voluta da Gian Carlo Menotti) e pare che Walter Veltroni non la mandi giù ancora oggi.

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