La
Matteonomics sa molto di neuroeconomia. Parola di prof.
12 - 03 -
2014Giuseppe Pennisi
Non sarebbe corretto commentare a caldo il vasto
numero di misure presentate al termine del Consiglio dei Ministri (CdM) del 12
marzo. In primo luogo, si tratta di un grappolo con misure molto difformi: un
atto di indirizzo del Presidente del Consiglio, alcuni disegni di legge, alcuni
decreti leggi, schemi di disegni di legge di riforma costituzionale presentati
non al Parlamento ma al confronto con le forze politiche prima di essere
inviati alle Camere. Non sarebbe neanche appropriato entrare nei dettagli di
coperture, effetti ed impatti. Lo farò quando, rientrato dall’estero, avrò
avuto modo di avere la documentazione, di studiarla e di digerirla.
C’è, tuttavia, un aspetto economico importante
di cui forse il Presidente del Consiglio non è neanche consapevole. E’ la prima
volta che in Italia viene utilizzata la “neuroeconomia” per incidere non sulle
aspettative macro-economiche (tema della tesi di laurea del matusa Mario
Draghi) ma sul morale delle italiane e degli italiani. Per agevolare l’uscita
dalla crisi economica infondendo loro fiducia e dando loro pochi obiettivi
precisi tali però da incidere sul loro orgoglio e sulle loro speranza.
Un’operazione analoga a quella effettuata nel 1978 in Gran Bretagna da Margaret
Thatcher alla prima conferenza stampa e più di recente da Shinzo Abe
in Giappone.
Cosa è la neuroeconomia? I dizionari economici
italiani la classificano come “disciplina nascente” che coniuga psicologia con
economia. In effetti, ha diversi decenni e da alcuni anni ogni giorno cinque
giorni la settimana gli abbonati ricevono un Neuroeconomics E-Journal ed un
Neurofinance E-Journal, densi di saggi, spesso corredati da esperienze concrete
e casi di studio.
In effetti, già Cartesio, tra le sue varie intuizioni,
aveva compreso la necessità di considerare in maniera distinta il cervello e la
mente: il primo come organo fisico, la mente in relazione all’anima. Questo
concetto fu a lungo ignorato dai rappresentanti di spicco dell’economia
classica, che per tutto il ventesimo secolo hanno inteso l’economia come una
disciplina volta unicamente alla definizione delle precise regole
caratterizzanti il comportamento degli agenti economici. Secondo tale
impostazione, l’uomo è un agente dotato di razionalità e pertanto capace di
compiere scelte economiche basate esclusivamente sul libero arbitrio(teoria della
scelta razionale- su sui si basava la tesi, già ricordata, di Draghi).
Nella teoria della scelta razionale, si risale alle
preferenze degli agenti economici attraverso un processo di evidente natura
deduttiva: ad esempio, se A compie l’azione x vuol dire che in quel momento, e
rispetto a quella situazione, x è l’azione più razionale per il fine che A si è
prefissato.
Fortunatamente ad indebolire la visione predominante
del secolo contribuirono la nascita dell’economia sperimentale, negli
anniCcinquanta, e l’avvento delle scienze cognitive, un approccio
interdisciplinare che pone l’accento sullo studio bellamente in relazione al
comportamento, le quali iniziarono a prospettare agli economisti di allora la
possibilità di fondere le loro conoscenze con quelle di studiosi di discipline
come la psicologia cognitiva ed in generale le neuroscienze.
Il presupposto comune a tutte le neuroscienze consiste
proprio nell’analizzare il funzionamento del cervello in relazione alla realtà
esterna all’uomo. È noto del resto, come afferma anche uno dei presupposti
della programmazione neuro linguistica, che “la mappa non è il territorio”: la
realtà oggettiva, quella esterna, viene percepita da ogni essere umano
attraverso dei processi di interiorizzazione che fanno sì che la mappa del
mondo di ogni singolo sia unica e mai uguale a quella di un altro soggetto.
Già da qui è possibile immaginare che genere di
ripercussione abbia generato questa scoperta sulla sfera dell’economia
classica. L’adozione di un’ottica interdisciplinare dunque, ha prodotto delle
rilevanti implicazioni generali sulla comprensione della scienza economica. Per
avvalorare il ruolo della mente umana nelle scelte economiche, Colin Camerer
– uno degli autori più attivi in campo neuro economico – parte da due
osservazioni: prima di tutto, è geneticamente portato a sostenere processi
automatici, contrariamente a quanto considerato dalla teoria della scelta
razionale, che ipotizza meccanismi decisionali razionali e consapevoli; in
secondo luogo, i processi di tipo affettivo, che si contrappongono a quelli
razionali, sono “la regola” e non l’eccezione ed svolgono una funzione
importante durante i processi decisionali. Pertanto, indagare i meccanismi
cognitivi coinvolti nel decision making implica la necessita
di soffermarsi sulla natura dei processi mentali, sia automatici che
controllati. Per la neuroeconomia diventa quindi fondamentale poter attingere
al bacino di conoscenze dell’economia, della psicologia e delle neuroscienze al
fine di descrivere tutte le variabili, anche emotive, che influenzano il
comportamento umano e quindi intervengono in un processo di decision
making.
Tutto questo può sembrare astratto. Renzi non era
nato, e neanche pensato, quando, nel 1966, al tempo dell’alluvione di Firenze,
negli Uffizi, con il fango sino alle ginocchia, l’allora Sindaco Piero
Bargellini disse: Bischeri! Non è momento di piagnistei!! Una
frase che cambiò l’atteggiamento della popolazione: dal dolore per la città in
rovina alla lena per la ricostruzione.
Presentando, subito dopo la vittoria ottenuta alla
Camera sulla legge elettorale, un programma vasto, con alcuni aspetti da
attuarsi in poche settimane (quindi monitorabili, dando alle italiane ed agli
italiani l’obiettivo di medio periodo di essere nel sedile del conducente (non
nel portabagagli) durante l’imminente semestre europeo , impegnandosi a
lasciare la vita pubblica se non riuscirà a porre queste riforme (e quelle
successive) in essere, il Presidente del Consiglio ha messo in pratica tutte le
lezioni della neuro economia. Anche se non lo sa.
E pur se, trattandosi di disciplina sperimentale, solo
il futuro ci potrà dire se funzionano. Oscar Wilde amava dire che “gli
economisti non sono atti a prevedere l’avvenire”. Aveva in gran misura ragione.
La neuroeconomia della Matteoconomics non si propone di prevede il futuro ma di
forgiarlo agendo sulla mente e sulle emozioni.
Se ci riesce, chapeau
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