IL FUTURO DELL’UNIONE MONETARIA
Giuseppe
Pennisi
Perché non sempre sorge il sole alla
fine delle lunghe notti di Bruxelles, dove si negoziano strumenti come l’unione
bancaria, mirati a rafforzare un’unione monetaria che pare sempre più
traballante? E perché raggiunto un accordo, ratificato un protocollo (spesso di corsa ed in Italia nel caso del Fiscal Compact nottetempo), ci si
accorge, nel giro di poche settimane o di pochi mesi, che quanto si è
faticosamente concluso altro non è che una toppa ed occorre metterne al più
presto una nuova?
Una
dimensione importante viene esplorata con una strumentazione quantitativa da Luigi
Guiso (EIEF & CEPR), Helios Herrera (HEC Montreal) e Massimo Morelli (Columbia
University) in un lavoro a circolazione limitata : A Cultural Clash View of the European Union’ . Già dal titolo
ricorda il Clash of Civilitations teorizzato
da Samuel Huntington nel 1992 e per decenni
livre de chêvet della ‘Nuova
Destra’ dell’area atlantica.
Il
tema non è nuovo: da decenni, i sociologici sostengono che i tedeschi hanno
scale valoriali differenti da quelle dei greci o, per restare in Italia, circa
tre decenni fa il socio-economista Robert Putman quantizzò che i veneti ed i
siciliani applicano la stessa normativa in modo diammatricalmente opposto. Di
recente, Enrico Spolaore e Romain Warziag hanno passato in rassegna, sul Journal of Economic Literature, oltre
trecento studi empirici che dimostrano come le ‘norme’ effettivamente seguite
in Paesi e Stati di culture differenti si perdono in abitudini ancestrali che
risalgono nella notte dei tempi e sovente divergono da quelle ufficiali,
appropriatamente legiferate.
La
novità del lavoro di Guiso, Herrera e Morelli (il cui testo integrale può
essere richiesto, a mio nome, a luigi.guiso@eief.it ) è che lo
studio esamina, partendo da dati della World
Value Survey, come ed in che misura le ‘norme’ culturali hanno effetti ed
impatti sui risultati economici anche in un’area come un’unione economica e
monetaria dove le regole sono uniformi. Lo studio esamina in dettaglio come
tedeschi e greci rispondono a domanda su fiducia, lealtà, obblighi nei
confronti della propria famiglia o del proprio Stato, rimborso di debiti
contratti, osservanza di obblighi in generale e via discorrendo. Le differenze
‘culturali’, se molto marcate e molto profonde, agiscono come vincoli sulla
politiche, e comportano spesso decisioni politiche sub-ottimali oppure impegni
politici presi con la convinzione di non dare ad essi seguito.
Nel
caso specifici della fiscal union europea,
quale delineata nel Fiscal Compact,l’analisi
la considera come uno strumento utile non tanto perché potrebbe alla lunga
essere la strada per ‘garanzie comuni’ tramite trasferimenti all’interno
dell’UE (eurobonds o simili), quanto
perché sostituisce numerose autorità (con differenti ‘culture’ e, quindi, o
paralizzate oppure in lite continua a ragione di ‘scontri culturali’) con
un’unica autorità. Ciò faciliterebbe l’impegno a ‘convergere’ verso
comportamenti analoghi e, quindi, politiche analoghi. In tal caso ‘quanto
maggiori sono le differenze culturali tanto maggiori sono i benefici della fiscal union’
Sono
molto meno ottimista di Guiso, Herrera e Morelli. In un articolo pubblicato ne La Rivista di Politica Economica e
relativo specificatamente ai problemi del Mezzogiorno di fronte all’unione
monetaria, sostenni che il Trattato di Maastricht implicava giochi ripetuti tra
agenti economici sulla base delle stesse regole, giochi ad ultimatum, incentivi
a basso e soprattutto ad alto potenziale (la irreversibilità della moneta unica)
che avrebbe inciso (se non sui valori) sui comportamenti di individui,
famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni, ceto politico. I fatti mi hanno
decisamente smentito.
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