IL CASO/ I
teatri stanno male ma la Nuova Opera italiana è in buona salute
Pubblicazione: mercoledì 12 marzo 2014
Foto di Marco Borrelli
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La stagione invernale dei Teatri del Maggio Musicale
fiorentino sta terminando con la messa in scena de La metamorfosi’ di
Silvia Colasanti (classe 1974)’opera della solitudine in tre parti
’ (un atto unico di novanta minuti) composto su libretto di Pier’Alli
(tratto dal racconto di Franz Kafka. Pier’Alli ha anche curato regia, scene,
costumi, luci e video. Il mese prossimo a Bologna sarà in programma Qui
non c’è perché di Andrea Molino, classe 1964). La prossima stagione della
San Francisco Opera sarà La Ciociara di Marco Tutino, la cui opera Senso
è reduce da grandi successi all’Opera Nazionale di Varsavia, ma è stata
inspiegabilmente cancellata dal cartellone del Teatro Verdi di Trieste, che pur
avrebbe esigenza di qualche titolo che porti pubblico in teatro e soddisfi i
critici.
Sia Silvia Colasanti sia Andrea Molino sia Marco
Tutino sono molto eseguiti all’estero. Tutino (classe 1954) è un notissimo; da
anni compone teatro in musica in inglese (ad esempio The Servant) per un
pubblico internazionale. Si pensi al successo mondiale di Three Mile Island di
Molino, sull'incidente nucleare in Pennsylvania nel 1979, nel marzo 2012 allo ZKM
- Centre for Arts and Media a Karlsruhe con i Neue Vocalsolisten
Stuttgart ed il Klangforum Wien – opera vista ed ascoltata in vari
Paesi ma in Italia accolta fuggevolmente al Teatro India.
Silvia Colasanti ha avuto notevoli affermazioni e
onorifici di enti ufficiali all’estero più che in Italia. E’ probabile che La
metamorfosi, nonostante abbia un libretto in italiano, si vedrà ed
ascolterà in Germani, Francia e Stati Uniti prima di approdare in teatri (come
il ‘Malibran’ di Venezia e quelli di alcuni circuiti ‘di tradizione’) con le
dimensioni giuste per accoglierla. Tutto ciò indica che mentre dieci su tredici
fondazioni liriche hanno dovuto fare ricorso alla ‘legge Bray’ per aiuti
straordinari al fine di evitare procedure di liquidazione, la nuova opera
italiana è in buona salute. Specialmente da quando ha abbandonato gli stilemi musicali
e politici di Darmstadt e si affida ad argomenti che il pubblico ‘sente’
(specialmente se tratti da narrativa di successo (od anche da film) ed utilizza
un lessico musicale eclettico ed accattivante.
Veniamo a La metamorfosi, commissionata dal
Maggio Musicale Fiorentina e presentata per poche sere , con grande successo,
nel 2012, ora entra ‘repertorio’; la fondazione lirica della città del Giglio
ha metabolizzato che potrà sopravvivere solo se segue il percorso tracciato da
La Fenice di Venezia e diventare un teatro di semi-repertorio con 180-200
alzate di sipario l’anno ed un cartellone attraente non solo per i 350-400.000
residenti ma per il vasto pubblico di turisti.
Il libretto segue il racconto di Kakfa. All’inizio del
Novecento, in una Praga nebbiosa, Gregorio Samsa, impiegato di concetto in una
ditta commerciale, privo di una moglie, ma con a carico padre pensionato, madre
casalinga e sorelle ‘zitelle, , depresso dall’arroganza dei superiori e dalla
solitudine, una mattina al risveglio scopre di essere diventato un insetto di
dimensioni umane ed in grado di parlare ma con voce alterata. In un primo
momento, la famiglia – soprattutto la madre – cerca di dargli sollievo. A poco
a poco, tutti (anche i suoi cari) gli voltano le spalle anche perché, dopo
che Gregorio è stato licenziato, hanno trasformato l’appartamento in una
pensione ed i loro ‘clienti’ scappano alla vista del ‘mostro’ , il quale pur
trova sollievo nella musica. Viene chiuso in una stanza dove gli viene portato
cibo, che rifiuta. Sino a morire d’inedia. Ed essere gettato nella spazzatura.
In Kafka questo quadro crudele non ha spiragli di speranza.
Nel lavoro di Colasanti e Pier’Alli, c’è, invece, un
forte senso di pietà , non solo da parte delle madre, per un Gregorio sempre
più isolato ed escluso. Una pietà mostrata non solo dell’amore del ‘mostro’ per
la musica ma da una scrittura orchestrale e vocale . Il declamato (a tratti
melologo) scivola in ariosi, in duetti e terzetti ed anche concertati, nonché
in preziosi intermezzi colmi di melanconia. La scrittura ricorda
l’espressionismo di Léos Janácek il quale all’inizio del Novecento uscì dal
romanticismo e dal post-romanticismo, nonché dal wagnerismo di maniera, grazie
ad una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti e
contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati come
avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni
lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori Anche i tempi ed i
metri si alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva
dei movimenti della musica dell’Ottocento e del Novecento storico. Ci sono echi
di musica sacra come il coro fuori scena quasi ‘a cappella’ (in quanto
amplificato e con un delicato accompagnamento musicale). Nella scelta
dell’organico orchestrale per questa sua travolgente partitura composta,
Silvia Colasanti ha compito una “sua” metamorfosi: ha trasformato l’effetto
timbrico di ciascuno strumento o gruppo strumentale, nessuno eccettuato, in un’organizzata
semantica del terrore, dell’orrore e del ribrezzo. Al di sopra di questo
universo sonoro, ma veloce e fuggevole, come una frettolosa punteggiatura,
lancia penetranti lamenti di dolore. Il quintetto d’archi diventa evocatore di
spavento allo stato puro, e di tensione incontenibile come dinanzi a una porta
che si sta aprendo sulla visione del mostro.
Marco Angius concerta un ensemble di una dozzina
di solisti, che nel piccolo ma acusticamente perfetto Teatro Goldoni (nei
vicoli nei pressi di Palazzo Pitti), raggiungono, specialmente nelle dissonanze
sonorità straussiane. Sette i solisti vocali cui aggiungere un attore ed
un danzatore. Un’équipe ben affiatata dove spiccano Roberto Abbondanza (il
padre) e Gabriella Sborgi (la madre). Spettacolo di grande emozione da cui si
esce con grande pietà per gli esclusi.
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