Karlsruhe, 78 pagine per 'blindare'
anche il Fiscal Compact
GIUSEPPE PENNISI
La sentenza letta il 18 marzo a Karlsruhe dai giudici rosso togati della Corte costituzionale tedesca è un documento di 78 pagine in lessico giuridico molto tecnico che ha una portata ben superiore a quanto indicano le cronache basate su dispacci di agenzia. Infatti, non risponde solamente al quesito posto dai ricorrenti sulla legittimità, in base al diritto della Repubblica Federale Tedesca, degli accordi con cui è stata stabilito l’European stability mechanism (Esm): i 700 miliardi di euro, versati dagli Stati dell’Eurozona, conosciuti in lessico giornalistico come Fondo salva Stati.
La sentenza ripercorre meticolosamente il percorso che ha portato dal Trattato di Maastricht ad altri accordi, sotto forma di protocolli interpretativi o di intese interstatuali (che in certi casi non richiedono ratifiche parlamentari o, in certi Stati, referendum). In tal modo, facendo riferimenti puntuali a quelli che possiamo chiamare gli atti fondamentali dell’Unione monetaria, la sentenza dei giudici non trova che i nuovi accordi contraddicano o si distanzino da quanto stabilito e ratificato dal Parlamento tedesco, all’inizio del cammino verso l’euro. La sentenza pone un accento particolare sul Fiscal Compact in quanto, in Germania, il ricorso contro il Fondo salva Stati è da leggersi, sotto il profilo politico, come un nuovo tentativo di mettere in dubbio la costituzionalità dell’accordo sulle politiche di bilancio.
Esaminare in dettaglio il ragionamento giuridico della Corte è compito di riviste scientifiche di diritto europeo. Numerosi giuristi risponderanno all’invito. Senza dubbio, nei prossimi mesi si svilupperà un dibattito molto accesso.
A noi, e ai lettori di quotidiani, interessa soprattutto esaminare il significato politico ed economico della sentenza, le strade che apre ed anche quelle che chiude. In primo luogo, mette un punto fermo nelle discussioni sull’opportunità o meno di aggiornare il Trattato di Maastricht, a circa 25 anni dal negoziato. Il confronto è tra un cambiamento 'a spizzichi e bocconi' o, invece, l’inizio di una nuova grande trattativa per riscrivere tutto da cima a fondo e successivamente sottoporre il prodotto a ratifica o, ove necessario, a referendum. Su questo punto, la sentenza è chiara: una riscrittura del Trattato non è giuridicamente necessaria sino a quando si resta nel suo alveo. Può, però, essere politicamente opportuna per evitare l’accavallarsi di norme (in lessico giornalistico, si tratterebbe di fare 'un testo unico' piuttosto che un nuovo Trattato). Sotto il profilo politico, è una porta, quindi, che si apre.
Nell’euforia dei commenti sulla sentenza, non si deve evitare poi di vedere che essa chiude l’opzione di rivedere il Fiscal Compact o di dare ad esso interpretazioni lasche per avere deroghe in materia di rapporto indebitamento netto e Pil e di riduzione dello stock di debito pubblico. Al contrario, la costituzionalità del Fondo salva Stati è giustificata nella sentenza proprio grazie al rigore del Fiscal Compact. Per chi ha un forte debito rispetto al Pil, la strada resta stretta e in salita.
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