OPERA/
Il teocon "Maometto Secondo" debutta a Roma (due secoli dopo il San
Carlo di Napoli)
Pubblicazione:
lunedì 31 marzo 2014
Foto di Roberto
Tagliavini
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NEWS Musica
Cosa
hanno in comune Gioacchino Rossini e Giuliano Ferrara? L’amore per la buona
tavola, verrebbe spontaneo rispondere. C’è un nesso più sottile;
ambedue nascono in un contesto rivoluzionario ma con il passare degli anni
diventano ciò che, nel linguaggio odierno,si dice “teocon”. Rossini,
figlio di rivoluzionario e cresciuto in un clima addirittura repubblicano
(nello Stato Pontificio a cavallo tra Settecento ed Ottocento), diventò
“teocon” abbastanza presto; a 28 anni, con il Maometto Secondo”
napoletano (accolto, peraltro, con un clamoroso insuccesso il 3 dicembre 1820),
lo era apertamente, ma già nel 1813 con L’Italiana in Algeri e nel
1814 con Il Turco in Italia, aveva mostrano un’indole tutt’altro che
simpatetica nei confronti dell’islam; in una Penisola allora in gran parte
sotto il dominio francese, prese posizioni patriottiche inaudite, e del tutto
insolite, per un giovane musicista povero in canna ed all’inizio della
carriera. Siamo mille miglia distanti da Il Ratto dal Serraglio di un
giovane Mozart, cattolico e massone, nonché imbevuto dell’illuminismo
settentrionale che aveva gustato a Milano.
Queste
riflessioni vengono stimolate dalla prima esecuzione a Roma dell’edizione
napoletana del Maometto Secondo con le scene e costumi dell’allestimento
presentato a Venezia nel carnevale 2005. In effetti, il compositore sapeva che
aveva per le mani un capolavoro ; lo riadattò, sostituendo il ‘finale tragico’
con un ‘finale lieto’, auto imprestato da La Donna del Lago. Tuttavia–
ricorda Riccardo Bacchelli nella “Vita di Rossini” – cadde miseramente
il Santo Stefano del 1822 alla Fenice; non si ebbe il coraggio di darle neanche
la chance di una sola replica.. L’edizione veneziana differisce da quella
napoletana principalmente per alcuni rabberci (culminati con
l’interpolazione del rondò “Tanti affetti” de La Donna del lago
al posto del “finale secondo”, tragico ed asciutto, del Maometto
napoletano). Se l’edizione napoletana ha dovuto aspettare sino al 1983 per
essere ripresa, grazie al coraggio di Philip Gossett, Claudio Scimone e
Gianluigi Gelmetti , ed essere riconosciuta come uno dei capolavori – forse
come il capolavoro sommo- di Rossini, la versione veneziana non è mai
stata riascoltata da quel 26 dicembre 1822.
Cosa
c’è di “teocon” nelle due versioni di Maometto Secondo? E come mai se ne
avvertono già i germi in “turqueries” spesso classificate come “opere buffe”
quali L’Italiana in Algeri e Il Turco in Italia? E perché, non
contento degli smacchi al San Carlo ed alla Fenice, Rossini riprese una terza
volta Maometto, nel 1826, rendendolo, se vogliamo, ancora più “teocon”,
quando lo riciclò come lavoro nuovo di zecca (comunque, lo avevano visto in
pochi), per l’Accadémie Royale de Musique e modificando luogo dell’azione e
alcune parti del libretto, ne fece Le Siège de Corinthe?
Tralasciando
per il momento gli aspetti musicali – di inaudita modernità e tali da
anticipare di quasi cinquanta anni il superamento degli schemi formali e di articolarsi
in vaste strutture collegate da un complesso procedimento di elaborazione
tematica - , veniamo alla materia. Il libretto non era di uno dei tanti
poetastri prezzolati dagli impresari di teatri lirici, ma di Cesare Della
Valle, Duca di Ventignano, nobiluomo e drammaturgo di rango. La fonte di Della
Valle – ricorda Bruno Cagli in un saggio di una ventina di anni fa – era una
tragedia di Voltaire, Mahomet ou la Fanatisme - un titolo eloquente.
Della giustapposizione tra mondo occidentale e fanatismo islamico (l’essenza
della tragedia di Voltaire), il Della Valle colse poco e ne fece un’azione
drammatica di amore e guerra durante l’assedio di Negroponte da parte delle
armate di Maometto Secondo. La musica (non credo che Rossini abbia mai letto il
testo francese) ne catturò molto di più: gli schemi formali vengono rotti – si
pensi alla lunghissima scena chiamata “terzettone” di proprio pugno da Rossini
in persona- proprio per contrapporre due universi incomunicabili.
Non solo (e qui il testo di Della Vella c’entra un po') ma il mondo
dei tre protagonisti occidentali (Paolo, Anna e Calbo) non è ispirato
unicamente al razionalismo laico alla Voltaire: si respira trascendenza sia
nelle preghiere degli assediati sia soprattutto nel sacrificio di Anna grazie
al quale salva la Patria. L’opera diventa “la sinfonia eroica” di Rossini – la ha
acutamente definita così Giovanni Carli Ballola in un saggio di
venticinque anni fa – proprio in quanto al “fanatismo” di Maometto e delle sue
schiere viene contrapposto l’afflato di valori liberali e religiosi degli
europei. La contrapposizione è naturalmente ancora più forte in Le
Siège de Corinthe; il testo venne rielaborato da Luigi Balocchi e
Alexandre Soumet non tanto per aggiungere sinfonie, danze ed altre convenzioni
della piazza parigina quanto per un pubblico che faceva il tifo per l’irredentismo
greco (dal gioco ottomano) a supporto del quale intellettuali e poeti europei
andavano a morire.
Questa premessa storico-politica mi sembra necessaria per
commentare il debutto romano – di proporzioni quasi wagneriane (quattro ore di
spettacolo interrotte da un breve intervallo). Pierluigi Pizzi ha ben adattato
la drammaturgia presentata a Venezia nel 2005 al ‘finale tragico’ della
versione napoletana. Sulla scena ci sono le forti passioni (amore, politica,
guerra) che animano il libretto di Della Valle (il migliore avuto da
Rossini per le sue ‘opere serie’). Ma essere paiono essere pallide in buca; in
breve Roberto Abbado ha dilatato i tempi, specialmente nel primo tempo, facendo
mancare le tensioni delle esecuzioni di Scimone, Gelmetti e Kuhn (quello che
conosco meglio anche in quanto delle prime due esistono ottime registrazioni).
Inoltre, in certi momenti è apparso seguire i contanti più che dare ad essi
direzione e coesione. Occorre ammettere che si è ripreso nella seconda parte,
specialmente nella lunga scena finale nel cimitero.
Tra le voci una sorpresa: Roberto Tagliavini nel ruolo del
protagonista a cui l’opera è intitolata. Sostituisce in molte repliche Alex
Esposito, indisposto. E’ un baritono-basso di grande levatura vocale , anche se
nella portatura appare più come un bel ‘padano’ che un sensuale ma crudele capo
dei ‘maomettani’. Dizione perfetta, fraseggio di livello e grande estensione
del registro. Accanto a lui Marina Rebeka, bella e brava soprano lettone, in un
ruolo impervio per la drammaticità ed il virtuosismo vocale che richiede con
una presenza scenica continua per tutta la durata dell’opera: non fa
rimpiangere June Anderson e Cecilia Gasdia il cui nome è associato alla
riscoperta di Maometto Secondo, Juan Francisco Gatell è un vibrante
Paolo , altro ruolo difficile di tenore lirico di coloratura, Alisa Kolosova ,
brilla nella ‘grande aria’ di Calvo nella seconda parte, Efficaci sia il coro
sia Enrico Iviglia e Giorgio Trucco nei ruoli minori.
A duecento anni circa della prima napoletana, il debutto romano
di Maometto Secondo è stato salutato da circa dieci minuti
d’applausi.
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