Vi confesso
perché questa Legge di stabilità mi ha sconcertato
31 - 10 -
2013Giuseppe Pennisi
Non ho commentato sino ad ora il disegno di legge di stabilità perché
quando ho avuto in mano il testo giunto al Senato ho provato un senso di
sconcerto. Probabilmente, sentimenti analoghi sono stati avvertiti da numerosi
senatori della Repubblica. Non lo proveranno i deputati perché a Montecitorio
arriverà un articolato differente da quello che si sta analizzando, e
modificando, a Palazzo Madama.
Lo sconcerto ha a che fare in primo luogo con la lunghezza e la complessità del documento.
A mia memoria, la legge di stabilità deve indicare:
a) il livello massimo del ricorso al mercato finanziario e del saldo
netto da finanziare in termini di competenza, per ciascun anno considerato
nel bilancio pluriennale (ivi comprese le eventuali regolazioni contabili e
debitorie pregresse) e le variazioni di aliquote, detrazioni e scaglioni,
nonché le altre misure che incidono sulla determinazione del quantum della
prestazione, in relazione alle diverse tipologie di imposte, tasse e
contributi, con effetti a partire dal 1° gennaio dell’anno cui la legge di
stabilità medesima si riferisce (in relazione alle sole imposte, essa deve
anche indicare le correzioni conseguenti all’andamento dell’inflazione);
b) gli importi dei fondi speciali e le corrispondenti tabelle, vale a
dire le somme, ripartite per ministeri, destinate alla copertura dei
provvedimenti legislativi che si prevede saranno approvati nel corso degli
esercizi finanziari compresi nel bilancio pluriennale, distintamente per la
parte corrente e per la parte di conto capitale Una serie di tabelle in
allegato alla legge di stabilità sono finalizzate ad indicare, per ciascuno degli
anni considerati nel bilancio pluriennale: bI) gli importi relativi alle
leggi di spesa di carattere permanente la cui quantificazione è rinviata alla
legge di stabilità, aggregate per programma e per missione, con l’esclusione
delle spese obbligatorie; bII) gli importi delle leggi di spesa in conto
capitale a carattere pluriennale, aggregate per programma e per missione, con
specifica ed analitica evidenziazione dei rifinanziamenti, delle riduzioni e
delle rimodulazioni; bIII) gli importi delle riduzioni delle
autorizzazioni legislative relative alla spesa di parte corrente, aggregate per
programma e per missione; bIV) l’importo massimo da destinare ai
contratti del pubblico impiego e alle modifiche del trattamento economico e
normativo del personale dipendente dalle amministrazioni.
c) le norme che comportano aumenti di entrata o riduzioni di spesa, ad
esclusione delle norme a carattere ordinamentale ovvero organizzatorio, facendo
salva l’eccezione delle spese recate da norme eventualmente necessarie a
garantire l’attuazione del Patto di stabilità interno, nonché a realizzare il
Patto di convergenza disciplinato dalla legge sul federalismo fiscale n. 42 del
2009;
d) le norme recanti misure correttive degli effetti finanziari delle
leggi la cui attuazione possa recare pregiudizio al conseguimento degli
obiettivi di finanza pubblica;
e) le norme eventualmente necessarie a garantire l’attuazione del
Patto di stabilità interno e del Patto di convergenza.
In breve, anche per evitare che il ddl, prima, e la legge,
poi, diventino “un vestito d’Arlecchino” (per utilizzare una frase di Giuliano
Amato) oppure un treno su cui tutti, tentato di salire, dovrebbe essere un
articolato stringato, quasi all’osso, sui saldi e sulle misure da attuare per
pervenirvi. Invece, questa volta, il “vestito d’Arlecchino” e la tradotta della
finanza escono da Palazzo Chigi per andare dritti dritti in Parlamento.
Ad esempio, il solo titolo 2 (relativo alle
misure per rilanciare lo sviluppo) contiene sette articoli e oltre 100 commi rivolti
a micro-provvedimenti; ciò indurrà non solo ad un vero e proprio assalto al
treno(per aggiungere altri micro-provvedimenti ora non inclusi) ma una vera e
propria frammentazione legislativa con moltiplicazione degli obiettivi,
inevitabile confusione tra finalità e strumenti, irrigidimento nell’impiego
delle risorse con difficoltà di spostare fondi da progetti di spesa in ritardo
ad altri che avanzano più rapidamente.
Appare, poi, mancare un coordinamento settoriale e
territoriale degli interventi , almeno in linea, ad esempio, con le
proposte di riforma istituzionale formulate dai “saggi”. Alcuni titoli del
disegno di legge, poi, sono in contrasto con regole di base sul bilancio dello
Stato, quale l’introduzione di “norme ordinamentali” ( titolo 3 del disegno di
legge) nella legge di stabilità oppure con il principio di leale collaborazione
tra livelli di governo (il titolo 4 del disegno di legge). Si potrebbe
continuare.
È importante sottolineare che questi aspetti possono
sembrare “tecnici” o “di lana caprina” ma è su questo scoglio che si
incagliano i provvedimenti normativi e la loro effettiva capacità di
incidere o meno.
Ciò non vuol dire che non si debba dare peso ai commenti della Banca d’Italia e della Corte dei Conti sull’ottimismo forse eccessivo del quadro macroeconomico. Se, però, ad ipotesi che si rivelassero troppo positive sull’andamento dei macro-aggregati si aggiungo norme farraginose, ci si mette in una camicia di forza da cui sarà difficile (in caso di esigenza) districarsi.
Ciò non vuol dire che non si debba dare peso ai commenti della Banca d’Italia e della Corte dei Conti sull’ottimismo forse eccessivo del quadro macroeconomico. Se, però, ad ipotesi che si rivelassero troppo positive sull’andamento dei macro-aggregati si aggiungo norme farraginose, ci si mette in una camicia di forza da cui sarà difficile (in caso di esigenza) districarsi.
Cosa pensare? Da un lato, che al Governo sono mancate
le collaborazioni tecniche necessarie per approntare il documento. Da un
altro, che l’Esecutivo abbia voluto lasciare al Legislativo ampio margine di
manovra per mostrare la propria creatività. Ma anche negli Usa, dove la seconda
interpretazione è un po’ la prassi, eventi recenti mostrano che non è un metodo
così buono.
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