martedì 22 ottobre 2013

Una Turandot politica ed erotica chiude la stagione dell’Opera di Roma in Formiche 22 ottobre



Una Turandot politica ed erotica chiude la stagione dell’Opera di Roma
22 - 10 - 2013Giuseppe Pennisi Una Turandot politica ed erotica chiude la stagione dell'Opera di Roma
Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto
Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto
Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto
Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto

Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto
Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto
Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto
Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto

Teatro dell'Opera TURANDOT di Giacomo Puccini, regia di Roberto

Si è mai pensato a Giacomo Puccini come compositore di teatro in musica “politico”? E’ un aggettivo attribuito a Giuseppe Verdi ed altri maestri del Risorgimento italiano, nonché a numerosi compositori tedeschi ed a quelli dell’Europa centrale ed orientale alla ricerca di vie nazionali all’opera in tempi in cui, dalla fine degli imperi multinazionali, nascevano gli Stati Nazionali. Puccini è anzi visto come un impolitico per eccellenza. Visse in un’Italia travagliata dalla febbre della politica – l’età giolittiana, il trasformismo della sinistra di Depretis, la prima guerra mondiale, le vicende che portarono all’avvento del fascismo. Diventò ‘tessera No.2’ del PNF  di Viareggio. Ottenne un’udienza dal Capo del Governo e gli presentò un piano per costruire un Teatro dell’Opera modernissimo a Via IV Novembre, dedicare il Costanzi al balletto, nonché un finanziamento per una tournée di opere italiane a Londra. Mussolini gli offrì un caffè e rispose secco: ”Maestro, non c’è una lira”.
Il travaglio politico di Puccini
Il travaglio politico si percepisce appena in “Tosca” (la prima opera italiana del Novecento) dove la stessa ambientazione romana avrebbe potuto accentuarlo. Scelse i suoi argomenti o in favole lontani (Egdard, Le Villi, Turandot) oppure in letteratura straniera (Manon Lescaut, Bohème, Butterfly, Il Tabarro, Fanciulla del West, la stessa Tosca). Partecipò da giovane a movimenti culturali della Milano “della contestazione” (di fine Ottocento) ma non prese mai parte attiva alla politica o, per quel che ne sappiamo, se ne interessò. Spiego la sua adesione al PNF poiché ormai adulto, si considerava un ‘uomo d’ordine’ e riteneva l’ordine come essenziale per comporre.
Eppure “Turandot”, sua ultima opera, viene letta da di Roberto De Simone, nell’allestimento colossal in scena a Roma dal 23 ottobre  come un lavoro a chiave politica. In breve, nella Cina di mille anni fa, la principessa Turandot, turbata da una violenza tentata su di lei bambina, prenderà in sposo unicamente chi sa rispondere a tre suoi indovinelli; se si accetta la sfida e non si risponde, c’è il taglio della testa. Il principe Calaf (di cui è innamorata la umile Liù), giunto da terre lontane, si innamora a prima vista di Turandot. Scioglie gli indovinelli  e chiede alla crudele principessa di scoprire il suo nome e la sua origine prima dell’alba. Turandot fa mettere a ferro e fuoco la città e fa uccidere Liù per avere il segreto. Capisce improvvisamente cosa è l’amore e si scioglie dal suo ghiaccio. Dove è il “politics” in questa trama (tratta da una fiaba teatrale di Carlo Gozzi)?
Nella lettura di De Simone, Il vecchio, cieco, Timur, padre di Calaf, viene dalla dinastia di origine della Manciuria che ha governato sul Celeste Impero prima dell’avvento di quello dell’Honan di cui è parte Turandot. In questo schema, Calaf si è recato a Pechino per fare sua la principessa (con l’astuzia ma se del caso anche con modi poco delicati) e riprendere il trono avito. Solo vedendola se ne innamora e coniuga l’astuzia con modi più dolci: vuole che sia lei a desiderarlo sotto le lenzuola (scoprendone il nome) non sia costretta ad essere, in pratica, stuprata. L’ambientazione è, poi, quella del mausoleo di Xian con i suoi guerrieri di terracotta.
Una lettura plausibile?
Con Puccini – in effetti con Manon Lescaut- l’eros ritorna alla grande nel teatro d’opera italiano da dove era stato bandito nei lunghi anni del melodramma verdiano. La partitura di Turandot trasuda di eros anche in quanto ispirata a Richard Strauss e a Claude Debussy, ma incorporata, dilatandoli, certi aspetti (il ruolo fondante e fondamentale del coro) dei lati più “politici” del melodramma verdiano. Quindi, è una chiave che ha una sua solidità. Era “politica” anche politicissima la ironica e raffinata Turandot  di Ferruccio Busoni (poco eseguita in Italia), tratta anche essa da Carlo Gozzi, e messa in scena circa dieci prima di quella di Puccini: in Busoni, come in Gozzi, la fiaba cinese era una critica sferzante al potere, alle sue regole ed ai suoi riti. Era “politico” il cinematografo (lo chiamavano così) dell’epoca – settimana arte molto amata da Puccini che su di essa ha modellato sia Fanciulla del West  sia Turandot.
Nell’allestimento in scena a Roma, sul podio torna il Maestro Pinchas Steinberg, già apprezzato nella capitale nel 2012 alla direzione di un altro capolavoro pucciniano Madama Butterfly. E’ importante sottolineare che questa edizione di Turandot vedrà la conclusione con la scena della morte di Liù, cioè senza il finale di Alfano, così come l’ha lasciata Giacomo Puccini, il quale non riuscì a completare l’opera per la prematura scomparsa. Così come avvenne alla prima, del 1926 alla Scala, diretta da Toscanini, il quale al terzo atto, dopo l’aria “Tu che di gel sei cinta” depose la bacchetta e, rivolto al pubblico, disse commosso: “Qui il Maestro è morto”. Lasciò quindi la sala nel silenzio generale. Ciò rende ancora più forte il carattere ‘politico’ della lettura poiché non c’è lo ‘scioglimento’ finale con l’innamoramento della psicopatica principessa.
L’interrogativo
Resta un interrogativo perché Puccini non riuscì a completare l’opera pur essendo giunto a comporre il lavoro sino alla morte di Liù diversi mesi prima che il cancro alla gola si acuisse. L’interpretazione corrente è che il compositore lucchese mirava ad un duetto che fosse all’altezza di quello del secondo atto del wagneriano Tristan und Isolde. E plausibile, ma credo che Puccini ebbe un colpo finale quando a Vienna venne invitato ad ascoltare un’esecuzione al pianoforte di Die tote Stadt dell’allora ventiduenne Erich Wolfang Korngold.  Disse che il ragazzo era ‘la più grande speranza della nuova musica tedesca’ ma si rese probabilmente conto che non avrebbe mai comporre un’opera così intrisa di eros e di politica (come il capolavoro del giovanotto). E si sentì finito.
I protagonisti
La regia all’Opera di Roma è di Roberto De Simone, ripresa da Mariano Bauduin (nell’edizione andata in scena nel 2009 al Teatro Petruzzelli) con un allestimento che ripercorre l’antico modello della fiaba originale persiana. Grazie anche alle scene firmate da Nicola Rubertelli e ai costumi di Odette Nicoletti, cariche di colori che evocano una Cina arcaica e misteriosa.. Maestro del Coro dell’Opera di Roma Roberto Gabbiani.
In scena, ad interpretare la complessa vicenda nel ruolo di Turandot, Evelyn Herlitzius si alterna con Elena Popovskaya (24, 26, 29, 31 ottobre); nel ruolo di Calaf Marcello Giordani e Kamen Chanev (canterà il 24 e 26 ottobre); nei panni di Liù, Carmela Remigio e Maija Kovalevska (canterà il 24, 26 e 30 ottobre); Timur è interpretato da Roberto Tagliavini; Ping è Simone Del Savio, Pong è Saverio Fiore e Pang è Gregory Bonfatti.

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