martedì 8 ottobre 2013

L’Europa di fronte alle migrazioni in Lindro 8 ottobre



Migrazioni internazionali e asilo politico
Non bastano gli studi. Servono politiche risolutive di Giuseppe Pennisi
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La tragedia di Lampedusa, che ha seguito a ruota quelle connesse con sbarchi sulle coste siciliane, dovrebbe porre le politiche dell’Europa, nei confronti dell’immigrazione al centro dell’attenzione. Ma non è così: se si guarda il sito della Commissione Europea ci si accorge che sino ad ora si è starnazzato: il risultato maggiore, risalente al 2011, è che il permesso di soggiorno ottenuto in un Paese UE vale anche negli altri anche se più volte la Francia ha dato prova di non volerlo o saperlo applicare.  Dopo le ultime ondate, i centri d’accoglienza nel nostro Paese sono allo stremo.. Si è anche tentato di mettere in atto un discusso ponte – aereo per agevolare il rimpatrio forzato dei clandestini. La “hard line” ha creato non solo tensioni all’interno delle forze politiche e titoli sulle prime pagine di molti quotidiani internazionali (anche americani).
E’ un nodo più o meno transitorio, come fu alcuni anni fa , quello dello sbarco di clandestini dai Balcani sulle coste pugliesi alcuni anni orsono? E’ un problema che si riuscirà a risolvere con un più efficace controllo delle coste da parte di tutti i Paesi coinvolti? Oppure siamo alle prese con una sfida strutturale che, per essere affrontata, richiede una strumentazione molto più complessa?
Cerchiamo di chiarire alcuni punti sulla scorta di lavori recenti. Non posso, però , non fare un riferimento: nel lontano 1980, in congedo sabbatical dalla Banca Mondiale presso il Centro della Johns Hopkins University di Bologna, giunsi a scrivere un libro sul problema (di cui allora si vedevano i primi sintomi). La ricerca era sostenuta oltre che dalla Banca Mondiale, dalla Ford Foundation, dalla Fondazione Al-Ahram del Cairo e dal Deutsche Orient Institut di Amburgo. Non si trovò un editore italiano interessato. Il libro venne pubblicato ad Amburgo in lingua inglese.
 
Allora era difficile quantizzare le dimensioni del fenomeno. Oggi ne sappiamo molto di più. Particolarmente pregevoli due studi di Timothy  J. Hatton dell’Australian National University e di Jeffrey Williamson di Harvard, ambedue apparsi in luglio nella collana del Nber (National Bureau of Economic Research) degli Stati Uniti (e di cui sono disponibili ampie sintesi sul web). Permettono di toccare con mano una dimensione speciale e poco studiati: quanti sono i “rifugiati” che ottengono o cercano “asilo politico”, una categoria da distinguere da chi emigra unicamente per ragioni economiche. A riguardo è importante tenere presente che uno degli aspetti centrali al dibattito politico (e italiano e europeo) riguarda la distinzione tra “rifugiati” e “clandestini” e si debba essere considerati “rifugiati” (piuttosto che “clandestini”) unicamente in caso di persecuzione politica diretta.
Veniamo allo stock: nel mondo intero, i “rifugiati” sono adesso circa 20 milioni mentre erano appena 3 milioni all’inizio degli Anni Settanta. Il dato di flusso è ancora più impressionante: le richieste di “asilo politico” sono decuplicate da 50.000 a oltre 500.000 l’anno. In breve da un ruscello ad una vera e propria valanga: i due studi (che sono, però, di parte australiana ed americana) affermano che  l’evoluzione delle politiche e delle strategie dell’Unione Europea (Ue) per fare fronte al problema è stata lenta e disordinata.  La situazione è particolarmente  grave poiché in uno dei due studi di Hatton e Williamson  si documenta come nei Paesi importatori di mano d’opera si sia passati da una fase di selezione “positiva”, anche di sostegno, nei confronti dell’immigrazione ad una invece di selezione “negativa” basata su quote.
Cosa si intende con questi termini? La selezione “positiva” vuole dire cercare di attirare migranti nelle professionalità (non solo di basso livello) di cui si esigenza per la crescita economica: ad esempio, gli Stati Uniti e la Germania hanno modulato, in passato, l’immigrazione di informatici (di varie qualifiche). La selezione “negativa”, invece, è quando sostanzialmente si tenta con misure amministrative di contenere i flussi (rinunciando, spesso, anche a pilotarne la composizione professionale). La marea dall’Africa è difficilmente arrestabile: la popolazione del continente è passato da 600 milioni nel 1980 ad un miliardo circa, a cui se ne aggiungerà un altro miliardo entro il 2050. Ciò dipende non da politiche nataliste ma dall’aumento dell’aspettativa alla nascita (e quindi dalla diminuzione della mortalità infantile). Nessuno propone di fare marcia indietro su questi due fronti. Quindi occorre essere pronti ad ondate sempre più forti e sempre più lunghe.
Però, l’immigrazione – sottolinea un saggio di Marcus Noland dell’Institute for International Economics –  sta diventando una miccia per la xenofobia; coniugando indicatori sull’atteggiamento della popolazione (i Pew Global Attitudes Indicators) con strumenti econometrici, Noland dimostra che la xenofobia genera ostilità all’economia di mercato, aumenta il rischio Paese e frena gli investimenti diretti dall’estero. Se ne sono avuti avvertimenti concreti nelle recenti elezioni in alcuni Länder della Repubblica Federale Tedesca, specialmente in quelli un tempo appartenenti alla Germania Orientale. Di recente nei quartieri sud-est di Berlino, per una serie di conferenze alla Fachoschule fur Verwaltung and  Rechtspelflege (FHVR- L’università di scienze applicate dove viene formata la pubblica amministrazione tedesca), nel vasto quartiere universitario, caratterizzato anche da enormi palazzi in stile sovietico ed abitati da famiglie a reddito medio basso, ho visto  solo ristoranti pachistani; dopo l’imbrunire nei grandi viali non si vedevano, a piedi, che extra-comunitari. Tenuti a distanza anche dagli studenti.
Altre preoccupazioni emergono dal lavoro Ocse “Tendances des migrations internationales”. Lo studio pubblicato periodicamente viene, in gran misura, ignorato dalla stampa italiana. E’ specialmente interessante in quanto è un’analisi con dati a consuntivo del ruolo degli immigranti nel mercato del lavoro dei maggiori Paesi Ocse. Il numero dei “lavoratori nati all’estero” si è stabilizzato (a livelli elevati) in Paesi come la Germania, la Francia, il Benelux e la Svizzera. E’, invece, cresciuto molto rapidamente in Italia e Regno Unito ed è diventato un fenomeno nuovo con cui devono confrontarsi Paesi come la Grecia, la Spagna ed il Portogallo (nonché, in terre lontane, il Giappone) che sino a quindici anni fa non conoscevano l’immigrazione. L’analisi Ocse non tiene in considerazione i clandestini; riguarda esclusivamente i lavoratori “regolari” con permessi di soggiorno e contratti di impiego identici a quelli di chi è nato nel Paese dove è occupato. Con rare eccezioni (Norvegia e Regno Unito), gli “stranieri” hanno livelli d’istruzione notevolmente più bassi di quelli dei “nazionali” .
Chi è nato all’estero (sempre tra i “regolari”) è molto più propenso alla disoccupazione ed all’emarginazione sociale. Il quadro  diventa molto più fosco se si tiene conto di stime, più o meno affidabili, del “sommerso” e di varie forme di clandestini. Questi elementi sono presi in considerazione da  Mark Kleinman che ha pubblicato su 'The political quarterly' un’attenta analisi costi benefici dei costi e dei benefici economici delle migrazioni; a livello dell’economia  mondiale l’impatto è positivo perché comporta una migliore distribuzione del fattore di produzione lavoro, ma i rendimenti complessivi sono, comunque, bassi perché i costi (e individuali e sociali) sono elevati.
Alle vecchie ondate, innescate dal cammino della speranza verso un avvenire economico e politico migliore, se ne sta aggiungendo una nuova  tratteggiata da Andrea M. de Boer e Valerie Hudson  in un libro recente.  Le politiche di controllo delle nascite, le culture tradizionali e la diffusione delle tecniche di selezione pre-natale hanno, in Cina ed in India (una popolazione complessiva di 2,4 miliardi di uomini e donne) stanno sviluppando  società in cui per ogni 120-130 giovani maschi in età di prendere moglie non ci sono più di 100 ragazze.  Già oggi in Cina  c’è  una differenza di 60 milioni tra uomini e donne in questa fascia d’età. Il dislivello è tanto acuto che la Cina, gradualmente e silenziosamente, modificando la propria politica di controllo delle nascite; ci vorranno, però, almeno trent’anni perché il cambiamento di politica dia risultati concreti. Secondo lo studio, i giovanotti non avranno altra scelta che andare alla conquista di donne in terre e Paesi altrui per soddisfare i propri istinti di sesso e di paternità.
In questo quadro, cosa fa l’Europa? Organizza seminari e convegni di studio.
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