Migrazioni
internazionali e asilo politico
Non bastano
gli studi. Servono politiche risolutive di Giuseppe Pennisi
- See more at:
http://www.lindro.it/politica/2013-10-08/103165-leuropa-di-fronte-alle-migrazioni#sthash.98hx9a95.dpuf
La tragedia di Lampedusa, che ha seguito a ruota quelle
connesse con sbarchi sulle coste siciliane, dovrebbe porre le politiche
dell’Europa, nei confronti dell’immigrazione al centro dell’attenzione. Ma non
è così: se si guarda il sito della Commissione Europea ci si accorge che sino
ad ora si è starnazzato: il risultato maggiore, risalente al 2011, è che il
permesso di soggiorno ottenuto in un Paese UE vale anche negli altri anche se
più volte la Francia ha dato prova di non volerlo o saperlo applicare.
Dopo le ultime ondate, i centri d’accoglienza nel nostro Paese sono allo
stremo.. Si è anche tentato di mettere in atto un discusso ponte – aereo per
agevolare il rimpatrio forzato dei clandestini. La “hard line” ha creato non
solo tensioni all’interno delle forze politiche e titoli sulle prime pagine di
molti quotidiani internazionali (anche americani).
E’ un nodo più o meno transitorio,
come fu alcuni anni fa , quello dello sbarco di clandestini dai Balcani sulle
coste pugliesi alcuni anni orsono? E’ un problema che si riuscirà a risolvere
con un più efficace controllo delle coste da parte di tutti i Paesi coinvolti? Oppure
siamo alle prese con una sfida strutturale che, per essere affrontata, richiede
una strumentazione molto più complessa?
Cerchiamo di chiarire alcuni punti sulla scorta di lavori recenti. Non posso, però , non fare un riferimento: nel lontano 1980, in congedo sabbatical dalla Banca Mondiale presso il Centro della Johns Hopkins University di Bologna, giunsi a scrivere un libro sul problema (di cui allora si vedevano i primi sintomi). La ricerca era sostenuta oltre che dalla Banca Mondiale, dalla Ford Foundation, dalla Fondazione Al-Ahram del Cairo e dal Deutsche Orient Institut di Amburgo. Non si trovò un editore italiano interessato. Il libro venne pubblicato ad Amburgo in lingua inglese.
Cerchiamo di chiarire alcuni punti sulla scorta di lavori recenti. Non posso, però , non fare un riferimento: nel lontano 1980, in congedo sabbatical dalla Banca Mondiale presso il Centro della Johns Hopkins University di Bologna, giunsi a scrivere un libro sul problema (di cui allora si vedevano i primi sintomi). La ricerca era sostenuta oltre che dalla Banca Mondiale, dalla Ford Foundation, dalla Fondazione Al-Ahram del Cairo e dal Deutsche Orient Institut di Amburgo. Non si trovò un editore italiano interessato. Il libro venne pubblicato ad Amburgo in lingua inglese.
Allora era difficile quantizzare le
dimensioni del fenomeno. Oggi ne sappiamo molto di più. Particolarmente pregevoli
due studi di Timothy J. Hatton dell’Australian National University
e di Jeffrey Williamson di Harvard, ambedue apparsi in luglio nella
collana del Nber (National Bureau of Economic Research) degli Stati Uniti (e di
cui sono disponibili ampie sintesi sul web). Permettono di toccare con mano una
dimensione speciale e poco studiati: quanti sono i “rifugiati” che ottengono
o cercano “asilo politico”, una categoria da distinguere da chi emigra
unicamente per ragioni economiche. A riguardo è importante tenere presente
che uno degli aspetti centrali al dibattito politico (e italiano e europeo)
riguarda la distinzione tra “rifugiati” e “clandestini” e si debba
essere considerati “rifugiati” (piuttosto che “clandestini”) unicamente in caso
di persecuzione politica diretta.
Veniamo allo stock: nel mondo
intero, i “rifugiati” sono adesso circa 20 milioni mentre erano appena 3
milioni all’inizio degli Anni Settanta. Il dato di flusso è ancora più
impressionante: le richieste di “asilo politico” sono decuplicate da 50.000
a oltre 500.000 l’anno. In breve da un ruscello ad una vera e propria
valanga: i due studi (che sono, però, di parte australiana ed americana)
affermano che l’evoluzione delle politiche e delle strategie dell’Unione
Europea (Ue) per fare fronte al problema è stata lenta e disordinata. La
situazione è particolarmente grave poiché in uno dei due studi di Hatton
e Williamson si documenta come nei Paesi importatori di mano d’opera
si sia passati da una fase di selezione “positiva”, anche di sostegno, nei
confronti dell’immigrazione ad una invece di selezione “negativa” basata su
quote.
Cosa si intende con questi termini? La
selezione “positiva” vuole dire cercare di attirare migranti nelle
professionalità (non solo di basso livello) di cui si esigenza per la
crescita economica: ad esempio, gli Stati Uniti e la Germania hanno
modulato, in passato, l’immigrazione di informatici (di varie qualifiche). La
selezione “negativa”, invece, è quando sostanzialmente si tenta con misure
amministrative di contenere i flussi (rinunciando, spesso, anche a
pilotarne la composizione professionale). La marea dall’Africa è difficilmente
arrestabile: la popolazione del continente è passato da 600 milioni nel 1980 ad
un miliardo circa, a cui se ne aggiungerà un altro miliardo entro il 2050. Ciò
dipende non da politiche nataliste ma dall’aumento dell’aspettativa alla
nascita (e quindi dalla diminuzione della mortalità infantile). Nessuno propone
di fare marcia indietro su questi due fronti. Quindi occorre essere pronti ad ondate
sempre più forti e sempre più lunghe.
Però, l’immigrazione – sottolinea un
saggio di Marcus Noland dell’Institute for International Economics
– sta diventando una miccia per la xenofobia; coniugando indicatori
sull’atteggiamento della popolazione (i Pew Global Attitudes Indicators) con
strumenti econometrici, Noland dimostra che la xenofobia genera ostilità
all’economia di mercato, aumenta il rischio Paese e frena gli investimenti
diretti dall’estero. Se ne sono avuti avvertimenti concreti nelle recenti
elezioni in alcuni Länder della Repubblica Federale Tedesca, specialmente in
quelli un tempo appartenenti alla Germania Orientale. Di recente nei quartieri
sud-est di Berlino, per una serie di conferenze alla Fachoschule fur Verwaltung
and Rechtspelflege (FHVR- L’università di scienze applicate dove viene
formata la pubblica amministrazione tedesca), nel vasto quartiere
universitario, caratterizzato anche da enormi palazzi in stile sovietico ed
abitati da famiglie a reddito medio basso, ho visto solo ristoranti
pachistani; dopo l’imbrunire nei grandi viali non si vedevano, a piedi, che
extra-comunitari. Tenuti a distanza anche dagli studenti.
Altre preoccupazioni emergono dal
lavoro Ocse “Tendances des migrations internationales”. Lo studio pubblicato
periodicamente viene, in gran misura, ignorato dalla stampa italiana. E’
specialmente interessante in quanto è un’analisi con dati a consuntivo del
ruolo degli immigranti nel mercato del lavoro dei maggiori Paesi Ocse. Il
numero dei “lavoratori nati all’estero” si è stabilizzato (a livelli elevati)
in Paesi come la Germania, la Francia, il Benelux e la Svizzera. E’, invece,
cresciuto molto rapidamente in Italia e Regno Unito ed è diventato un fenomeno
nuovo con cui devono confrontarsi Paesi come la Grecia, la Spagna ed il
Portogallo (nonché, in terre lontane, il Giappone) che sino a quindici anni fa
non conoscevano l’immigrazione. L’analisi Ocse non tiene in considerazione i
clandestini; riguarda esclusivamente i lavoratori “regolari” con permessi di
soggiorno e contratti di impiego identici a quelli di chi è nato nel Paese dove
è occupato. Con rare eccezioni (Norvegia e Regno Unito), gli “stranieri” hanno
livelli d’istruzione notevolmente più bassi di quelli dei “nazionali” .
Chi è nato all’estero (sempre tra i
“regolari”) è molto più propenso alla disoccupazione ed all’emarginazione
sociale. Il
quadro diventa molto più fosco se si tiene conto di stime, più o meno
affidabili, del “sommerso” e di varie forme di clandestini. Questi elementi
sono presi in considerazione da Mark Kleinman che ha pubblicato su
'The political quarterly' un’attenta analisi costi benefici dei costi e
dei benefici economici delle migrazioni; a livello dell’economia mondiale
l’impatto è positivo perché comporta una migliore distribuzione del fattore di
produzione lavoro, ma i rendimenti complessivi sono, comunque, bassi perché i
costi (e individuali e sociali) sono elevati.
Alle vecchie ondate, innescate dal
cammino della speranza verso un avvenire economico e politico migliore, se ne
sta aggiungendo una nuova tratteggiata da Andrea M. de Boer e
Valerie Hudson in un libro recente. Le politiche di controllo
delle nascite, le culture tradizionali e la diffusione delle tecniche di
selezione pre-natale hanno, in Cina ed in India (una popolazione complessiva di
2,4 miliardi di uomini e donne) stanno sviluppando società in cui per
ogni 120-130 giovani maschi in età di prendere moglie non ci sono più di 100
ragazze. Già oggi in Cina c’è una differenza di 60 milioni
tra uomini e donne in questa fascia d’età. Il dislivello è tanto acuto che la
Cina, gradualmente e silenziosamente, modificando la propria politica di
controllo delle nascite; ci vorranno, però, almeno trent’anni perché il cambiamento
di politica dia risultati concreti. Secondo lo studio, i giovanotti non
avranno altra scelta che andare alla conquista di donne in terre e Paesi altrui
per soddisfare i propri istinti di sesso e di paternità.
In questo quadro, cosa fa l’Europa? Organizza seminari e convegni di studio.
In questo quadro, cosa fa l’Europa? Organizza seminari e convegni di studio.
- See more at:
http://www.lindro.it/politica/2013-10-08/103165-leuropa-di-fronte-alle-migrazioni#sthash.98hx9a95.dpuf
Nessun commento:
Posta un commento