Turandot tra guerrieri in terracotta
di Giuseppe Pennisi
Turandot
non è solo l'ultima opera di Giacomo Puccini (che morì prima di completarla),
ma anche l'ultima espressione italiana del modo di concepire un dramma lirico
per il successo popolare prima che il cinema prendesse il sopravvento. Puccini
lo sapeva, così come sapeva di non terminare il suo lavoro più moderno.
Il libretto, infatti, ha un andamento
cinematografico. La lirica come grande spettacolo sarebbe rimasta in Germania,
in Europa centrale e orientale e negli Stati Uniti, ma in Italia sarebbe tornata
a essere intrattenimento di élite come alla fine del Seicento. Non a caso
Turandot è tratta da una fiaba teatrale di Gozzi pensata per un pubblico colto.
All'Opera di Roma, in scena fino al 31 ottobre, viene proposta con un
allestimento grandioso che colloca l'azione all'interno di un'armata di
terracotta del mausoleo di Xian. Inoltre, viene presentata senza il finale «di
tradizione» composto da Franco Alfano. L'opera in scena termina con la morte di
Liù, come volle Toscanini alla prima alla Scala nel 1926. Efficace la regia di
Roberto De Simone. Suggestivi l'impianto scenico di Nicola Rubertelli e i
costumi di Odette Nicoletti. Raffinata la bacchetta di Pinchar Steinberg che
tende, però, a sonorità alte da coprire le voci. Di livello il cast vocale guidato
da Carmela Remigio, in grande spolvero. (riproduzione riservata)
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