martedì 1 ottobre 2013

Più attrezzati contro Sprecopoli in Formiche mensile ottobre

Più attrezzati
contro Sprecopoli
di Giuseppe Pennisi
Consigliere del Cnel
Non basta tagliare le spese pubbliche con
bassa utilità per la collettività. Occorre
migliorare la qualità della spesa sia
complessivamente, sia nei singoli comparti.
Il primo passo consiste in un migliore
equilibrio tra spese pubbliche di parte
corrente per consumi collettivi e spesa
pubblica in conto capitale tale da attivare,
in fase di cantiere, capacità produttiva
non utilizzata. Il secondo consiste nelle
grandi categorie di spesa corrente da
vagliare con l’ausilio delle tecniche
disponibili. Ciò comporta un approccio
differente da quello adottato dal governo
Monti, quando mancò un metodo condiviso
e si diede l’impressione di “scavalcare”
le istituzioni preposte allo scopo
La “revisione della spesa” di cui è stata abbozzata
una prima fase dal governo Monti
sarebbe dovuta essere il metodo per giungere
a un miglioramento della quality of spending
– parallelo di scienza delle finanze della
“quality of mercy” con cui, travestita da avvocato,
Porzia scioglie i vari nodi ne Il mercante
di Venezia di William Shakespeare. La fine
della Sprecopoli (individuarla, contenerla e
ove possibile eliminarla) sarebbe dovuta essere
obiettivo principale di governo ma non
se ne sono visti i segnali.
Alcuni anni fa è stato pubblicato uno studio
condotto dalla London school of economics
(Lse), in collaborazione con l’Imperial college
e il Center for economic and international
studies (Ceis) dell’Università di Roma Tor
Vergata. Lo studio merita di essere analizzato
sia da chi avrà il compito di condurre
una due diligence dei conti pubblici sia, più in
generale, dalla Corte dei conti e dalla Ragioneria
generale dello Stato (in Italia è disponibile
come Ceis working paper n. 115). È
un’analisi empirica che dopo una premessa
teorica e una rassegna della letteratura, passa
al setaccio la spesa delle pubbliche amministrazioni
per acquisti di beni e servizi nel
periodo 2000-2006 , differenziando tra “sprechi
attivi” (ossia per il tornaconto individuale,
dalla corruzione alla clientela in tutte le
sue forme e guise) e “sprechi passivi” (dovuti
al lassismo e alla lentocrazia burocratica). Si
può argomentare di un comparto, quello degli
sprechi attivi, che riguarda meno dell’8%
della spesa pubblica; è, però, quello caratterizzato
da maggiore discrezionalità (rispetto,
ad esempio, alla spesa per il personale, per
le pensioni, per la sanità e per altri trasferimenti
a famiglie e imprese).
Ma andiamo ai risultati: gli “sprechi passivi”
sono l’83% del totale (ciò smentisce le chiacchiere
giornalistiche su Sprecopoli) e devono
essere affrontati cambiando regole (semplificazione,
abrogazione automatica di norme
e circolari dopo un certo numero d’anni
dalla loro applicazione); gli sprechi (“attivi”
e “passivi”) sono di peso principalmente
nell’apparato centrale dello Stato – in breve,
i ministeri pagano, mediamente, il 22% in
più degli Enti locali per beni e servizi analoghi.
Il controllo sociale è l’arma principale
per contenerli (e tale controllo è più forte a
livello locale che centrale).
Interessante notare che a conclusioni simili
si è giunti non guardando specificatamente
l’Italia ma esaminando gli Usa, nella lontana
Yale in uno studio pubblicato nella Yale
law and policy review: il succo del lavoro – che
coniuga due discipline (economia e diritto) –
consiste nel proporre di utilizzare, in modo
sistematico, l’analisi costi-benefici a fini deliberativi
delle poste di spesa (ossia decisionali)
non meramente informativi. Una legge
della nostra Repubblica (la legge 144/99) lo
economia
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« Il controllo sociale è l’arma principale
per contenere gli sprechi. In questo
senso, secondo uno studio
americano, sarebbe utile proporre di
utilizzare in modo sistematico l’analisi
costi-benefici a fini deliberativi, ossia
decisionali, delle poste di spesa»
prevede per l’investimento pubblico, unitamente
alla creazione di unità, nuclei, gruppi
di valutazione in tutte le amministrazioni.
Occorre applicarla con rigore ed estenderla
a tutte le maggiori partite di spesa anche di
parte corrente, come fu tentato nel settembre
1984 dal governo Craxi con un articolo
del ddl di legge finanziaria, poi eliminato
durante l’iter parlamentare. Il Consiglio
nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel)
ha predisposto e approvato all’unanimità il
18 dicembre 2012 un primo documento di
osservazioni e proposte per la valutazione e
selezione della spesa pubblica (disponibile
sul sito dell’organo), ma lungaggini burocratiche
ne stanno bloccando la “convenzione
tecnica” tra Cnel e Istat per assicurarne la
prosecuzione, specialmente in materia di valutazione
degli obiettivi occupazionali della
spesa e degli impatti sul territorio.
In effetti, non basta tagliare le spese pubbliche
con bassa utilità per la collettività.
Occorre migliorare la qualità della spesa sia
complessivamente, sia nei singoli comparti.
Il primo passo consiste in un migliore equilibrio
tra spese pubbliche di parte corrente
per consumi collettivi e spesa pubblica in
conto capitale tale da attivare, in fase di cantiere,
capacità produttiva non utilizzata (un
tasso di disoccupazione al 12% delle forze lavoro
indica che in Italia ce n’è, purtroppo, a
iosa) e di aumentare la capacità produttiva
multifattoriale grazie al miglioramento del
capitale fisso sociale. Il secondo consiste nelle
grandi categorie di spesa corrente da vagliare
con l’ausilio delle tecniche disponibili
quali richieste dalla legge 144/99 e in via di
aggiornamento presso il Cnel.
Ciò comporta un approccio differente da
quello della spending review adottato dal governo
Monti, quando mancò un metodo
condiviso e si diede l’impressione di “scavalcare”
le istituzioni preposte allo scopo.
Seguendo il “Programme de rationalization
des choix budgetaire” adottato con successo
in Francia e la normativa varata negli Stati
Uniti, all’inizio degli anni Ottanta (l’unica
legge federale della prima Amministrazione
Reagan da allora mai cambiata), occorre
concentrare la definizione del metodo e delle
procedure, nonché la vigilanza sulla loro
attuazione, nella Ragioneria generale dello
Stato. Tanto più che in base ad una legge del
2007 e a un concorso pubblico la Ragioneria
dispone di almeno 40 dirigenti, con dottorati
di ricerca italiani e stranieri, specializzati
nella valutazione della spesa.
Inoltre, dato che da anni la Scuola nazionale
della Pubblica amministrazione ha, di fatto,
smesso di fare corsi in questa materia, la
funzione deve essere affidata urgentemente
alla Scuola superiore di economia e finanza
– istituto del ministero dell’Economia e delle
finanze – aprendo i corsi a dipendenti di altre
amministrazioni centrali e delle Regioni
in modo da avere un metodo uniforme per
combattere “sprechi attivi e passivi”, esaltando
the quality of public spending al fine di contribuire
al riassetto strutturale della finanza
pubblica e allo sviluppo dell’economia.
formiche 85 — ottobre 2013

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