Espressionismo
normativo
Ernst Ludwig Kirchner Brandenburger Tor (Collezione
privata)
Attualità • Dopo la conversione del decreto legge Valore
cultura dedicata anche al riordino delle Fondazioni lirico-sinfoniche, ecco
la fotografia di un momento delicato che trova le sue complesse radici negli
anni passati
di Giuseppe Pennisi
PER COMPRENDERE FINO IN FONDO PERCHÉ il mondo della
musica (e dello spettacolo dal vivo) è in subbuglio e pare, in gran misura,
dissentire dalla legge “Valore cultura” appena approvata dal Parlamento,
occorre fare un passo indietro. Nel 2008, il Governo allora entrato in carica
trovò una situazione a dir poco preoccupante, specialmente nel settore delle
fondazioni liriche che avevano accumulato un debito di 300 milioni di euro (ora
ammonta a 350 milioni). Con un provvedimento d’emergenza venne aumentato il
contributo dello Stato e furono risanate alcune situazioni facendo ricorso
anche ai fondi per le aree sotto-utilizzate (un tempo chiamate il Mezzogiorno).
Un decreto legge dell’aprile 2010, convertito nel successivo giugno,
dette una nuova cornice al comparto. È importante sottolineare che alcuni punti
della normativa vennero definiti dopo un ampio dibattito parlamentare e molti
aspetti vennero rinviati ad un regolamento che venne predisposto con la
partecipazione delle parti interessate ed approvato dal Consiglio dei Ministri
nelle ultime settimane del 2012. Ciò è indirettamente dimostrato dal fatto che
ci sono voluti 18 mesi per arrivare al testo.
Definire l’articolato è stato un lavoro immane poiché
si è trattato di dare un senso a molteplici norme (spesso contraddittorie) ed
armonizzarle guardando al futuro ed al resto d’Europa, non al passato oppure ad
un presente ancora pieno di incrostazioni particolaristiche. Il regolamento
(rimasto in bozza ancorché approvato dal Consiglio dei Ministri) rappresenta,
in effetti, il primo testo unico in molti anni sulle fondazioni
lirico-sinfoniche. I testi unici hanno il vantaggio di semplificare
normative di settore accavallatesi negli anni, spesso per rispondere a questa o
a quella esigenza (anche più che legittima) ma senza tener conto del sistema
nel suo complesso. Quello per la lirica e la grande concertistica è un testo
complesso, sul quale si sono divisi i sovrintendenti dei maggiori teatri e che
ha incontrato l’opposizione dei 5.000 dipendenti delle fondazioni
lirico-sinfoniche, i quali avrebbero perso alcune posizioni di vantaggio
rispetto ai colleghi dei teatri di tradizione.
Il punto forte del regolamento è che avrebbe portato
la legislazione italiana in linea con quella di Stati europei come la Germania,
l’Austria e la Francia dove la lirica e la concertistica non sono sorelle
povere dello spettacolo dal vivo ma una realtà viva e vivace. Al pari di quanto
avviene nei maggiori Paesi europei avrebbe posto un vincolo al finanziamento
dello Stato: per essere tale una Fondazione avrebbe dovuto coprire metà del
proprio bilancio con entrate autonome (biglietteria, sponsorizzazioni) e
contributi da Enti locali (Regioni, Province, Comuni), nonché l’apporto di soci
privati. Gli Enti locali protestano di essere già troppo oberati: ciò però li
avrebbe costretti a decidere, in piena responsabilità e trasparenza, se
utilizzare gli stanziamenti per la cultura, se finanziare la fiera del
carciofone o della patata rossa o se contribuire al loro teatro, spesso un
gioiello architettonico ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti. Ciò
li avrebbe costretti anche a mettere bocca nella programmazione del teatro, a
cercare sinergie, ad attivare circuiti con istituzioni simili in Italia ed all’estero.
Nel commentare il regolamento scrissi lo scorso dicembre che il punto debole
era non prevedere incentivi europei per la detrazioni o deduzioni
dei contributi privati dall’imponibile – nel resto d’Europa le detrazioni
tributarie si aggirano sul 30% dell’elargizione filantropica (ed in Francia le
deduzioni arrivano al 66%) mentre in Italia si è sul 19%. Uno dei risultati del
regolamento (quale approvato in via definitiva) sarebbe stato quello di ridurre
il numero delle attuali fondazioni (14); alcune sarebbero diventate teatri di
tradizione a ragione del basso numero delle alzate di sipario (la media
italiana sulle 80 l’anno rispetto alle 150 dell’UE a 15 ed alle 180 dell’UE a
27), dei pochi abbonati e spettatori in generale, della scarsa qualità cori ed
orchestre, dei modesti incassi di biglietteria e di mancanza di sponsor.
Inoltre, il regolamento prevedeva la sostituzione
della contrattazione nazionale collettiva con contrattazioni dei singoli corsi
ed orchestre con le fondazioni. Questo è l’aspetto che più ha irritato le
maestranze. Però è anche un aspetto che ci avvicina all’Europa dove in
molti casi cori ed orchestre hanno personalità giuridica autonoma che negozia
con i teatri. È senza dubbio un tema difficile nel quale non è semplice individuare
soluzione èqua ed efficiente.
Altro punto difficile sarebbe stata la valutazione
della qualità della programmazione, elemento che entra nelle decisioni
sull’entità dei finanziamenti. Si sarebbe potuto affidarla alla Consulta per la
Musica del Ministero, ma sono essenziali criteri trasparenti quali il numero di
Premi Abbiati ricevuti, le coproduzioni con grandi teatri stranieri, le prime
mondiali. Senza dubbio, c’erano miglioramenti da fare. Buon senso avrebbe
suggerito di partire dal lavoro fatto ed effettuare le correzioni necessarie in
base anche al parere parlamentare.
Il nuovo Governo, però, ha seguito una strada
differente, sull’onda della crisi di solvibilità soprattutto del Maggio
Musicale Fiorentino, del Carlo Fenice di Genova e di Lirico di Cagliari, ha
approvato l’8 agosto un decreto convertito in legge all’inizio di ottobre e
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 ottobre. Il calendario mostra che i
tempi di preparazione ed approvazione sono stati molto stretti, soprattutto se
si tiene conto della sospensione dei lavori parlamentari in estate. Il
provvedimento stabilisce un sistema di prestiti a tasso agevolato per le
fondazioni in difficoltà, ma non contiene più la clausola essenziale
sull’apporto di enti locali, biglietteria e privati. L’art.11, anzi, riduce i
componenti dei consigli di amministrazione, riduzione che toccherà soprattutto
la presenza dei privati, ai quali si domanda una “fidelizzazione” consistente e
di durata quinquennale. Insomma un privato, per avere un posto in consiglio di
amministrazione della Scala, per esemplificare, deve assicurare per un periodo
di cinque anni un consistente apporto finanziario. Quindi i teatri temono una
riduzione complessiva dei finanziamenti: alcune grandi aziende (ad esempio,
l’ENI) avevano annunciato il proprio ritiro, ma nell’incontro di venerdì scorso
tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il ministro Massimo Bray è stata
decisa l’aggiunta di un decreto collegato alla legge di stabilità per far
rimanere i privati. È difficile pensare ad aumenti dei fondi statali (quali
FUS) in un contesto di severe restrizioni di finanza pubblica, di blocco
pluriennale degli stipendi degli statali, di riduzione in termini reali delle
pensioni. Senza l’apporto delle aziende (anche in termini di imprenditorialità)
molti teatri chiuderanno, anche se alcuni avranno una temporanea boccata
d’ossigeno.
Altre norme specificano che alle fondazioni ed ai
teatri si applicano molte regole della pubblica amministrazione in materia di
acquisti di beni e servizi: ciò vuol dire, ad esempio, gare d’appalto anche per
commissionare un manifesto pubblicitario. Numerose regole della pubblica
amministrazione non sono necessariamente adatte ad un’impresa culturale come un
teatro (da qui il problema del Piccolo di Milano). Gli amministratori,
poi, saranno responsabili in proprio per disavanzi e debiti. Tira aria di
numerose rinunce agli incarichi in essere. Inoltre, le pubblicazioni che
documentino ricerche finanziate almeno per metà da fondi pubblici, saranno accessibili
gratuitamente e telematicamente da chiunque e le esecuzioni, le
rappresentazioni e le letture di una di queste opere, qualora avvenissero
all’interno di una biblioteca, non saranno ritenute pubbliche se realizzate per
promozione culturale e valorizzazione dell’opera stessa. I fondi verranno
distribuiti in relazione alle attività svolte e rendicontate e a fini di
trasparenza sarà prevista un’anagrafe degli incarichi amministrativi e
artistici degli enti di spettacolo. Il MIBAC, però, non si è mai dato
un’effettiva struttura di valutazione; quella che aveva creato in base ad una
legge del 1999 valida per tutte le amministrazioni l’ha smantellata nel
2005.
Le proteste ed il dissenso non devono
sorprendere. Il ministro Massimo Bray, in comunicati, articoli e
interviste, afferma che la legge «è a favore di tutte le fondazioni» e
che intende emanare al più presto il regolamenti previsti dalla legge del 2010.
Anche se manca il regolamento, la normativa del 2010 è tuttora in vigore e, con
essa, valorizza le caratteristiche di realtà come il Teatro alla Scala e
l’Accademia Santa Cecilia di Roma. C’è, indubbiamente, un gran groviglio
normativo. Prima viene appianato, meglio è.
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