anno 148°
Nuova Antologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Luglio-Settembre 2013
Vol. 611° - Fasc. 2267
Le Monnier – Firenze
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nel suo arco di vita più che secolare riassume la nascita, l’evoluzione, le conquiste, il travaglio,
le sconfitte e le riprese della nazione italiana, nel suo inscindibile nesso coi liberi
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Il giornalismo secondo Spadolini, a cura di Gabriele Paolini. . . . . . . . . . . . . . . 5
Problemi ed esigenze del giornalismo di oggi, p. 7.
Tommaso Bucchia, Memorie inedite sulla battaglia navale di Lissa (II),
a cura di Maurizio Sessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
Testimonianze edite, p. 28; L ’interrogatorio di Bucchia al processo contro P ersano (1867),
p. 34
Piero Barucci, Morire d’austerità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
Vannino Chiti, Quali riforme realizzare?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58
Sabino Cassese, Antonio Maccanico e la «misura dell’ideale». . . . . . . . . . . . . . . 70
Michele D au, Il Partito democratico di fronte alle sue scelte . . . . . . . . . . . . . . . . 73
Enzo Scotto L avina, Le storie della televisione (e dintorni) 1945-2013 . . . . . . . . 83
Dalle proposte innovative di A rturo C. Jemolo allo sguardo mediologico di A lberto A bruzzese,
dall’analisi strutturale di Giuseppe Richeri alla ricerca come racconto, p. 83.
Francesco Gurrieri, Una gestione europea per i Beni culturali «patrimonio
dell’umanità» in Europa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123
Appendice. Carta di Firenze sui Beni culturali europei, p. 126.
Paolo Nello, La patria dei nazionalisti e l’eredità del Risorgimento. . . . . . . . . . 129
Patriottismo e nazionalismo, p. 129; N o al «giolittismo», p. 132; V ia i democratici, p. 136;
Interessano i cattolici, p. 139; Basta coi liberali, p. 142; Solo nazionalisti, p. 146.
Antonio Zanfarino, Senso dello Stato e statalismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147
1. D irigismo e libertà, p. 147; P otere e ragione pubblica, p. 148; 3. I limiti del libertarismo,
p. 150; 4. A ttivismo e garantismo, p. 151; 5. L a statualità composita, p. 152; 6. V alori e
ambuguità dello Stato sociale, p. 154.
Ermanno Paccagnini, Di alcune scritture femminili di ieri e di oggi. . . . . . . . . . 156
Sandra Salvato, Una poetessa del lavoro, a cura di Caterina Ceccuti. . . . . . . . . 172
Stefano Folli, Diario politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181
Rosella Postorino, Prigioni dell’anima, intervista a cura di Caterina Ceccuti. . . 198
Italico Santoro, Una sfida per l’Europa: il mercato transatlantico. . . . . . . . . . . 210
1. I l mercato unico transatlantico: un’idea che viene da lontano, p. 210; 2. I l mercato
transatlantico: opportunità e problemi, p. 211; 3. I l mercato transatlantico e i suoi risvolti
politici, p. 213; 4. E l’Europa?, p. 216; 5. D al mercato transatlantico alla Comunità atlantica,
p. 218.
Ernestina Pellegrini, La storia di Caterina e Sofia/Maria. . . . . . . . . . . . . . . . . . 220
Giuseppe Pennisi, Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria
del socialismo reale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227
Premessa, p. 227; I l relativo silenzio in occasione del centenario, p. 229; Cenni sulla vita di
un comunista molto perbene, p. 230; L a «revisione» di Rattalino, p. 235; Il Naso, p. 237;
Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, p. 238; Leningrado, p. 241.
Sandro Rogari, L’agricoltura e le bonifiche durante il fascismo . . . . . . . . . . . . . 244
Adelfio E lio Cardinale, Medicina e storia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257
Maimonide, medico eccelso come I ppocrate, p. 257; Giovanni Filippo I ngrassia, antesignano
della medicina legale, p. 259; Pascoli e lo spirito della medicina, p. 263.
Paolo Bonetti, Bilanci della Prima Repubblica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267
Una democrazia difficile, p. 267; P artiti e antipartiti, p. 271; L a mutazione antropologica,
p. 273; Lo spirito degli anni Ottanta, p. 276.
Gian Luigi Rondi, Ancora lampi prima dell’estate. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279
Maurizio Naldini, Cambogia, il regno delle acque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297
«Nuova Antologia» cento anni fa: per l’emancipazione femminile,
a cura di Cosimo Ceccuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 308
Raniero P aulucci di Calboli, I pregiudizi sessuali e l’elevazione della donna, p. 310; V aleria
Benetti Brunelli, Il problema del lavoro femminile in Italia, p. 323.
Piero Roggi, La nuova Economia politica cristiana. Il contributo di Giuseppe
Bartolomei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336
Alberto Signorini, La dottrina di Charles Péguy. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 342
Daniele Giglioli, Il corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 349
Il corpo nutrito, p. 352; I l corpo goduto, p. 356; I l corpo malato, p. 360; I l corpo vestito,
p. 364; Il corpo armato, p. 366.
Rassegne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 371
Renzo Ricchi, Rassegna di poesia, p. 371; Marco O nofrio, Note critiche su I o. P oema totale
della dissolvenza di Dante Maffìa, p. 380.
Recensioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 384
C. Rebora – V . Scheiwiller, Passione e poesia. Lettere (1954-1957), a cura di G. Mussini,
di Carlo Carena, p. 384; D . Cherubini, Stampa periodica e università nel Risorgimento.
Giornali e giornalisti a Siena, di Gabriele P aolini, p. 388; G. D e Santi, Zavattini e la radio,
di Renzo Ricchi, p. 390; D . Fertilio, L’ultima notte dei fratelli Cervi. Un giallo nel triangolo
della morte, di Anna Ferrando, p. 392.
L’avvisatore librario, di Aglaia Paoletti Langé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394
Premessa
Nel Fascicolo 2260 della «Nuova Antologia» (ottobre-dicembre 2011)
ho trattato alle pp. 163-177 il tema dell’interazione tra musica e politica
soffermandomi sul caso dei rapporti tra musicisti e potere politico in Germania
ed Italia negli anni Trenta e, soprattutto, sulle reazioni registrate nel
mondo della cultura dopo la Seconda guerra mondiale: il rilancio della
Entartete Musik («musica degenerata» e come tale messa al bando dal nazismo)
in tutto il mondo e la coltre di oblio sui compositori italiani dell’epoca,
anche di coloro – il caso più noto è Luigi Dallapiccola – che hanno dato
le dimissioni dalla cattedra universitaria al momento della promulgazione
delle leggi razziali. L’articolo ha avuto una certa eco: è stato ripreso, citando
la fonte, in alcune riviste musicologiche anche se qualche critico musicale
ha fatto sapere, in privato, che non era il caso di rinvangare situazioni
che non fanno onore alla cultura politica che ha dominato per decenni il
comparto (almeno nel nostro Paese).
È opportuno trattare di musica e politica anche nella patria del «socialismo
reale»? Tre sono probabilmente gli autori russi che hanno influito di
più sulla musica del Novecento: Igor Stravinskij (sempre deciso oppositore
del comunismo), Sergej Prokofiev il quale, dopo avere passato alcuni decenni
all’estero – Stati Uniti, Europa occidentale – con esperienze dal dadaismo
al futurismo alla «nuova musica» allora in elaborazione in Francia)
venne attratto a tornare in patria e diventò uno dei «campioni» che accompagnò
con le sue note la «grande guerra patriottica» (ossia la Seconda
guerra mondiale) e Dmitrij Šostakovicˇ, compositore il quale si considerò
comunista fino al midollo, partecipò attivamente alla «grande guerra pa-
Giuseppe Pennisi
triottica», e non concepì mai di lasciare la «Grande Madre Russia» se non
per brevi viaggi ufficiali, ma che venne discriminato per decenni.
Perché interessarsi ora di Šostakovicˇ, proprio nell’anno in cui tutti ricordano
il centenario de Le Sacre du Printemps con cui Stravinskij irruppe
fragorosamente nel mondo della musica occidentale portando sonorità
slave che scandalizzarono il pubblico di Parigi e di Montecarlo (e successivamente
del resto del mondo)? Ci sono sei valide ragioni:
a) un libro recente di Pietro Rattalino, Šostakovicˇ – Continuità nella musica,
responsabilità nella tirannide, (Zecchini Editori, 2013, pp. 280
euro 25,00) che vuole essere «revisionista» rispetto all’autobiografia
più diffusa di Solomon Volkov, Testimony: The Memoirs of Dmitri
Shostakovich as Related to and edited by Solomon Volkov, pubblicato
in Russia nel 1979 (nuove edizioni sono state pubblicate in Gran Bretagna
e negli Stati Uniti nel 2004 e nel 2006); è anche la base di un film
che ha avuto notevole successo e preso numerosi premi internazionali,
pur se mai visto nella sale italiane;
b) la messa in scena al Metropolitan, a Zurigo, a Aix-en-Provence, a Lione
e a Roma della sua opera giovanile corrosiva, Il Naso, vietata in Russia
(dopo una prima tornata di repliche di successo) sino al 1974;
c) l’entusiasmo che stanno ricevendo le due versioni de Una Lady Macbeth
del Distretto di Mcensk, lavoro che fece infuriare Stalin e che è stato
bandito dai teatri dell’Unione Sovietica per decenni;
d) un minifestival a Roma dove l’orchestra del Teatro dell’Opera, concertata
da Gennadij Roždestvenskij, ha eseguito la prima e la quindicesima
sinfonia e l’Orchestra Sinfonica di Roma la settima dedicata all’assedio
di Leningrado;
e) una serie di esecuzioni di lavori del compositore programmate dal Teatro
Comunale di Bologna nel 2014 e nel 2015;
f) la riscoperta negli Stati Uniti delle sue due commedie musicali I Giocatori
(in effetti un’operetta) e Ceremuski (il nome di un quartiere
della periferia di Mosca su cui è imperniata una buffa e complessa vicenda
di caseggiato socialista), nonché il suo jazz. Quanti ad esempio
sanno che, dopo essere stato utilizzato come musica di accompagnamento
di Eyes Shut Down di Stanley Kubrick, uno dei brani musicali
più frequenti in spot pubblicitari, sigle televisive e simili viene dalla sua
Jazz Suite No. 2?
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 229
Il relativo silenzio in occasione del centenario
L’interesse di questi mesi è significativo soprattutto se raffrontato al
relativo oblio (nel nostro Paese) in occasione del centenario della nascita
nel 2006. Mentre allora tutta l’Italia celebrava alla grande, e con frequenti
duplicazioni di allestimenti, i 250 anni dalla nascita di Mozart, quasi nessuno
si è accorto che era anche l’anno del centenario della nascita del
compositore russo che, con Igor Stravinskij e Sergej Prokofiev, più aveva
inciso nell’integrazione tra vari generi della musica del Novecento (ad
esempio, tra la grande sinfonica mahleriana e i sentieri dell’opera lirica
aperti da maestri del teatro in musica, pur molto differenti, come Richard
Strauss e Leoš Janácˇek, da un lato, ed il jazz e le esperienze timbriche più
innovative, dall’altro). I teatri stranieri hanno dedicato grande attenzione
alla ricorrenza – ad esempio il Festival di Annandale-on-Hudson a due ore
di New York (uno dei più importanti degli Stati Uniti) nel 2004 ha dedicato,
anticipando i tempi, un’intera estate all’integrale della musica di Šostakovicˇ
– dalla sinfonica alla cameristica, dalla lirica al jazz, alla musica per spettacoli
teatrali (tra cui pure una commedia musicale «all’americana» negli
anni Cinquanta) e per film. Nella Russia postcomunista, il più importante
avvenimento musicale dell’anno – il 14esimo Festival Stelle delle Notti
Bianche, a San Pietroburgo è stato dedicato al centenario della nascita del
musicista e ne ha eseguito tutte le opere (ivi compresa la musica da film).
In Italia se ne sono ricordate alcune orchestre sinfoniche – ad esempio
dal 4 all’8 marzo 2006, all’Accademia di Santa Cecilia a Roma, Mstislav
Rostropovicˇ ha dedicato tre concerti al centenario del suo grande compatriota
e caro amico – e la Sinfonica della Scala ne ha dedicato uno, diretto
da Vladimir Jurowski. A Parma Rostropovicˇ, alla guida dell’Orchestra Sinfonica
Toscanini, e Jurowski, con la Giuseppe Verdi di Milano, hanno eseguito
a poche settimane di distanza la sinfonia Leningrado; sempre a Parma
una giornata di studio è stata dedicata al musicista con la proiezione del
film Amleto del 1964 (di cui compose le musiche di accompagnamento).
Poche le iniziative di nuovi allestimenti o di riprese del suo teatro in
musica – il campo dove, pur con due sole opere (per le ragioni che vedremo)
più ha marcato una svolta. Dalla metà di gennaio alla metà di febbraio 2006,
il Teatro dell’Opera di Roma ha realizzato un festival basato sulle musiche
di scena composte da Šostakovicˇ specialmente per lavori di Shakespeare.
Nessun teatro ha messo in scena la sua seconda, e più importante, opera
Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk del 1934.
Dei lavori allestiti a Roma, uno – Amleto, principe del sogno, tratto
dalla musica per il film del 1964 già citata – era stato prodotto nel 2000 ed
230 Giuseppe Pennisi
aveva già viaggiato in varie città. Carla Fracci, sempre in scena e recitando
(oltre che danzando), interpretava con efficacia il ruolo del principe di
Danimarca. Il resto del programma del festival puntava su produzioni a
basso costo e facilmente trasportabili (nella speranza che venissero ospitate
anche da altri teatri), sul melologo unito alla danza e su cast giovani.
Alcune rappresentazioni sono state dedicate alle scuole: le nuove generazioni
vi potevano ritrovare le radici della musica contemporanea.
Occorre ricordare che in Italia solamente la Scala ed i teatri di Firenze
e Spoleto hanno messo in scena (nell’arco di un secolo) le due principali
opere di Šostakovicˇ (composte quando aveva tra i 24 ed i 27 anni). Cosa
spiega questo relativo oblio di un compositore che è stato, per tutta la vita,
un comunista convinto, in un Paese come il nostro dove per decenni la sinistra
ha pur inteso detenere l’egemonia culturale? Come mai in Italia non
si è trovato nessun distributore disposto a scommettere sul film di Tony
Palmer Testimony del 1987 tratto dalle memorie di Šostakovicˇ raccolte dal
giornalista Solomon Volkov? Il lavoro ha avuto successo di pubblico in
vari Paesi ed una delle maggiori enciclopedie del cinematografo – Film and
Filming a cura di Derek Elley – scrive: «B. Kingsley (il protagonista) è straordinario
e c’è un eccezionale bianconero (con alcune sequenze a colori)».
La vita ed il percorso artistico di Šostakovicˇ sono una dimostrazione
delle estreme difficoltà che l’intellettuale, anche un comunista convinto (come
lui), ha alle prese con il sistema (e la non-cultura) del «socialismo reale».
Per questa ragione, Šostakovicˇ era un tabù da non toccare in Italia negli
anni dell’egemonia del PCI nel pensiero culturale del Paese. I «percorsi predeterminati
» – scrive il Premio Nobel Douglas C. North in Understanding
the Process of Economic Change, Princeton University Press, 2005 – sono
radicati e pervicaci; quindi, solo pochi coraggiosi, come l’allora Sovrintendente
dell’Opera di Roma Francesco Ernani (che quando era Sovrintendente
del Maggio Musicale aveva portato le opere di Šostakovicˇ a Firenze) si
sono ricordati della ricorrenza ed impegnati a fare conoscere agli italiani uno
dei maggiori esponenti del «Novecento storico» sia musicale sia intellettuale.
Cenni sulla vita di un comunista molto perbene
Dmitrij Šostakovicˇ nasce a San Pietroburgo il 25 settembre 1906.
Studia nella sua città natale dove si accosta ai movimenti dell’avanguardia
culturale incarnata da Majakovskij, Mejerchol’d e Prokofiev. Cresce da
comunista DOC; il successo internazionale delle sue tre prime sinfonie lo
fa diventare uno degli autori più ricercati per la composizione di musiche
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 231
da film (il cinematografo era agli inizi ed il PCUS ne aveva carpito l’importanza
al fine di plasmare l’opinione pubblica). A soli 24 anni è direttore
del Teatro della Gioventù Operaia, il Malyi, della sua città (il cui nome
era, nel contempo, diventato Leningrado). Il «suo» teatro si giustapponeva
al paludato Mariinskij, dove negli ori e negli stucchi dell’epoca zarista, si
rappresentava l’opera dell’Ottocento, principalmente nella tradizione russa
ed italiana, con alcune escursioni nel repertorio francese (ma quasi
nessuna in quello tedesco). Un incarico che poteva essere attribuito unicamente
ad un fedelissimo del partito, considerato come astro nascente
della cultura marxista. E tale Šostakovicˇ considerava sé stesso ed era visto
dagli altri. Tale si consideravano molti altri che ebbero, nella Patria del
socialismo realizzato, destini simili a quello di Šostakovicˇ; un esempio illuminante
è quello di Michail Afanas’evicˇ Bulgakov, il cui Cuore di Cane è
circolato in Unione Sovietica in versione clandestina, mentre in Occidente
ne venivano anche fatte versioni per il teatro e per il cinema (tra cui un
film di Lattuada) (Alexander Raskatov ne ha tratto l’opera che nella primavera
2013 si è vista alla Scala, un lavoro molto ispirato a Šostakovicˇ).
Pure un protagonista della rivoluzione come Serghei Eišenštein ebbe difficoltà
con il regime non solo per alcuni suoi film (o meglio progetti di film
non realizzati) considerati non abbastanza allineati, ma perché la sua omosessualità
era quasi pasoliniana.
A questo punto è opportuno fare una precisazione: a Leningrado si
respirava un comunismo libertario in alcune sfere (principalmente quella
sessuale) molto differente da quella del comunismo burocratico moscovita.
Il film di maggior successo era intitolato L’amore a tre; la commedia che
«tutti dovevano vedere» era La nazionalizzazione delle donne; alcuni gay
facevano outing – nonostante ai tempi degli Zar l’omosessualità comportasse
la pena di morte (come ben seppe Pëtr I. Cˇajkovskij), e successivamente
venisse tollerata unicamente se praticata, in estrema discrezione, dai
veri beniamini del regime (come il regista Serghei Eišenštein, che si appagava
in lande lontane come il Messico ed il Kazakistan). Le fotografie di
Šostakovicˇ mostrano che era di avvenenza straordinaria, nonché sempre
vestito con estrema eleganza – vezzeggiato ed adorato, quindi, dal gentil
sesso, tanto quanto il suo compagno di bagordi Michail Tuchacˇevskij, più
anziano di lui di una diecina di anni (abbastanza da essere stato «un eroe
della rivoluzione» nonché eroe della Prima guerra mondiale, ma, ciononostante,
fatto fucilare da Stalin nel 1937).
In questo clima nasce la sua prima opera, Il Naso, da un racconto di
Gogol del 1835, rappresentata con grande successo al Malyi il 18 gennaio
1930, quando non aveva ancora compiuto 25 anni. Era una satira terribile
232 Giuseppe Pennisi
della burocrazia (quella zarista in Gogol, ma poteva sembrare anche quella
moscovita). Un ritmo incalzante: 12 quadri in poco più di due ore di musica.
Nonostante un’orchestra da camera, ben 60 personaggi in scena: 27 nel
settimo quadro. Una partitura che fonde citazioni dalla grande tradizione
classica con musica di puro intrattenimento e un campionario di effetti
modernistici, quali intervalli esageratamente ampi, movimenti di scale,
moti pendolari, trilli, canoni, artifici politonali. Ove ciò non bastasse a
sbigottire, le scene erano astratte e cubiste (in Italia sarebbero state chiamate
«futuriste») e la regia si ispirava ai tempi velocissimi delle «comiche»
del muto. Il pubblico, specialmente quello più giovane, andò in visibilio.
Ma la critica accolse il lavoro (così distante dal realismo socialista che allora
faceva i primi passi nell’estetica ufficiale) freddamente. Uno dei critici
più accorti, Ivan Sollertinskij, colse probabilmente nel segno scrivendo che
«la musica distrugge sfumature storiche dei caratteri descritti, le generalizza
e mostra uomini vivi, come fossero nostri contemporanei». Dopo 14
repliche all’insegna del «tutto esaurito», al Direttore del Malyi, ossia a
Šostakovicˇ in persona, venne suggerita una pausa; l’opera venne ripresa la
stagione successiva, ma ci fu, poi, un silenzio nell’Unione Sovietica di ben
43 anni (nonostante venisse rappresentata all’estero, dove era giunta la
partitura, e fosse considerata come uno di capolavori della musica del Novecento
a cui si ispiravano generazioni di giovani musicisti).
Tuttavia, i veri problemi dell’intellettuale comunista perbene, anche se
bon vivant, stavano solo iniziando. A crearglieli non era la vita personale
complicata: intratteneva relazioni parallele con tre-quattro donne, di cui
una, Nina Vasil’evna Varzar diventò la sua prima moglie nel 1932 (ne ebbe
tre, tutte molto belle), dopo un rapporto tempestoso oggetto di chiacchiere
a non finire nella «San Pietroburgo-che-può». Non erano neanche la cameristica
e le musiche per film e per teatro (che gli venivano commissionate
senza cessa dalle istituzioni del regime) a metterlo nei guai. Fu la sua seconda
(ed ultima) opera lirica a farlo cadere in disgrazia con il sistema ed
a porlo su una lunga strada di persecuzione.
Dopo il grottesco Il Naso, scelse un truculento racconto di Nicolaj
Leskov, uno scrittore contemporaneo di Tolstoj che pensava (a torto) di
essersi assicurato un posto nella storia con romanzi «impegnati» sulla Russia
contadina: Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk – uno storiaccia di
sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina Izmajlova, borghese di provincia
mal ammogliata ed assatanata da pulsioni erotiche, uccide tutti gli
uomini che si porta sotto le lenzuola (nel racconto, ammazza anche il proprio
figlio in fasce, dopo averlo avuto dal bel Sergej, dotatissimo – sessualmente
parlando – lavoratore a giornata nell’azienda del suocero e del marito, già
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 233
fatti fuori uno dopo l’altro). L’opera sarebbe dovuta essere la prima di una
tetralogia dedicata alla donna russa – ovviamente alla donna postrivoluzionaria,
liberata sessualmente e, come scritto in Testimony, «di livello assai
superiore al suo ambiente». L’opera è «dedicata alla mia fidanzata, con cui
poi mi sono sposato» e «imperniata su come potrebbe essere l’amore, se il
mondo non fosse zeppo di cose abiette», «Katerina è un genio della passione,
per amore della quale è pronta a tutto, anche ad uccidere». Una lettura del
racconto di Leskov (autore apprezzatissimo da Gorkij) in chiave marxista.
Che l’argomento fosse considerato appropriato lo dimostra il fatto che,
probabilmente, prima ancora di leggere il racconto, Šostakovicˇ ne avesse
visto la versione cinematografica di Cesar Savinki – una lettura molto cruda
in cui la protagonista appare come una vera e propria mantide serial killer.
Quindi, nulla che potesse essere, almeno a prima vista, in contrasto con le
tendenze del partito in materia di arte e spettacolo. C’era, però, la musica.
Prendiamo sempre cosa dice Šostakovicˇ in Testimony: «è musica fatta appositamente
alla rovescia, in modo da non ricordare affatto la classica musica
d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il linguaggio
musicale semplice e comprensibile a tutti». Šostakovicˇ non poteva sapere
che su percorsi analoghi si stavano mettendo compositori tedeschi (come
Berg, Korngold, Krener, Zemlinsky), le cui composizioni sarebbero state
considerate degenerate dal nazismo, ed italiani (Malipiero, Dallapiccola) i
cui lavori sarebbero stati, invece, esaltati dal fascismo, specialmente dalla
corrente modernista, e, quindi, antitradizionalista.
La Lady Macbeth ebbe la prima rappresentazione il 22 gennaio 1934 al
Malyi con un esito trionfale i cui echi furono tali da giungere oltre i confini
dell’Urss , tanto che – cosa insolita in quegli anni – venne ripresa (oltre che
dai maggiori teatri russi) anche a Londra, a Praga e a Cleveland, nell’arco di
meno di 18 mesi. Sembrava destinata ad un successo tale da assicurare l’ascesa
del suo autore ai piani più alti delle gerarchie artistiche del regime. Sino a
quando, la mattina del 28 gennaio 1936, la «Pravda» pubblicò un editoriale
non firmato, ma pare dettato dallo stesso Stalin, ed intitolato Caos anziché
musica: si accusava il lavoro di pornografia e di cacofonia. Da allora (si era
nel 1936) iniziò per Šostakovicˇ, non ancora trentenne, un processo di mobbing
che durò sino alla fine degli anni Cinquanta. Venne allontanato dal teatro in
musica, nonostante avesse progettato di continuare la tetralogia sulla donna
e stesse studiando anche altri libretti. Si buttò nella sinfonica per grande
organico; la quarta sinfonia, composta tra sessioni di confronto con le «alte
sfere» del partito (di cui, in piena sincerità, si dichiarava fedelissimo) non
venne accolta dal successo delle prime tre ma da nuove critiche di «formalismo
borghese». Prende gradualmente le distanze dalla violenza iconoclasta del
234 Giuseppe Pennisi
proprio linguaggio musicale degli anni Trenta. Dopo nuove critiche alla quinta
sinfonia, la sesta, la settima, l’ottava e la nona rappresentano un percorso
sempre più allineato ad una visione conservatrice (ove non reazionaria) sotto
il profilo musicale, ma proprio per questo vicina all’Accademia sovietica.
Con la decima e l’undicesima, la transizione è completa: il dissacratore della
Leningrado degli anni Trenta è ormai approdato (siamo alle soglie degli anni
Cinquanta) al tardoromanticismo di fine Ottocento in linea con il realismo
socialista che piace a Andrej Zdanov (il segretario del Comitato Centrale del
partito, responsabile per la cultura e l’arte). Non solo, l’undicesima sinfonia
(del 1957) e la dodicesima (del 1962) sono ormai dedicate alle celebrazioni,
rispettivamente della guerra e rivoluzione del 1905, nonché alla memoria di
Lenin. Solo dopo la morte di Stalin, ritorna, moderatamente all’innovazione:
nella tredicesima sinfonia introduce la voce solista (su testi di Evtušenko).
Nel 1963 propone una nuova edizione della Lady Macbeth, espurgata, però,
nel testo, nella partitura ed anche nel titolo (diventato Katerina Izmajlova):
ha grande successo in tutta l’Europa centrale, nei repertori dei cui teatri entra
definitivamente; è questa versione che viene conosciuta in Italia, principalmente
tramite le tournée dell’Opera di Zagabria, di Lubiana ed anche di
Sarajevo a Napoli, Genova e nei circuiti della Lombardia e dell’Emilia-
Romagna tra gli anni Sessanta e Settanta. La Lady Macbeth del 1934 si è
ascoltata soltanto nel 1947 al Festival di Musica Contemporanea di Venezia,
nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, nel 1992 alla Scala e nel 1994, 1998
e nel 2006 a Firenze. Il Naso tornò sulle scene russe solo nel 1974, un anno
prima della morte di Šostakovicˇ, a cui vennero dedicati grandiosi funerali di
Stato come eroe nazionale, deputato del Soviet Supremo dell’Urss , insignito
dell’Ordine di Lenin e del Premio di Stato dell’Urss , fedele figlio del
Partito comunista, eminente figura sociale e pubblica, artista del popolo. In
effetti, dopo anni di tribolazioni, era rientrato nei ranghi.
Resta un interrogativo. Come mai Stalin (in tante faccende affaccendato)
si è rivolto alla Lady Macbeth ed al suo autore due anni dopo la prima
rappresentazione e dedicandogli il fondo della «Pravda»? La saggistica in
materia è vastissima, anche di autori italiani. Puntuale la risposta del Direttore
d’orchestra Francesco Maria Colombo: «In due anni era maturato un
trionfo di proporzioni così colossali che era necessario dargli una frenata.
La Lady Macbeth poteva essere bella o brutta, cacofonica o cantata dagli
angeli, aveva successo e, per questo il suo destino, era segnato». Una risposta
eloquente e rivelatrice della linea di pensiero del comunismo. E di tutti
i postcomunismi. Chi ha successo deve essere fermato.
Una versione analoga è stata offerta ad alcuni amici da Mtislav
Rostropovicˇ in occasione di una cena privata a Roma nei giorni in cui con-
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 235
certava Lady Macbeth. «Il colpo di grazia a Šostakovicˇ, l’hanno inferto
Stalin e l’ideologo Zdanov. Ma il primo ad accusarlo fu Molotov, presidente
del consiglio dei commissari del popolo, che essendo nipote del compositore
Skrjabin si riteneva un esperto di musica». Quale l’effetto su Šostakovicˇ?
«Una ferita che non si è più rimarginata. Lo ha cambiato, anche fisicamente.
Ho un ritratto precedente all’episodio in cui i suoi occhi sono diversi».
Stalin, Molotov, Mikoyan e Zdanov erano alla prima di Lady Macbeth
a Mosca. Il vero nome di Molotov (nome di battaglia, «Martello», datosi
durante la rivoluzione) era Vjacˇeslav Michajlovicˇ Skrjabin; nonostante venisse
da famiglia aristocratica (al pari di «Molotov»-Martello) e fosse deceduto
nel 1915 (ossia prima della rivoluzione) Aleksandr Nikolaevicˇ Skrjabin
veniva considerato uno dei maggiori compositori e pianisti russi, ed era
stato ammesso (non si sa per quali meriti) al Pantheon rivoluzionario.
La «revisione» di Rattalino
Questi «cenni» non si basano solo o principalmente su Testimony, pur
se Volkov ha sempre sostenuto di avere come sua fonte quattro anni di
interviste e di possederne i nastri, ma su una vasta bibliografia (in gran
parte di matrice anglosassone) sul compositore. Anche se Volkov non ha
mai esibito i nastri in cui le interviste sarebbero state registrate, nessuno
degli stretti familiari di Šostakovicˇ ne ha mai smentito i contenuti. È difficile
dire quanto nel libro di Volkov ci sia di forzato. Il ritratto che emerge
è quello di un fiero antistalinista, costretto dalle circostanze della vita e
dalla ferocia del tiranno (che aveva mandato di fronte al plotone di esecuzione
alcuni dei suoi migliori amici) a vivere una doppia esistenza dal 1936
(anno in cui venne bandita Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk):
conformista in apparenza (e in tal modo anche con importanti riconoscimenti
ed incarichi ufficiali) ma anticomunista in fondo al cuore e con il
timore di essere, in qualsiasi momento, scoperto. Che Šostakovicˇ fosse timido
(mai, però, con le belle donne) e anche timoroso è dimostrato da un
episodio spicciolo di cronaca. Ormai riabilitato e membro del Parlamento
sovietico, venne fermato da un vigile per eccesso di velocità sul Lungomoscova;
non mostrò la tessera di parlamentare, ma reagì spaventatissimo
facendosi portare (con la sua accompagnatrice) al posto di polizia dove
tutto si risolse con una multa, prontamente pagata.
Il volume di Volkov ha avuto diffusione limitata in Italia. Il film tratto
da Tony Palmer nel 1988 dal libro di Volkov, con Ben Kingsley, ha avuto
numerosi premi internazionali ma – come si è detto – in Italia si è potuto
236 Giuseppe Pennisi
vedere soltanto sul canale Classica di Sky in lingua originale con sottotitoli;
non ha trovato un distributore che lo facesse circolare nelle sale anche
in quanto politici di rango avrebbero, all’epoca, fatto sapere che non gradivano
la diffusione di un film che metteva in cattiva luce l’Unione Sovietica
dalla rivoluzione al 1975. E si era negli anni Novanta!
Piero Rattalino è un musicista ed un musicologo di rango, non uno
storico. Mostra di non gradire il lavoro di Volkov (che considera fuorviante
e pieno di preconcetti anticomunisti) ma la sua è una biografia musicale
(non storico-politica) del compositore. È un lavoro attento, rivolto non
solo al pubblico del mondo della musica ma ad un auditorio più vasto, a
coloro un tempo chiamati «le persone colte»; è scritto con eleganza e pone
le opere di Šostakovicˇ nel contesto dell’evoluzione storico-politica di settanta
anni del Novecento. Riconosce come, dopo il bando di Una Lady
Macbeth del Distretto di Mcensk, il giovane compositore era diventato da
uno dei più corteggiati dalle belle donne dell’intellighenzia di Leningrado,
un timoroso. Così pavido tanto da mettere anche la propria firma ad una
lettera di censura al suo amico Sacharov. Rattalino trova come elemento di
fondo della vita del compositore «la continuità di musica legata alla tradizione
e l’assunzione di responsabilità personali, pur nei lacci della tirannide».
Essenzialmente, si differenzia solo in parte da un’analisi dalla personalità
di Šostakovicˇ quale tratteggiata da Volkov. Intende essere «revisionista» ma
finisce con confermare quella che possiamo chiamare l’interpretazione «di
riferimento» del dramma vissuto da Šostakovicˇ dai suoi due grandi successi
teatrali giovanili quasi alla fine della sua avventura terrena.
Occorre però chiedersi se, dopo avere composto due opere indubbiamente
rivoluzionarie sotto l’aspetto della sintassi musicale, gran parte della produzione
di Šostakovicˇ (soprattutto le sinfonie, meno la cameristica e le musiche
da film) siano rimaste così tradizionali (e lontane da altri fermenti del
Novecento) proprio in quanto sentitosi nel mirino di un regime che non accettava
l’innovazione. Il libro di Rattalino non tratta questo aspetto importante
e ne tralascia un altro: il jazz di Šostakovicˇ – un segno, al tempo stesso,
di sfida al regime e d’innovazione nel panorama musicale sovietico dell’epoca
ed in gran parte ignorato dalla critica musicologica (nonostante ne esista
un’eccellente registrazione quasi integrale). Comunque, il lavoro di Rattalino
merita di essere letto non solo da chi si interessa di musica ma da tutti coloro
che vogliono approfondire il ruolo (e le difficoltà) degli intellettuali
nell’Unione Sovietica anche nella visione, se vogliamo, benevola di uno studioso
che ha spesso mostrato la propria simpatia per il «socialismo reale».
Vediamo ora un campione delle sue opere.
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 237
Il Naso
Nonostante richieda un numero smisurato di solisti, è forse il lavoro
per la scena di Šostakovicˇ rappresentato più spesso anche in Italia. Ne ho
visto cinque allestimenti. Nel 1966-67, il Maggio Musicale Fiorentino e il
Teatro dell’Opera di Roma ne affidarono l’allestimento a Edoardo De Filippo
e a Mimo Maccari; il lavoro veniva dato in traduzione ritmica italiana,
perdendo il mirabile intreccio tra parola e musica del giovane Šostakovicˇ,
ma entusiasmando gli spettatori per la vis comica. Nel 1995, al piccolo
Teatro Caio Melisso di Spoleto, Roman Terleckyj e Steven Mercurio offrirono
per la prima volta in Italia l’opera in versione originale con un cast
internazionale (prevalentemente anglosassone): un allestimento «surrealista»
efficace, ma Šostakovicˇ era un giovane comunista che aveva aderito al movimento
«futurista» non a quello surrealista.
Dal 1974, il Teatro Musicale da Camera di Mosca creato ed animato da
Boris Provovskij lo ha in repertorio e ne propone diverse repliche (sempre affollatissime)
ogni anno sempre nell’allestimento originale in un ex cinematografo
per 200 posti. L’edizione di Boris Provovskij si è vista a Torino e al Teatro
Olimpico di Roma nel 2006 in occasione del centenario dalla nascita del compositore
e in varie città emiliane nel 2010; la colsi a Torino e a Parma. L’allestimento
di Boris Provovskij (ormai deceduto da tempo), leggermente ritoccato,
è ancora molto valido; molto diverso da quello del 1930, con pochi elementi
mostra tutta San Pietroburgo e le sue atmosfere. Affiatatissima la compagnia
che lo canta, balla e recita almeno 50 volte l’anno nel piccolo Teatro da Camera
di Mosca. Nel 2011 è esploso l’allestimento grandioso e tecnologico di
William Kentrige, coprodotto dal Festival di Aix-en-Provence, dall’Opéra National
di Lione e dal Metropolitan di New York; lo colsi a Aix, dove la bacchetta
era affidata a Kuzushi Ono, uno dei migliori concertatori di musica contemporanea.
L’opera viene mostrata come «un manifesto della modernità».
Ho goduto il mio quinto Il Naso all’Opera di Roma dove, a ragione
della domenica sera (non propizia a una «prima», specialmente di un’opera
poco conosciuta), alcune file erano vuote (ma si sono riempite alle repliche).
Splendida la regia, le scene e i costumi – la produzione veniva da
Zurigo; spettacolo essenziale come quello di Provovskij (e quindi facilmente
trasportabile), con un uso sapiente della tecnologia. Eccellente la
concertazione del giovane Direttore argentino Alejo Perez. Ottimo il vastissimo
cast internazionale con Paulo Szot nella veste di protagonista e
nei ruoli minori molti russi, nonché italiani, tra cui alcuni provenienti
dall’organico stabile del coro. Bravi ballerini e mimi. Insomma, da vedere
e rivedere, augurandosi che se ne possa fare un DVD.
238 Giuseppe Pennisi
Pur se differenti tra di loro, da ciascuno di questi allestimenti si comprende
perché testo e musica irritarono, se non Stalin in persona, la sua
corte e la burocrazia: un alto funzionario perde, all’improvviso, il proprio
naso (mentre il barbiere rasa la sua barba) e si mette, quindi, ad una sua
ansiosa ricerca nelle alte e nelle basse sfere della capitale (palazzi, chiese,
uffici, botteghe, redazioni di giornali), scoprendone di cotte e crude. Il
sarcasmo si riferisce alle burocrazie di tutti i tempi, soprattutto a quella
bolscevica. La musica sgomentò l’ortodossia ancora di più: su un impianto
chiaramente slavo, Šostakovicˇ innesca jazz, atonalità, ritmi incalzanti (con
forti dinamiche timbriche), stili di canto estremi (dal parlato al sovracuto
alla polifonia). L’orchestra è snella, include strumenti inconsueti come la
domra, la balalaika, ed il flexaton e, in certi passaggi, deve riuscire ad evocare
la grande tradizione sinfonica ottocentesca.
Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk
Ho visto due esecuzioni sceniche dal vivo di Una Lady Macbeth del
Distretto di Mcensk ambedue a Firenze, nel 1998 quando l’allestimento
ottenne il «Premio Abbiati» (l’Oscar italiano per il miglior spettacolo lirico)
e nel 2008 quando venne ripreso per poche repliche. Lo spettacolo del 1998
(regia di Lev Dodin, scene e costumi di David Borovsky, Direzione musicale
di Semyon Bychkov) è stato considerato esemplare sia in Italia sia
all’estero. Riguarda, poi, un’opera che ai tempi del «pensiero unico» non
veniva quasi mai eseguita, nonostante abbia avuto una serie di rappresentazioni
esemplari in traduzione ritmica italiana, come si usava all’epoca,
alla Fenice nell’ambito del Festival di Musica Contemporanea di Venezia
nel 1947. L’ho anche ascoltata dal vivo in versioni da concerto dirette da
Myung-Whun Chung e Valery Gergiev, rispettivamente con i complessi
dell’Opéra di Parigi (di cui esiste un’ottima incisione) e del Mariinskij di
San Pietroburgo. A Roma, la Lady Macbeth è arrivata nel 2002 in un’edizione
semiscenica multimediale approntata inizialmente da Sergio Renan
per il Colon di Buenos Aires e già ripresa al Real di Madrid ed al San Carlo
di Napoli. Spettacolo, quindi, essenziale ma molto rodato e che si avvale di
un doppio cast di cantanti delle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica, singolarmente
poco noti in Italia, ma calati nei ruoli, e nelle difficoltà vocali,
nonché abituati ad un attento lavoro di squadra. L’orchestra dell’Accademia
di Santa Cecilia si è cimentata molto bene con la difficile partitura. Era
guidata da Mstislav Rostropovicˇ, che festeggiava il 75esimo compleanno.
Rostropovicˇ, che conosco da quando a Washington ha rilanciato la National
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 239
Symphony, ha una sensibilità molto differente da quelle di Chung e di
Bychkov. La sua Lady Macbeth è più passionale che violenta. Alla ferocia
degli ottoni viene contrapposta la dolcezza degli archi.
Come detto in precedenza, l’opera avrebbe dovuto essere la prima di
una tetralogia dedicata alla donna russa, ovviamente alla donna postrivoluzionaria,
liberata sessualmente e politicamente. La Lady in fin dei conti
uccideva tre kulaki proprietari terrieri reazionari in un mondo in cui la
polizia era corrotta e i pope chiudevano, in cambio di una buona offerta
alla questua, non uno ma entrambi gli occhi pure di fronte agli omicidi.
Šostakovicˇ era convinto di andare sul sicuro dato il successo di pubblico (e
di critica «socialista») della versione cinematografica di Ceslav Savinki in
cui (si era negli anni della transizione tra «muto» e «parlato») sangue, sbudellamenti
e torture varie venivano accentuati. Come si è detto, la Lady
Macbeth del 1934 è riapparsa nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, alla
Scala nel 1992 (per insistenza di Claudio Abbado) e nel 2007, nonché nel
1994, nel 1998 e nel 2008 a Firenze. L’opera è senza dubbio violenta con
scene di stupro e di sesso in palcoscenico, ma il film di Ceslav Savinki lo è
ancora di più. Alcune scene (quella del commissariato e della corruzione
diffusa tra le forse dell’ordine) si riferivano all’epoca zarista, ma probabilmente
la situazione non era cambiata molto durante il comunismo. La regia
di Dodin non fa sconti.
Due parole sul più recente spettacolo fiorentino. Nonostante regia,
scene e costumi siano quelli del 1998, la Direzione musicale è differente.
La bacchetta di James Conlon non ha il fuoco e la concitazione di quella di
Semyon Bychkov che l’aveva diretta a Firenze nel 1998 (o di quelle di Chung
e Gergiev per ricordare altre edizioni recenti in forma di concerto) ma è
melanconica e a volte ironica come nella scena del commissariato e in quelle
in cui è presente un pope ridotto a ridicola macchietta. Grande attenzione
ai dettagli. Enfasi sui violoncelli e sui fiati piuttosto che sugli ottoni.
Risalto agli intermezzi in cui la buca d’orchestra viene portata al livello del
palcoscenico. Una Lady, quindi, più dolente che demoniaca. Più vicina
forse a quella che Šostakovicˇ intendeva rappresentare. E più tagliente nei
confronti del comunismo. Anche per questo non piacque alle nostra intellighenzia
sino alla fine degli anni Ottanta (l’edizione spoletina fu fortemente
voluta da Gian Carlo Menotti).
Nel 2006, ho visto ed ascoltato dal vivo a San Pietroburgo Katerina
Izmajlova nella versione «spurgata» del 1963, alla XIV edizione del Festival
delle Stelle delle Notti Bianche, manifestazione nata per iniziativa di Valerij
Gergiev, Direttore musicale di quello che negli anni del collasso del comunismo
si chiamava ancora Teatro Kirov. La compagnia (è un teatro di re-
240 Giuseppe Pennisi
pertorio con compagnia stabile anche se alcune delle sue «stelle» hanno
ormai raggiunto fama internazionale) stentava a continuare ad operare
negli anni della forte contrazione economica che hanno accompagnato la
fine del comunismo con il passaggio all’economia di mercato. Gergiev ebbe
due grandi idee: a) tournée all’estero per esecuzione di opere in forma di
concerto (memorabili quelli all’Auditorium di Via della Conciliazione a
Roma dove, tra l’altro, si poté ascoltare, per la prima volta in Italia, la prima
versione della verdiana «Forza del destino», composta proprio su commissione
del Teatro di San Pietroburgo); b) un festival annuale, modellato
in parte su quello di Monaco, per mostrare il meglio della produzione
dell’anno trascorso ed alcune nuove produzioni. Il festival viene organizzato
nei mesi in cui la luce del giorno resta pallida anche per quasi tutta la
notte. Uscendo dal Mariinskij verso le 23 si è abbracciati dalla notte bianca
mentre ci si avvia traversando ponti e canali verso l’albergo.
Sino alla fine degli anni Settanta, Katerina Izmajlova era l’opera di
Šostakovicˇ che si vedeva ed ascoltava più frequentemente nei teatri italiani,
specialmente nel quadro di tournée di compagnie dell’Europa centrale, orientale
e balcanica, anche in circuiti regionali come quello emiliano. Sulla prima
versione del lavoro gravava ancora, pure presso l’intellighenzia italiana, il
veto posto nel 1936 da Stalin. Inoltre Katerina richiede un organico vocale
(benché comporti 21 parti solistiche in scena) inferiore a quello de Il Naso
(che ne richiede ben 43) e di Lady Macbeth. La versione del 1934, comporta
un impianto mahleriano in cui si innesta il jazz, il fox-trot ed il charleston
(oltre a motivi tradizionali russi) e richiede una dozzina di solisti in buca.
Nella versione del 1963 tanto l’impianto quanto gli innesti sono smussati.
L’intreccio non muta ma sin dal frontespizio, sia del libretto sia del programma
di sala, si precisava che si trattava di accadimenti precedenti la rivoluzione
comunista. L’enfasi, quindi, viene posta sul clima ossessivo del sistema
borghese-imperiale che la circonda – dunque sulle colpe della società
prerivoluzionaria. Inoltre, in Katerina vengono attenuati alcuni tratti, sconvolgenti
nel 1934, ma ritenuti, anche nel 1963, sessualmente troppo espliciti
(quali la scena del tentativo di stupro di massa di una cameriera della
protagonista da parte degli operai ed alcuni momenti del rapporto tra la
protagonista ed il suo amante). Il vero gaglioffo è quest’ultimo; gli altri sono
in vario modo conniventi in una società dove tutto è rancido, anche la polizia,
L’allestimento, coprodotto con l’Opera di Israele, racchiude l’intera Russia
in una grande scatola in legno; la scatola (dai cui praticabili emergono
elementi scenici dei nove quadri) si chiude lentamente sui protagonisti, quasi
stritolandoli. In breve, un allestimento fortemente innovativo, in cui viene
accentuato il carattere corale di un dramma che richiede 21 personaggi in
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 241
scena e 9 solisti in orchestra (oltre ad un grande organico). Efficace la regia
che fornisce uno spaccato lurido della società russa («prerivoluziaria», enfatizzava
il programma di sala). Gergiev accentua le tensione con una concertazione
concitata il cui nervosismo si avverte ancora di più quando transita
verso gli abbandoni per archi degli intermezzi. Un elogio in particolare agli
ottoni ed ai fiati. Il cast vocale denota un grande lavoro di équipe. Pochi protagonisti
sono noti nelle grandi piazze teatrali. Lo è, almeno in Italia, Viktor
Lutsyuk (un vibrante, oltre che attraente, Serghej), noto per avere cantato
alcuni anni fa a Bologna e nel circuito emiliano-romagnolo; fa attenzione a
non eccedere in volume e privilegia il fraseggio. Tra i protagonisti maschili,
eccellono (più di Lutsyuk) Yevgeny Akimov e Gennady Bezzubenkov, marito
e suocero della serial killer. Olga Sergeyeva è una Katerina sensuale, ma fondamentalmente
ingenua (pur se pluriomicida). È un soprano drammatico di
qualità (specialmente nelle tonalità gravi) e dalla voce possente.
Leningrado
Come accennato, il patrimonio musicale lasciato da Šostakovicˇ è vastissimo.
Quindi ne farò solo alcuni cenni. Di recente, uno dei suoi allievi preferiti
e Direttori d’orchestra più specializzati, Gennadij Rozˇdestvenskij, ha
eseguito, con i complessi del Teatro dell’Opera di Roma la prima e la quindicesima
sinfonia, rispettivamente, come scrive efficacemente Franco Pulcini,
l’alfa e l’omega dell’imponente catalogo sinfonico del compositore. La
prima un piccolo capolavoro di un giovane allievo di conservatorio. La
quindicesimia composta circa mezzo secolo più tardi, un testamento spirituale
denso di memorie. Tanto differenti. E pur collegate, specialmente se
concertate da Rozˇdestvenskij, che mette in risalto il nesso tra il soffio leggero,
quasi fiabesco, della quindicesima con l’esuberanza giovanile della prima.
Nel concludere questa nota, tuttavia, è sulla la settima sinfonia, detta
Leningrado, che voglio porre l’accento anche perché in questi ultimi anni
ho avuto modo di ascoltarla dal vivo più volte, specialmente all’Accademia
di Santa Cecilia, dato l’organico che richiede. Le tre ultime occasioni con i
complessi dell’Accademia sono state nel 2010 con la bacchetta di Kirill
Petrenko e nel 1998 e 2008, ambedue le volte con la bacchetta di Valery
Gergiev. Petrenko, che ha 38 anni e quindi non ha conosciuto l’orrore del
comunismo se non quando era in piena implosione, ha dato un’interpretazione
nuova al lavoro. Gli ha tolto la tinta guerriera per farla diventare una
grande elegia di tutti coloro morti per il terrore sia nazista sia staliniano; lo
stesso Šostakovicˇ dichiarò che questa era la sua intenzione.
242 Giuseppe Pennisi
Più di recente, a metà maggio 2013, all’Auditorium di Via della Conciliazione,
sede dell’Orchestra Sinfonica di Roma, l’ho ascoltata diretta da
Francesco La Vecchia e accompagnata da un ingegnoso corredo audiovisivo
di Andrea Giansanti, con il contributo registico e tecnologico di Tiziano Panici
ed il supporto della musikhouse di Andrea Carfagna. È un modo nuovo
e interessante di fare «vedere la musica» e semplificarne la comprensione,
nonché di meglio sottolinearne i punti ed i colori salienti. Nell’Auditorium di
Via della Conciliazione, le proiezioni ricordavano il film Napoléon di Abel
Gance (che utilizzava tre schermi). Nelle pareti laterali all’orchestra immagini
computerizzate (a volte in 3D) fornivano il clima (le nevicate, le betulle,
simboli di guerra e di pace) mentre nel fondo dell’orchestra si vedevano filmati
d’epoca sul lungo assedio di Leningrado (che durò 900 giorni), e fu uno
dei più brutali della Seconda guerra mondiale: 630.000 civili morirono di
fame e freddo, oltre che per i continui bombardamenti aerei.
L’interazione tra musica e immagine consente di rispondere alla domanda
di Andrew Hut, critico musicale di «The Guardian». Sappiamo che
Šostakovicˇ, comunista convinto e profondamente russo, rimase nella città,
durante l’assedio, il più a lungo possibile sino a quando gli venne ingiunto
di andare (con gli altri artisti residenti sulle rive della Neva) prima a Mosca
e poi a Kuibishev. La sinfonia venne eseguita sia a Mosca sia a Leningrado
dall’Orchestra del Bolshoi diretta da Samuel Somosud rispettivamente il 5
ed il 29 marzo 1941. Venne suonata in tutte le maggiori città russe e portata,
in microfilm, a Teheran e da lì al Cairo ed a Londra, da dove venne
ripresa in tutto il mondo. Venne ascoltata, per radio, diretta da Arturo Toscanini,
in tutti i Paesi dove giungevano le trasmissioni. Soltanto nel 1942-
43 ce ne furono 62 esecuzioni unicamente negli Stati Univi con bacchette
come Stokowski, Mitropoulos, Koussevitski, Ormandy, Monteux, Rodzinski
– per citare esclusivamente i più noti. Divenne il simbolo della resistenza
al nazismo e della forza dell’arte contro le dittature e le guerre.
Ciascuno dei quattro movimenti ha un titolo: la guerra, il ricordo, la
patria, la vittoria. Ma i titoli non sono in linea con i contenuti musicali. Nel
primo, un allegretto, ad esempio, La Vecchia e le immagini hanno ricordato
il tempo di pace (ci sono variazioni su temi de La Vedova Allegra). Il
secondo ed il terzo (un moderato ed un adagio) l’accento è sulla melanconia.
Nel finale, un allegro ma non troppo, abbiamo la speranza di un mondo
migliore e della ricostruzione. Prevale la pietas sull’eroismo.
La fusione tra musica (eseguita nel modo più alto) e tecnologia multimediale
mostra come il significato più profondo sia l’immenso atto d’amore
del compositore per la sua città e per la sua Russia, nonostante le angherie
subite da un potere ottuso ed invidioso. Per questo la sinfonia sarà
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 243
sempre attuale e commovente. Dopo 80 minuti di ascolto, la sera del 20
maggio 2013, ce ne sono stati 15 di ovazioni.
Giuseppe Pennisi
Ringrazio mia moglie Patrice Poupon e gli amici Prof. Alfredo Gasponi
e Dr. Alberto Mingardi per gli utili suggerimenti e la messa a disposizione
di materiale inedito durante la stesura di questo scritto.
Nuova Antologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Luglio-Settembre 2013
Vol. 611° - Fasc. 2267
Le Monnier – Firenze
La rivista è edita dalla «Fondazione Spadolini N uova A ntologia» – costituita con decreto
del P residente della Repubblica, Sandro P ertini, il 23 luglio 1980, erede universale di Giovanni
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nel suo arco di vita più che secolare riassume la nascita, l’evoluzione, le conquiste, il travaglio,
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S O M M A R IO
Il giornalismo secondo Spadolini, a cura di Gabriele Paolini. . . . . . . . . . . . . . . 5
Problemi ed esigenze del giornalismo di oggi, p. 7.
Tommaso Bucchia, Memorie inedite sulla battaglia navale di Lissa (II),
a cura di Maurizio Sessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
Testimonianze edite, p. 28; L ’interrogatorio di Bucchia al processo contro P ersano (1867),
p. 34
Piero Barucci, Morire d’austerità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
Vannino Chiti, Quali riforme realizzare?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58
Sabino Cassese, Antonio Maccanico e la «misura dell’ideale». . . . . . . . . . . . . . . 70
Michele D au, Il Partito democratico di fronte alle sue scelte . . . . . . . . . . . . . . . . 73
Enzo Scotto L avina, Le storie della televisione (e dintorni) 1945-2013 . . . . . . . . 83
Dalle proposte innovative di A rturo C. Jemolo allo sguardo mediologico di A lberto A bruzzese,
dall’analisi strutturale di Giuseppe Richeri alla ricerca come racconto, p. 83.
Francesco Gurrieri, Una gestione europea per i Beni culturali «patrimonio
dell’umanità» in Europa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123
Appendice. Carta di Firenze sui Beni culturali europei, p. 126.
Paolo Nello, La patria dei nazionalisti e l’eredità del Risorgimento. . . . . . . . . . 129
Patriottismo e nazionalismo, p. 129; N o al «giolittismo», p. 132; V ia i democratici, p. 136;
Interessano i cattolici, p. 139; Basta coi liberali, p. 142; Solo nazionalisti, p. 146.
Antonio Zanfarino, Senso dello Stato e statalismo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147
1. D irigismo e libertà, p. 147; P otere e ragione pubblica, p. 148; 3. I limiti del libertarismo,
p. 150; 4. A ttivismo e garantismo, p. 151; 5. L a statualità composita, p. 152; 6. V alori e
ambuguità dello Stato sociale, p. 154.
Ermanno Paccagnini, Di alcune scritture femminili di ieri e di oggi. . . . . . . . . . 156
Sandra Salvato, Una poetessa del lavoro, a cura di Caterina Ceccuti. . . . . . . . . 172
Stefano Folli, Diario politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 181
Rosella Postorino, Prigioni dell’anima, intervista a cura di Caterina Ceccuti. . . 198
Italico Santoro, Una sfida per l’Europa: il mercato transatlantico. . . . . . . . . . . 210
1. I l mercato unico transatlantico: un’idea che viene da lontano, p. 210; 2. I l mercato
transatlantico: opportunità e problemi, p. 211; 3. I l mercato transatlantico e i suoi risvolti
politici, p. 213; 4. E l’Europa?, p. 216; 5. D al mercato transatlantico alla Comunità atlantica,
p. 218.
Ernestina Pellegrini, La storia di Caterina e Sofia/Maria. . . . . . . . . . . . . . . . . . 220
Giuseppe Pennisi, Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria
del socialismo reale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227
Premessa, p. 227; I l relativo silenzio in occasione del centenario, p. 229; Cenni sulla vita di
un comunista molto perbene, p. 230; L a «revisione» di Rattalino, p. 235; Il Naso, p. 237;
Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, p. 238; Leningrado, p. 241.
Sandro Rogari, L’agricoltura e le bonifiche durante il fascismo . . . . . . . . . . . . . 244
Adelfio E lio Cardinale, Medicina e storia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 257
Maimonide, medico eccelso come I ppocrate, p. 257; Giovanni Filippo I ngrassia, antesignano
della medicina legale, p. 259; Pascoli e lo spirito della medicina, p. 263.
Paolo Bonetti, Bilanci della Prima Repubblica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267
Una democrazia difficile, p. 267; P artiti e antipartiti, p. 271; L a mutazione antropologica,
p. 273; Lo spirito degli anni Ottanta, p. 276.
Gian Luigi Rondi, Ancora lampi prima dell’estate. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279
Maurizio Naldini, Cambogia, il regno delle acque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 297
«Nuova Antologia» cento anni fa: per l’emancipazione femminile,
a cura di Cosimo Ceccuti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 308
Raniero P aulucci di Calboli, I pregiudizi sessuali e l’elevazione della donna, p. 310; V aleria
Benetti Brunelli, Il problema del lavoro femminile in Italia, p. 323.
Piero Roggi, La nuova Economia politica cristiana. Il contributo di Giuseppe
Bartolomei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336
Alberto Signorini, La dottrina di Charles Péguy. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 342
Daniele Giglioli, Il corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 349
Il corpo nutrito, p. 352; I l corpo goduto, p. 356; I l corpo malato, p. 360; I l corpo vestito,
p. 364; Il corpo armato, p. 366.
Rassegne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 371
Renzo Ricchi, Rassegna di poesia, p. 371; Marco O nofrio, Note critiche su I o. P oema totale
della dissolvenza di Dante Maffìa, p. 380.
Recensioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 384
C. Rebora – V . Scheiwiller, Passione e poesia. Lettere (1954-1957), a cura di G. Mussini,
di Carlo Carena, p. 384; D . Cherubini, Stampa periodica e università nel Risorgimento.
Giornali e giornalisti a Siena, di Gabriele P aolini, p. 388; G. D e Santi, Zavattini e la radio,
di Renzo Ricchi, p. 390; D . Fertilio, L’ultima notte dei fratelli Cervi. Un giallo nel triangolo
della morte, di Anna Ferrando, p. 392.
L’avvisatore librario, di Aglaia Paoletti Langé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 394
Premessa
Nel Fascicolo 2260 della «Nuova Antologia» (ottobre-dicembre 2011)
ho trattato alle pp. 163-177 il tema dell’interazione tra musica e politica
soffermandomi sul caso dei rapporti tra musicisti e potere politico in Germania
ed Italia negli anni Trenta e, soprattutto, sulle reazioni registrate nel
mondo della cultura dopo la Seconda guerra mondiale: il rilancio della
Entartete Musik («musica degenerata» e come tale messa al bando dal nazismo)
in tutto il mondo e la coltre di oblio sui compositori italiani dell’epoca,
anche di coloro – il caso più noto è Luigi Dallapiccola – che hanno dato
le dimissioni dalla cattedra universitaria al momento della promulgazione
delle leggi razziali. L’articolo ha avuto una certa eco: è stato ripreso, citando
la fonte, in alcune riviste musicologiche anche se qualche critico musicale
ha fatto sapere, in privato, che non era il caso di rinvangare situazioni
che non fanno onore alla cultura politica che ha dominato per decenni il
comparto (almeno nel nostro Paese).
È opportuno trattare di musica e politica anche nella patria del «socialismo
reale»? Tre sono probabilmente gli autori russi che hanno influito di
più sulla musica del Novecento: Igor Stravinskij (sempre deciso oppositore
del comunismo), Sergej Prokofiev il quale, dopo avere passato alcuni decenni
all’estero – Stati Uniti, Europa occidentale – con esperienze dal dadaismo
al futurismo alla «nuova musica» allora in elaborazione in Francia)
venne attratto a tornare in patria e diventò uno dei «campioni» che accompagnò
con le sue note la «grande guerra patriottica» (ossia la Seconda
guerra mondiale) e Dmitrij Šostakovicˇ, compositore il quale si considerò
comunista fino al midollo, partecipò attivamente alla «grande guerra pa-
Giuseppe Pennisi
triottica», e non concepì mai di lasciare la «Grande Madre Russia» se non
per brevi viaggi ufficiali, ma che venne discriminato per decenni.
Perché interessarsi ora di Šostakovicˇ, proprio nell’anno in cui tutti ricordano
il centenario de Le Sacre du Printemps con cui Stravinskij irruppe
fragorosamente nel mondo della musica occidentale portando sonorità
slave che scandalizzarono il pubblico di Parigi e di Montecarlo (e successivamente
del resto del mondo)? Ci sono sei valide ragioni:
a) un libro recente di Pietro Rattalino, Šostakovicˇ – Continuità nella musica,
responsabilità nella tirannide, (Zecchini Editori, 2013, pp. 280
euro 25,00) che vuole essere «revisionista» rispetto all’autobiografia
più diffusa di Solomon Volkov, Testimony: The Memoirs of Dmitri
Shostakovich as Related to and edited by Solomon Volkov, pubblicato
in Russia nel 1979 (nuove edizioni sono state pubblicate in Gran Bretagna
e negli Stati Uniti nel 2004 e nel 2006); è anche la base di un film
che ha avuto notevole successo e preso numerosi premi internazionali,
pur se mai visto nella sale italiane;
b) la messa in scena al Metropolitan, a Zurigo, a Aix-en-Provence, a Lione
e a Roma della sua opera giovanile corrosiva, Il Naso, vietata in Russia
(dopo una prima tornata di repliche di successo) sino al 1974;
c) l’entusiasmo che stanno ricevendo le due versioni de Una Lady Macbeth
del Distretto di Mcensk, lavoro che fece infuriare Stalin e che è stato
bandito dai teatri dell’Unione Sovietica per decenni;
d) un minifestival a Roma dove l’orchestra del Teatro dell’Opera, concertata
da Gennadij Roždestvenskij, ha eseguito la prima e la quindicesima
sinfonia e l’Orchestra Sinfonica di Roma la settima dedicata all’assedio
di Leningrado;
e) una serie di esecuzioni di lavori del compositore programmate dal Teatro
Comunale di Bologna nel 2014 e nel 2015;
f) la riscoperta negli Stati Uniti delle sue due commedie musicali I Giocatori
(in effetti un’operetta) e Ceremuski (il nome di un quartiere
della periferia di Mosca su cui è imperniata una buffa e complessa vicenda
di caseggiato socialista), nonché il suo jazz. Quanti ad esempio
sanno che, dopo essere stato utilizzato come musica di accompagnamento
di Eyes Shut Down di Stanley Kubrick, uno dei brani musicali
più frequenti in spot pubblicitari, sigle televisive e simili viene dalla sua
Jazz Suite No. 2?
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 229
Il relativo silenzio in occasione del centenario
L’interesse di questi mesi è significativo soprattutto se raffrontato al
relativo oblio (nel nostro Paese) in occasione del centenario della nascita
nel 2006. Mentre allora tutta l’Italia celebrava alla grande, e con frequenti
duplicazioni di allestimenti, i 250 anni dalla nascita di Mozart, quasi nessuno
si è accorto che era anche l’anno del centenario della nascita del
compositore russo che, con Igor Stravinskij e Sergej Prokofiev, più aveva
inciso nell’integrazione tra vari generi della musica del Novecento (ad
esempio, tra la grande sinfonica mahleriana e i sentieri dell’opera lirica
aperti da maestri del teatro in musica, pur molto differenti, come Richard
Strauss e Leoš Janácˇek, da un lato, ed il jazz e le esperienze timbriche più
innovative, dall’altro). I teatri stranieri hanno dedicato grande attenzione
alla ricorrenza – ad esempio il Festival di Annandale-on-Hudson a due ore
di New York (uno dei più importanti degli Stati Uniti) nel 2004 ha dedicato,
anticipando i tempi, un’intera estate all’integrale della musica di Šostakovicˇ
– dalla sinfonica alla cameristica, dalla lirica al jazz, alla musica per spettacoli
teatrali (tra cui pure una commedia musicale «all’americana» negli
anni Cinquanta) e per film. Nella Russia postcomunista, il più importante
avvenimento musicale dell’anno – il 14esimo Festival Stelle delle Notti
Bianche, a San Pietroburgo è stato dedicato al centenario della nascita del
musicista e ne ha eseguito tutte le opere (ivi compresa la musica da film).
In Italia se ne sono ricordate alcune orchestre sinfoniche – ad esempio
dal 4 all’8 marzo 2006, all’Accademia di Santa Cecilia a Roma, Mstislav
Rostropovicˇ ha dedicato tre concerti al centenario del suo grande compatriota
e caro amico – e la Sinfonica della Scala ne ha dedicato uno, diretto
da Vladimir Jurowski. A Parma Rostropovicˇ, alla guida dell’Orchestra Sinfonica
Toscanini, e Jurowski, con la Giuseppe Verdi di Milano, hanno eseguito
a poche settimane di distanza la sinfonia Leningrado; sempre a Parma
una giornata di studio è stata dedicata al musicista con la proiezione del
film Amleto del 1964 (di cui compose le musiche di accompagnamento).
Poche le iniziative di nuovi allestimenti o di riprese del suo teatro in
musica – il campo dove, pur con due sole opere (per le ragioni che vedremo)
più ha marcato una svolta. Dalla metà di gennaio alla metà di febbraio 2006,
il Teatro dell’Opera di Roma ha realizzato un festival basato sulle musiche
di scena composte da Šostakovicˇ specialmente per lavori di Shakespeare.
Nessun teatro ha messo in scena la sua seconda, e più importante, opera
Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk del 1934.
Dei lavori allestiti a Roma, uno – Amleto, principe del sogno, tratto
dalla musica per il film del 1964 già citata – era stato prodotto nel 2000 ed
230 Giuseppe Pennisi
aveva già viaggiato in varie città. Carla Fracci, sempre in scena e recitando
(oltre che danzando), interpretava con efficacia il ruolo del principe di
Danimarca. Il resto del programma del festival puntava su produzioni a
basso costo e facilmente trasportabili (nella speranza che venissero ospitate
anche da altri teatri), sul melologo unito alla danza e su cast giovani.
Alcune rappresentazioni sono state dedicate alle scuole: le nuove generazioni
vi potevano ritrovare le radici della musica contemporanea.
Occorre ricordare che in Italia solamente la Scala ed i teatri di Firenze
e Spoleto hanno messo in scena (nell’arco di un secolo) le due principali
opere di Šostakovicˇ (composte quando aveva tra i 24 ed i 27 anni). Cosa
spiega questo relativo oblio di un compositore che è stato, per tutta la vita,
un comunista convinto, in un Paese come il nostro dove per decenni la sinistra
ha pur inteso detenere l’egemonia culturale? Come mai in Italia non
si è trovato nessun distributore disposto a scommettere sul film di Tony
Palmer Testimony del 1987 tratto dalle memorie di Šostakovicˇ raccolte dal
giornalista Solomon Volkov? Il lavoro ha avuto successo di pubblico in
vari Paesi ed una delle maggiori enciclopedie del cinematografo – Film and
Filming a cura di Derek Elley – scrive: «B. Kingsley (il protagonista) è straordinario
e c’è un eccezionale bianconero (con alcune sequenze a colori)».
La vita ed il percorso artistico di Šostakovicˇ sono una dimostrazione
delle estreme difficoltà che l’intellettuale, anche un comunista convinto (come
lui), ha alle prese con il sistema (e la non-cultura) del «socialismo reale».
Per questa ragione, Šostakovicˇ era un tabù da non toccare in Italia negli
anni dell’egemonia del PCI nel pensiero culturale del Paese. I «percorsi predeterminati
» – scrive il Premio Nobel Douglas C. North in Understanding
the Process of Economic Change, Princeton University Press, 2005 – sono
radicati e pervicaci; quindi, solo pochi coraggiosi, come l’allora Sovrintendente
dell’Opera di Roma Francesco Ernani (che quando era Sovrintendente
del Maggio Musicale aveva portato le opere di Šostakovicˇ a Firenze) si
sono ricordati della ricorrenza ed impegnati a fare conoscere agli italiani uno
dei maggiori esponenti del «Novecento storico» sia musicale sia intellettuale.
Cenni sulla vita di un comunista molto perbene
Dmitrij Šostakovicˇ nasce a San Pietroburgo il 25 settembre 1906.
Studia nella sua città natale dove si accosta ai movimenti dell’avanguardia
culturale incarnata da Majakovskij, Mejerchol’d e Prokofiev. Cresce da
comunista DOC; il successo internazionale delle sue tre prime sinfonie lo
fa diventare uno degli autori più ricercati per la composizione di musiche
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 231
da film (il cinematografo era agli inizi ed il PCUS ne aveva carpito l’importanza
al fine di plasmare l’opinione pubblica). A soli 24 anni è direttore
del Teatro della Gioventù Operaia, il Malyi, della sua città (il cui nome
era, nel contempo, diventato Leningrado). Il «suo» teatro si giustapponeva
al paludato Mariinskij, dove negli ori e negli stucchi dell’epoca zarista, si
rappresentava l’opera dell’Ottocento, principalmente nella tradizione russa
ed italiana, con alcune escursioni nel repertorio francese (ma quasi
nessuna in quello tedesco). Un incarico che poteva essere attribuito unicamente
ad un fedelissimo del partito, considerato come astro nascente
della cultura marxista. E tale Šostakovicˇ considerava sé stesso ed era visto
dagli altri. Tale si consideravano molti altri che ebbero, nella Patria del
socialismo realizzato, destini simili a quello di Šostakovicˇ; un esempio illuminante
è quello di Michail Afanas’evicˇ Bulgakov, il cui Cuore di Cane è
circolato in Unione Sovietica in versione clandestina, mentre in Occidente
ne venivano anche fatte versioni per il teatro e per il cinema (tra cui un
film di Lattuada) (Alexander Raskatov ne ha tratto l’opera che nella primavera
2013 si è vista alla Scala, un lavoro molto ispirato a Šostakovicˇ).
Pure un protagonista della rivoluzione come Serghei Eišenštein ebbe difficoltà
con il regime non solo per alcuni suoi film (o meglio progetti di film
non realizzati) considerati non abbastanza allineati, ma perché la sua omosessualità
era quasi pasoliniana.
A questo punto è opportuno fare una precisazione: a Leningrado si
respirava un comunismo libertario in alcune sfere (principalmente quella
sessuale) molto differente da quella del comunismo burocratico moscovita.
Il film di maggior successo era intitolato L’amore a tre; la commedia che
«tutti dovevano vedere» era La nazionalizzazione delle donne; alcuni gay
facevano outing – nonostante ai tempi degli Zar l’omosessualità comportasse
la pena di morte (come ben seppe Pëtr I. Cˇajkovskij), e successivamente
venisse tollerata unicamente se praticata, in estrema discrezione, dai
veri beniamini del regime (come il regista Serghei Eišenštein, che si appagava
in lande lontane come il Messico ed il Kazakistan). Le fotografie di
Šostakovicˇ mostrano che era di avvenenza straordinaria, nonché sempre
vestito con estrema eleganza – vezzeggiato ed adorato, quindi, dal gentil
sesso, tanto quanto il suo compagno di bagordi Michail Tuchacˇevskij, più
anziano di lui di una diecina di anni (abbastanza da essere stato «un eroe
della rivoluzione» nonché eroe della Prima guerra mondiale, ma, ciononostante,
fatto fucilare da Stalin nel 1937).
In questo clima nasce la sua prima opera, Il Naso, da un racconto di
Gogol del 1835, rappresentata con grande successo al Malyi il 18 gennaio
1930, quando non aveva ancora compiuto 25 anni. Era una satira terribile
232 Giuseppe Pennisi
della burocrazia (quella zarista in Gogol, ma poteva sembrare anche quella
moscovita). Un ritmo incalzante: 12 quadri in poco più di due ore di musica.
Nonostante un’orchestra da camera, ben 60 personaggi in scena: 27 nel
settimo quadro. Una partitura che fonde citazioni dalla grande tradizione
classica con musica di puro intrattenimento e un campionario di effetti
modernistici, quali intervalli esageratamente ampi, movimenti di scale,
moti pendolari, trilli, canoni, artifici politonali. Ove ciò non bastasse a
sbigottire, le scene erano astratte e cubiste (in Italia sarebbero state chiamate
«futuriste») e la regia si ispirava ai tempi velocissimi delle «comiche»
del muto. Il pubblico, specialmente quello più giovane, andò in visibilio.
Ma la critica accolse il lavoro (così distante dal realismo socialista che allora
faceva i primi passi nell’estetica ufficiale) freddamente. Uno dei critici
più accorti, Ivan Sollertinskij, colse probabilmente nel segno scrivendo che
«la musica distrugge sfumature storiche dei caratteri descritti, le generalizza
e mostra uomini vivi, come fossero nostri contemporanei». Dopo 14
repliche all’insegna del «tutto esaurito», al Direttore del Malyi, ossia a
Šostakovicˇ in persona, venne suggerita una pausa; l’opera venne ripresa la
stagione successiva, ma ci fu, poi, un silenzio nell’Unione Sovietica di ben
43 anni (nonostante venisse rappresentata all’estero, dove era giunta la
partitura, e fosse considerata come uno di capolavori della musica del Novecento
a cui si ispiravano generazioni di giovani musicisti).
Tuttavia, i veri problemi dell’intellettuale comunista perbene, anche se
bon vivant, stavano solo iniziando. A crearglieli non era la vita personale
complicata: intratteneva relazioni parallele con tre-quattro donne, di cui
una, Nina Vasil’evna Varzar diventò la sua prima moglie nel 1932 (ne ebbe
tre, tutte molto belle), dopo un rapporto tempestoso oggetto di chiacchiere
a non finire nella «San Pietroburgo-che-può». Non erano neanche la cameristica
e le musiche per film e per teatro (che gli venivano commissionate
senza cessa dalle istituzioni del regime) a metterlo nei guai. Fu la sua seconda
(ed ultima) opera lirica a farlo cadere in disgrazia con il sistema ed
a porlo su una lunga strada di persecuzione.
Dopo il grottesco Il Naso, scelse un truculento racconto di Nicolaj
Leskov, uno scrittore contemporaneo di Tolstoj che pensava (a torto) di
essersi assicurato un posto nella storia con romanzi «impegnati» sulla Russia
contadina: Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk – uno storiaccia di
sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina Izmajlova, borghese di provincia
mal ammogliata ed assatanata da pulsioni erotiche, uccide tutti gli
uomini che si porta sotto le lenzuola (nel racconto, ammazza anche il proprio
figlio in fasce, dopo averlo avuto dal bel Sergej, dotatissimo – sessualmente
parlando – lavoratore a giornata nell’azienda del suocero e del marito, già
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 233
fatti fuori uno dopo l’altro). L’opera sarebbe dovuta essere la prima di una
tetralogia dedicata alla donna russa – ovviamente alla donna postrivoluzionaria,
liberata sessualmente e, come scritto in Testimony, «di livello assai
superiore al suo ambiente». L’opera è «dedicata alla mia fidanzata, con cui
poi mi sono sposato» e «imperniata su come potrebbe essere l’amore, se il
mondo non fosse zeppo di cose abiette», «Katerina è un genio della passione,
per amore della quale è pronta a tutto, anche ad uccidere». Una lettura del
racconto di Leskov (autore apprezzatissimo da Gorkij) in chiave marxista.
Che l’argomento fosse considerato appropriato lo dimostra il fatto che,
probabilmente, prima ancora di leggere il racconto, Šostakovicˇ ne avesse
visto la versione cinematografica di Cesar Savinki – una lettura molto cruda
in cui la protagonista appare come una vera e propria mantide serial killer.
Quindi, nulla che potesse essere, almeno a prima vista, in contrasto con le
tendenze del partito in materia di arte e spettacolo. C’era, però, la musica.
Prendiamo sempre cosa dice Šostakovicˇ in Testimony: «è musica fatta appositamente
alla rovescia, in modo da non ricordare affatto la classica musica
d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il linguaggio
musicale semplice e comprensibile a tutti». Šostakovicˇ non poteva sapere
che su percorsi analoghi si stavano mettendo compositori tedeschi (come
Berg, Korngold, Krener, Zemlinsky), le cui composizioni sarebbero state
considerate degenerate dal nazismo, ed italiani (Malipiero, Dallapiccola) i
cui lavori sarebbero stati, invece, esaltati dal fascismo, specialmente dalla
corrente modernista, e, quindi, antitradizionalista.
La Lady Macbeth ebbe la prima rappresentazione il 22 gennaio 1934 al
Malyi con un esito trionfale i cui echi furono tali da giungere oltre i confini
dell’Urss , tanto che – cosa insolita in quegli anni – venne ripresa (oltre che
dai maggiori teatri russi) anche a Londra, a Praga e a Cleveland, nell’arco di
meno di 18 mesi. Sembrava destinata ad un successo tale da assicurare l’ascesa
del suo autore ai piani più alti delle gerarchie artistiche del regime. Sino a
quando, la mattina del 28 gennaio 1936, la «Pravda» pubblicò un editoriale
non firmato, ma pare dettato dallo stesso Stalin, ed intitolato Caos anziché
musica: si accusava il lavoro di pornografia e di cacofonia. Da allora (si era
nel 1936) iniziò per Šostakovicˇ, non ancora trentenne, un processo di mobbing
che durò sino alla fine degli anni Cinquanta. Venne allontanato dal teatro in
musica, nonostante avesse progettato di continuare la tetralogia sulla donna
e stesse studiando anche altri libretti. Si buttò nella sinfonica per grande
organico; la quarta sinfonia, composta tra sessioni di confronto con le «alte
sfere» del partito (di cui, in piena sincerità, si dichiarava fedelissimo) non
venne accolta dal successo delle prime tre ma da nuove critiche di «formalismo
borghese». Prende gradualmente le distanze dalla violenza iconoclasta del
234 Giuseppe Pennisi
proprio linguaggio musicale degli anni Trenta. Dopo nuove critiche alla quinta
sinfonia, la sesta, la settima, l’ottava e la nona rappresentano un percorso
sempre più allineato ad una visione conservatrice (ove non reazionaria) sotto
il profilo musicale, ma proprio per questo vicina all’Accademia sovietica.
Con la decima e l’undicesima, la transizione è completa: il dissacratore della
Leningrado degli anni Trenta è ormai approdato (siamo alle soglie degli anni
Cinquanta) al tardoromanticismo di fine Ottocento in linea con il realismo
socialista che piace a Andrej Zdanov (il segretario del Comitato Centrale del
partito, responsabile per la cultura e l’arte). Non solo, l’undicesima sinfonia
(del 1957) e la dodicesima (del 1962) sono ormai dedicate alle celebrazioni,
rispettivamente della guerra e rivoluzione del 1905, nonché alla memoria di
Lenin. Solo dopo la morte di Stalin, ritorna, moderatamente all’innovazione:
nella tredicesima sinfonia introduce la voce solista (su testi di Evtušenko).
Nel 1963 propone una nuova edizione della Lady Macbeth, espurgata, però,
nel testo, nella partitura ed anche nel titolo (diventato Katerina Izmajlova):
ha grande successo in tutta l’Europa centrale, nei repertori dei cui teatri entra
definitivamente; è questa versione che viene conosciuta in Italia, principalmente
tramite le tournée dell’Opera di Zagabria, di Lubiana ed anche di
Sarajevo a Napoli, Genova e nei circuiti della Lombardia e dell’Emilia-
Romagna tra gli anni Sessanta e Settanta. La Lady Macbeth del 1934 si è
ascoltata soltanto nel 1947 al Festival di Musica Contemporanea di Venezia,
nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, nel 1992 alla Scala e nel 1994, 1998
e nel 2006 a Firenze. Il Naso tornò sulle scene russe solo nel 1974, un anno
prima della morte di Šostakovicˇ, a cui vennero dedicati grandiosi funerali di
Stato come eroe nazionale, deputato del Soviet Supremo dell’Urss , insignito
dell’Ordine di Lenin e del Premio di Stato dell’Urss , fedele figlio del
Partito comunista, eminente figura sociale e pubblica, artista del popolo. In
effetti, dopo anni di tribolazioni, era rientrato nei ranghi.
Resta un interrogativo. Come mai Stalin (in tante faccende affaccendato)
si è rivolto alla Lady Macbeth ed al suo autore due anni dopo la prima
rappresentazione e dedicandogli il fondo della «Pravda»? La saggistica in
materia è vastissima, anche di autori italiani. Puntuale la risposta del Direttore
d’orchestra Francesco Maria Colombo: «In due anni era maturato un
trionfo di proporzioni così colossali che era necessario dargli una frenata.
La Lady Macbeth poteva essere bella o brutta, cacofonica o cantata dagli
angeli, aveva successo e, per questo il suo destino, era segnato». Una risposta
eloquente e rivelatrice della linea di pensiero del comunismo. E di tutti
i postcomunismi. Chi ha successo deve essere fermato.
Una versione analoga è stata offerta ad alcuni amici da Mtislav
Rostropovicˇ in occasione di una cena privata a Roma nei giorni in cui con-
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 235
certava Lady Macbeth. «Il colpo di grazia a Šostakovicˇ, l’hanno inferto
Stalin e l’ideologo Zdanov. Ma il primo ad accusarlo fu Molotov, presidente
del consiglio dei commissari del popolo, che essendo nipote del compositore
Skrjabin si riteneva un esperto di musica». Quale l’effetto su Šostakovicˇ?
«Una ferita che non si è più rimarginata. Lo ha cambiato, anche fisicamente.
Ho un ritratto precedente all’episodio in cui i suoi occhi sono diversi».
Stalin, Molotov, Mikoyan e Zdanov erano alla prima di Lady Macbeth
a Mosca. Il vero nome di Molotov (nome di battaglia, «Martello», datosi
durante la rivoluzione) era Vjacˇeslav Michajlovicˇ Skrjabin; nonostante venisse
da famiglia aristocratica (al pari di «Molotov»-Martello) e fosse deceduto
nel 1915 (ossia prima della rivoluzione) Aleksandr Nikolaevicˇ Skrjabin
veniva considerato uno dei maggiori compositori e pianisti russi, ed era
stato ammesso (non si sa per quali meriti) al Pantheon rivoluzionario.
La «revisione» di Rattalino
Questi «cenni» non si basano solo o principalmente su Testimony, pur
se Volkov ha sempre sostenuto di avere come sua fonte quattro anni di
interviste e di possederne i nastri, ma su una vasta bibliografia (in gran
parte di matrice anglosassone) sul compositore. Anche se Volkov non ha
mai esibito i nastri in cui le interviste sarebbero state registrate, nessuno
degli stretti familiari di Šostakovicˇ ne ha mai smentito i contenuti. È difficile
dire quanto nel libro di Volkov ci sia di forzato. Il ritratto che emerge
è quello di un fiero antistalinista, costretto dalle circostanze della vita e
dalla ferocia del tiranno (che aveva mandato di fronte al plotone di esecuzione
alcuni dei suoi migliori amici) a vivere una doppia esistenza dal 1936
(anno in cui venne bandita Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk):
conformista in apparenza (e in tal modo anche con importanti riconoscimenti
ed incarichi ufficiali) ma anticomunista in fondo al cuore e con il
timore di essere, in qualsiasi momento, scoperto. Che Šostakovicˇ fosse timido
(mai, però, con le belle donne) e anche timoroso è dimostrato da un
episodio spicciolo di cronaca. Ormai riabilitato e membro del Parlamento
sovietico, venne fermato da un vigile per eccesso di velocità sul Lungomoscova;
non mostrò la tessera di parlamentare, ma reagì spaventatissimo
facendosi portare (con la sua accompagnatrice) al posto di polizia dove
tutto si risolse con una multa, prontamente pagata.
Il volume di Volkov ha avuto diffusione limitata in Italia. Il film tratto
da Tony Palmer nel 1988 dal libro di Volkov, con Ben Kingsley, ha avuto
numerosi premi internazionali ma – come si è detto – in Italia si è potuto
236 Giuseppe Pennisi
vedere soltanto sul canale Classica di Sky in lingua originale con sottotitoli;
non ha trovato un distributore che lo facesse circolare nelle sale anche
in quanto politici di rango avrebbero, all’epoca, fatto sapere che non gradivano
la diffusione di un film che metteva in cattiva luce l’Unione Sovietica
dalla rivoluzione al 1975. E si era negli anni Novanta!
Piero Rattalino è un musicista ed un musicologo di rango, non uno
storico. Mostra di non gradire il lavoro di Volkov (che considera fuorviante
e pieno di preconcetti anticomunisti) ma la sua è una biografia musicale
(non storico-politica) del compositore. È un lavoro attento, rivolto non
solo al pubblico del mondo della musica ma ad un auditorio più vasto, a
coloro un tempo chiamati «le persone colte»; è scritto con eleganza e pone
le opere di Šostakovicˇ nel contesto dell’evoluzione storico-politica di settanta
anni del Novecento. Riconosce come, dopo il bando di Una Lady
Macbeth del Distretto di Mcensk, il giovane compositore era diventato da
uno dei più corteggiati dalle belle donne dell’intellighenzia di Leningrado,
un timoroso. Così pavido tanto da mettere anche la propria firma ad una
lettera di censura al suo amico Sacharov. Rattalino trova come elemento di
fondo della vita del compositore «la continuità di musica legata alla tradizione
e l’assunzione di responsabilità personali, pur nei lacci della tirannide».
Essenzialmente, si differenzia solo in parte da un’analisi dalla personalità
di Šostakovicˇ quale tratteggiata da Volkov. Intende essere «revisionista» ma
finisce con confermare quella che possiamo chiamare l’interpretazione «di
riferimento» del dramma vissuto da Šostakovicˇ dai suoi due grandi successi
teatrali giovanili quasi alla fine della sua avventura terrena.
Occorre però chiedersi se, dopo avere composto due opere indubbiamente
rivoluzionarie sotto l’aspetto della sintassi musicale, gran parte della produzione
di Šostakovicˇ (soprattutto le sinfonie, meno la cameristica e le musiche
da film) siano rimaste così tradizionali (e lontane da altri fermenti del
Novecento) proprio in quanto sentitosi nel mirino di un regime che non accettava
l’innovazione. Il libro di Rattalino non tratta questo aspetto importante
e ne tralascia un altro: il jazz di Šostakovicˇ – un segno, al tempo stesso,
di sfida al regime e d’innovazione nel panorama musicale sovietico dell’epoca
ed in gran parte ignorato dalla critica musicologica (nonostante ne esista
un’eccellente registrazione quasi integrale). Comunque, il lavoro di Rattalino
merita di essere letto non solo da chi si interessa di musica ma da tutti coloro
che vogliono approfondire il ruolo (e le difficoltà) degli intellettuali
nell’Unione Sovietica anche nella visione, se vogliamo, benevola di uno studioso
che ha spesso mostrato la propria simpatia per il «socialismo reale».
Vediamo ora un campione delle sue opere.
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 237
Il Naso
Nonostante richieda un numero smisurato di solisti, è forse il lavoro
per la scena di Šostakovicˇ rappresentato più spesso anche in Italia. Ne ho
visto cinque allestimenti. Nel 1966-67, il Maggio Musicale Fiorentino e il
Teatro dell’Opera di Roma ne affidarono l’allestimento a Edoardo De Filippo
e a Mimo Maccari; il lavoro veniva dato in traduzione ritmica italiana,
perdendo il mirabile intreccio tra parola e musica del giovane Šostakovicˇ,
ma entusiasmando gli spettatori per la vis comica. Nel 1995, al piccolo
Teatro Caio Melisso di Spoleto, Roman Terleckyj e Steven Mercurio offrirono
per la prima volta in Italia l’opera in versione originale con un cast
internazionale (prevalentemente anglosassone): un allestimento «surrealista»
efficace, ma Šostakovicˇ era un giovane comunista che aveva aderito al movimento
«futurista» non a quello surrealista.
Dal 1974, il Teatro Musicale da Camera di Mosca creato ed animato da
Boris Provovskij lo ha in repertorio e ne propone diverse repliche (sempre affollatissime)
ogni anno sempre nell’allestimento originale in un ex cinematografo
per 200 posti. L’edizione di Boris Provovskij si è vista a Torino e al Teatro
Olimpico di Roma nel 2006 in occasione del centenario dalla nascita del compositore
e in varie città emiliane nel 2010; la colsi a Torino e a Parma. L’allestimento
di Boris Provovskij (ormai deceduto da tempo), leggermente ritoccato,
è ancora molto valido; molto diverso da quello del 1930, con pochi elementi
mostra tutta San Pietroburgo e le sue atmosfere. Affiatatissima la compagnia
che lo canta, balla e recita almeno 50 volte l’anno nel piccolo Teatro da Camera
di Mosca. Nel 2011 è esploso l’allestimento grandioso e tecnologico di
William Kentrige, coprodotto dal Festival di Aix-en-Provence, dall’Opéra National
di Lione e dal Metropolitan di New York; lo colsi a Aix, dove la bacchetta
era affidata a Kuzushi Ono, uno dei migliori concertatori di musica contemporanea.
L’opera viene mostrata come «un manifesto della modernità».
Ho goduto il mio quinto Il Naso all’Opera di Roma dove, a ragione
della domenica sera (non propizia a una «prima», specialmente di un’opera
poco conosciuta), alcune file erano vuote (ma si sono riempite alle repliche).
Splendida la regia, le scene e i costumi – la produzione veniva da
Zurigo; spettacolo essenziale come quello di Provovskij (e quindi facilmente
trasportabile), con un uso sapiente della tecnologia. Eccellente la
concertazione del giovane Direttore argentino Alejo Perez. Ottimo il vastissimo
cast internazionale con Paulo Szot nella veste di protagonista e
nei ruoli minori molti russi, nonché italiani, tra cui alcuni provenienti
dall’organico stabile del coro. Bravi ballerini e mimi. Insomma, da vedere
e rivedere, augurandosi che se ne possa fare un DVD.
238 Giuseppe Pennisi
Pur se differenti tra di loro, da ciascuno di questi allestimenti si comprende
perché testo e musica irritarono, se non Stalin in persona, la sua
corte e la burocrazia: un alto funzionario perde, all’improvviso, il proprio
naso (mentre il barbiere rasa la sua barba) e si mette, quindi, ad una sua
ansiosa ricerca nelle alte e nelle basse sfere della capitale (palazzi, chiese,
uffici, botteghe, redazioni di giornali), scoprendone di cotte e crude. Il
sarcasmo si riferisce alle burocrazie di tutti i tempi, soprattutto a quella
bolscevica. La musica sgomentò l’ortodossia ancora di più: su un impianto
chiaramente slavo, Šostakovicˇ innesca jazz, atonalità, ritmi incalzanti (con
forti dinamiche timbriche), stili di canto estremi (dal parlato al sovracuto
alla polifonia). L’orchestra è snella, include strumenti inconsueti come la
domra, la balalaika, ed il flexaton e, in certi passaggi, deve riuscire ad evocare
la grande tradizione sinfonica ottocentesca.
Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk
Ho visto due esecuzioni sceniche dal vivo di Una Lady Macbeth del
Distretto di Mcensk ambedue a Firenze, nel 1998 quando l’allestimento
ottenne il «Premio Abbiati» (l’Oscar italiano per il miglior spettacolo lirico)
e nel 2008 quando venne ripreso per poche repliche. Lo spettacolo del 1998
(regia di Lev Dodin, scene e costumi di David Borovsky, Direzione musicale
di Semyon Bychkov) è stato considerato esemplare sia in Italia sia
all’estero. Riguarda, poi, un’opera che ai tempi del «pensiero unico» non
veniva quasi mai eseguita, nonostante abbia avuto una serie di rappresentazioni
esemplari in traduzione ritmica italiana, come si usava all’epoca,
alla Fenice nell’ambito del Festival di Musica Contemporanea di Venezia
nel 1947. L’ho anche ascoltata dal vivo in versioni da concerto dirette da
Myung-Whun Chung e Valery Gergiev, rispettivamente con i complessi
dell’Opéra di Parigi (di cui esiste un’ottima incisione) e del Mariinskij di
San Pietroburgo. A Roma, la Lady Macbeth è arrivata nel 2002 in un’edizione
semiscenica multimediale approntata inizialmente da Sergio Renan
per il Colon di Buenos Aires e già ripresa al Real di Madrid ed al San Carlo
di Napoli. Spettacolo, quindi, essenziale ma molto rodato e che si avvale di
un doppio cast di cantanti delle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica, singolarmente
poco noti in Italia, ma calati nei ruoli, e nelle difficoltà vocali,
nonché abituati ad un attento lavoro di squadra. L’orchestra dell’Accademia
di Santa Cecilia si è cimentata molto bene con la difficile partitura. Era
guidata da Mstislav Rostropovicˇ, che festeggiava il 75esimo compleanno.
Rostropovicˇ, che conosco da quando a Washington ha rilanciato la National
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 239
Symphony, ha una sensibilità molto differente da quelle di Chung e di
Bychkov. La sua Lady Macbeth è più passionale che violenta. Alla ferocia
degli ottoni viene contrapposta la dolcezza degli archi.
Come detto in precedenza, l’opera avrebbe dovuto essere la prima di
una tetralogia dedicata alla donna russa, ovviamente alla donna postrivoluzionaria,
liberata sessualmente e politicamente. La Lady in fin dei conti
uccideva tre kulaki proprietari terrieri reazionari in un mondo in cui la
polizia era corrotta e i pope chiudevano, in cambio di una buona offerta
alla questua, non uno ma entrambi gli occhi pure di fronte agli omicidi.
Šostakovicˇ era convinto di andare sul sicuro dato il successo di pubblico (e
di critica «socialista») della versione cinematografica di Ceslav Savinki in
cui (si era negli anni della transizione tra «muto» e «parlato») sangue, sbudellamenti
e torture varie venivano accentuati. Come si è detto, la Lady
Macbeth del 1934 è riapparsa nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, alla
Scala nel 1992 (per insistenza di Claudio Abbado) e nel 2007, nonché nel
1994, nel 1998 e nel 2008 a Firenze. L’opera è senza dubbio violenta con
scene di stupro e di sesso in palcoscenico, ma il film di Ceslav Savinki lo è
ancora di più. Alcune scene (quella del commissariato e della corruzione
diffusa tra le forse dell’ordine) si riferivano all’epoca zarista, ma probabilmente
la situazione non era cambiata molto durante il comunismo. La regia
di Dodin non fa sconti.
Due parole sul più recente spettacolo fiorentino. Nonostante regia,
scene e costumi siano quelli del 1998, la Direzione musicale è differente.
La bacchetta di James Conlon non ha il fuoco e la concitazione di quella di
Semyon Bychkov che l’aveva diretta a Firenze nel 1998 (o di quelle di Chung
e Gergiev per ricordare altre edizioni recenti in forma di concerto) ma è
melanconica e a volte ironica come nella scena del commissariato e in quelle
in cui è presente un pope ridotto a ridicola macchietta. Grande attenzione
ai dettagli. Enfasi sui violoncelli e sui fiati piuttosto che sugli ottoni.
Risalto agli intermezzi in cui la buca d’orchestra viene portata al livello del
palcoscenico. Una Lady, quindi, più dolente che demoniaca. Più vicina
forse a quella che Šostakovicˇ intendeva rappresentare. E più tagliente nei
confronti del comunismo. Anche per questo non piacque alle nostra intellighenzia
sino alla fine degli anni Ottanta (l’edizione spoletina fu fortemente
voluta da Gian Carlo Menotti).
Nel 2006, ho visto ed ascoltato dal vivo a San Pietroburgo Katerina
Izmajlova nella versione «spurgata» del 1963, alla XIV edizione del Festival
delle Stelle delle Notti Bianche, manifestazione nata per iniziativa di Valerij
Gergiev, Direttore musicale di quello che negli anni del collasso del comunismo
si chiamava ancora Teatro Kirov. La compagnia (è un teatro di re-
240 Giuseppe Pennisi
pertorio con compagnia stabile anche se alcune delle sue «stelle» hanno
ormai raggiunto fama internazionale) stentava a continuare ad operare
negli anni della forte contrazione economica che hanno accompagnato la
fine del comunismo con il passaggio all’economia di mercato. Gergiev ebbe
due grandi idee: a) tournée all’estero per esecuzione di opere in forma di
concerto (memorabili quelli all’Auditorium di Via della Conciliazione a
Roma dove, tra l’altro, si poté ascoltare, per la prima volta in Italia, la prima
versione della verdiana «Forza del destino», composta proprio su commissione
del Teatro di San Pietroburgo); b) un festival annuale, modellato
in parte su quello di Monaco, per mostrare il meglio della produzione
dell’anno trascorso ed alcune nuove produzioni. Il festival viene organizzato
nei mesi in cui la luce del giorno resta pallida anche per quasi tutta la
notte. Uscendo dal Mariinskij verso le 23 si è abbracciati dalla notte bianca
mentre ci si avvia traversando ponti e canali verso l’albergo.
Sino alla fine degli anni Settanta, Katerina Izmajlova era l’opera di
Šostakovicˇ che si vedeva ed ascoltava più frequentemente nei teatri italiani,
specialmente nel quadro di tournée di compagnie dell’Europa centrale, orientale
e balcanica, anche in circuiti regionali come quello emiliano. Sulla prima
versione del lavoro gravava ancora, pure presso l’intellighenzia italiana, il
veto posto nel 1936 da Stalin. Inoltre Katerina richiede un organico vocale
(benché comporti 21 parti solistiche in scena) inferiore a quello de Il Naso
(che ne richiede ben 43) e di Lady Macbeth. La versione del 1934, comporta
un impianto mahleriano in cui si innesta il jazz, il fox-trot ed il charleston
(oltre a motivi tradizionali russi) e richiede una dozzina di solisti in buca.
Nella versione del 1963 tanto l’impianto quanto gli innesti sono smussati.
L’intreccio non muta ma sin dal frontespizio, sia del libretto sia del programma
di sala, si precisava che si trattava di accadimenti precedenti la rivoluzione
comunista. L’enfasi, quindi, viene posta sul clima ossessivo del sistema
borghese-imperiale che la circonda – dunque sulle colpe della società
prerivoluzionaria. Inoltre, in Katerina vengono attenuati alcuni tratti, sconvolgenti
nel 1934, ma ritenuti, anche nel 1963, sessualmente troppo espliciti
(quali la scena del tentativo di stupro di massa di una cameriera della
protagonista da parte degli operai ed alcuni momenti del rapporto tra la
protagonista ed il suo amante). Il vero gaglioffo è quest’ultimo; gli altri sono
in vario modo conniventi in una società dove tutto è rancido, anche la polizia,
L’allestimento, coprodotto con l’Opera di Israele, racchiude l’intera Russia
in una grande scatola in legno; la scatola (dai cui praticabili emergono
elementi scenici dei nove quadri) si chiude lentamente sui protagonisti, quasi
stritolandoli. In breve, un allestimento fortemente innovativo, in cui viene
accentuato il carattere corale di un dramma che richiede 21 personaggi in
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 241
scena e 9 solisti in orchestra (oltre ad un grande organico). Efficace la regia
che fornisce uno spaccato lurido della società russa («prerivoluziaria», enfatizzava
il programma di sala). Gergiev accentua le tensione con una concertazione
concitata il cui nervosismo si avverte ancora di più quando transita
verso gli abbandoni per archi degli intermezzi. Un elogio in particolare agli
ottoni ed ai fiati. Il cast vocale denota un grande lavoro di équipe. Pochi protagonisti
sono noti nelle grandi piazze teatrali. Lo è, almeno in Italia, Viktor
Lutsyuk (un vibrante, oltre che attraente, Serghej), noto per avere cantato
alcuni anni fa a Bologna e nel circuito emiliano-romagnolo; fa attenzione a
non eccedere in volume e privilegia il fraseggio. Tra i protagonisti maschili,
eccellono (più di Lutsyuk) Yevgeny Akimov e Gennady Bezzubenkov, marito
e suocero della serial killer. Olga Sergeyeva è una Katerina sensuale, ma fondamentalmente
ingenua (pur se pluriomicida). È un soprano drammatico di
qualità (specialmente nelle tonalità gravi) e dalla voce possente.
Leningrado
Come accennato, il patrimonio musicale lasciato da Šostakovicˇ è vastissimo.
Quindi ne farò solo alcuni cenni. Di recente, uno dei suoi allievi preferiti
e Direttori d’orchestra più specializzati, Gennadij Rozˇdestvenskij, ha
eseguito, con i complessi del Teatro dell’Opera di Roma la prima e la quindicesima
sinfonia, rispettivamente, come scrive efficacemente Franco Pulcini,
l’alfa e l’omega dell’imponente catalogo sinfonico del compositore. La
prima un piccolo capolavoro di un giovane allievo di conservatorio. La
quindicesimia composta circa mezzo secolo più tardi, un testamento spirituale
denso di memorie. Tanto differenti. E pur collegate, specialmente se
concertate da Rozˇdestvenskij, che mette in risalto il nesso tra il soffio leggero,
quasi fiabesco, della quindicesima con l’esuberanza giovanile della prima.
Nel concludere questa nota, tuttavia, è sulla la settima sinfonia, detta
Leningrado, che voglio porre l’accento anche perché in questi ultimi anni
ho avuto modo di ascoltarla dal vivo più volte, specialmente all’Accademia
di Santa Cecilia, dato l’organico che richiede. Le tre ultime occasioni con i
complessi dell’Accademia sono state nel 2010 con la bacchetta di Kirill
Petrenko e nel 1998 e 2008, ambedue le volte con la bacchetta di Valery
Gergiev. Petrenko, che ha 38 anni e quindi non ha conosciuto l’orrore del
comunismo se non quando era in piena implosione, ha dato un’interpretazione
nuova al lavoro. Gli ha tolto la tinta guerriera per farla diventare una
grande elegia di tutti coloro morti per il terrore sia nazista sia staliniano; lo
stesso Šostakovicˇ dichiarò che questa era la sua intenzione.
242 Giuseppe Pennisi
Più di recente, a metà maggio 2013, all’Auditorium di Via della Conciliazione,
sede dell’Orchestra Sinfonica di Roma, l’ho ascoltata diretta da
Francesco La Vecchia e accompagnata da un ingegnoso corredo audiovisivo
di Andrea Giansanti, con il contributo registico e tecnologico di Tiziano Panici
ed il supporto della musikhouse di Andrea Carfagna. È un modo nuovo
e interessante di fare «vedere la musica» e semplificarne la comprensione,
nonché di meglio sottolinearne i punti ed i colori salienti. Nell’Auditorium di
Via della Conciliazione, le proiezioni ricordavano il film Napoléon di Abel
Gance (che utilizzava tre schermi). Nelle pareti laterali all’orchestra immagini
computerizzate (a volte in 3D) fornivano il clima (le nevicate, le betulle,
simboli di guerra e di pace) mentre nel fondo dell’orchestra si vedevano filmati
d’epoca sul lungo assedio di Leningrado (che durò 900 giorni), e fu uno
dei più brutali della Seconda guerra mondiale: 630.000 civili morirono di
fame e freddo, oltre che per i continui bombardamenti aerei.
L’interazione tra musica e immagine consente di rispondere alla domanda
di Andrew Hut, critico musicale di «The Guardian». Sappiamo che
Šostakovicˇ, comunista convinto e profondamente russo, rimase nella città,
durante l’assedio, il più a lungo possibile sino a quando gli venne ingiunto
di andare (con gli altri artisti residenti sulle rive della Neva) prima a Mosca
e poi a Kuibishev. La sinfonia venne eseguita sia a Mosca sia a Leningrado
dall’Orchestra del Bolshoi diretta da Samuel Somosud rispettivamente il 5
ed il 29 marzo 1941. Venne suonata in tutte le maggiori città russe e portata,
in microfilm, a Teheran e da lì al Cairo ed a Londra, da dove venne
ripresa in tutto il mondo. Venne ascoltata, per radio, diretta da Arturo Toscanini,
in tutti i Paesi dove giungevano le trasmissioni. Soltanto nel 1942-
43 ce ne furono 62 esecuzioni unicamente negli Stati Univi con bacchette
come Stokowski, Mitropoulos, Koussevitski, Ormandy, Monteux, Rodzinski
– per citare esclusivamente i più noti. Divenne il simbolo della resistenza
al nazismo e della forza dell’arte contro le dittature e le guerre.
Ciascuno dei quattro movimenti ha un titolo: la guerra, il ricordo, la
patria, la vittoria. Ma i titoli non sono in linea con i contenuti musicali. Nel
primo, un allegretto, ad esempio, La Vecchia e le immagini hanno ricordato
il tempo di pace (ci sono variazioni su temi de La Vedova Allegra). Il
secondo ed il terzo (un moderato ed un adagio) l’accento è sulla melanconia.
Nel finale, un allegro ma non troppo, abbiamo la speranza di un mondo
migliore e della ricostruzione. Prevale la pietas sull’eroismo.
La fusione tra musica (eseguita nel modo più alto) e tecnologia multimediale
mostra come il significato più profondo sia l’immenso atto d’amore
del compositore per la sua città e per la sua Russia, nonostante le angherie
subite da un potere ottuso ed invidioso. Per questo la sinfonia sarà
Musica e politica: un comunista «puro sangue» nella patria del socialismo reale 243
sempre attuale e commovente. Dopo 80 minuti di ascolto, la sera del 20
maggio 2013, ce ne sono stati 15 di ovazioni.
Giuseppe Pennisi
Ringrazio mia moglie Patrice Poupon e gli amici Prof. Alfredo Gasponi
e Dr. Alberto Mingardi per gli utili suggerimenti e la messa a disposizione
di materiale inedito durante la stesura di questo scritto.
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