Caro Letta, si parla di privatizzazioni ma si sta tornando alle nazionalizzazioni
25 - 10 - 2013Giuseppe PennisiDa alcuni anni stiamo passando da “statalismo strisciante” a “statalismo dirompente”. Nel 2012 ci sono state solo e privatizzazioni “parlate”, o meglio “cincischiate”. Non è stata neanche pubblicata la Relazione annuale sulle privatizzazioni del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) al Parlamento, un atto amministrativo dovuto; l’ultima risale al settembre 2011. Il Parlamento non se n’è preoccupato più di tanto: non si registra una sola interrogazione in materia.
Nell’anno e mezzo in cui l’Italia ha avuto un Governo “tecnico” (presieduto da Mario Monti), che pur ha proposto un programma di dismissione graduale del patrimonio immobiliare pubblico, una sola privatizzazione è stata “decretata”: quella dell’Unione nazionale degli ufficiali in congedo d’Italia (Unici) con 35mila iscritti e una manciata di dipendenti (che si occupano principalmente di attività turistiche e sportive dei soci del sodalizio). Non è stata, però, realizzata poiché non si riuscivano a collocare sei dipendenti ed è intervenuto lo scioglimento delle Camere.
Negli ultimi cinque mesi (Governo Letta), è stata, di fatto, nazionalizzata la Ansaldo Energia, si sta modificando la normativa sull’Opa e sulla golden power per impedire che Telecom finisca sotto il controllo dalla “cugina spagnola” e si stanno mettendo a rischio 75 milioni di euro di risparmi degli italiani in un nuovo tentativo di “salvataggio” di Alitalia oppure (se si vuole) per una cura ricostituente perché la scassata compagnia di bandiera venga comprata da Air France-Klm a un prezzo più elevato delle ultime valutazioni (tra uno e 50 milioni di euro, aerei e uniformi incluse).
Si potrebbe privatizzare a iosa. Un documento della Fondazione Astrid Valorizzazione e Privatizzazione del Patrimonio Pubblico fornisce stime interessanti: la quota Snam detenuta dalla Cassa depositi e prestiti potrebbe valere attorno a 2,9 miliardi di euro, quella di Terna 1,5; in totale, quindi, di 4,4 miliardi. Aggiungendo l’Eni si arriverebbe a 17 miliardi. Se si volesse operare alla grande e il mercato recepisse anche aziende non quotate (Anas, Enav, Eur, Ferrovie, Invitalia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Poste Italiane e la stessa Cdp) si potrebbero aggiungere altri 30 miliardi e sfiorare i 50 complessivi. A cui aggiungere il patrimonio immobiliare (dalle caserme dismesse agli edifici di Province e tribunali in chiusura).
Sorgono due domande. Dove sono i capitali pronti ad affluire verso un’Italia considerata in fondo alla classifica (75sima all’ultima conta) del Doing Business della Banca Mondiale? L’incertezza del quadro regolatorio è l’ostacolo principale: le modifiche di Opa e golden power proprio mentre l’operazione Telefonica-Telecom è in corso non inducono certo a incoraggiare potenziali capitali stranieri. Lo inducono ancora meno le modifiche alle normativa sulla previdenza (pare che ogni ministro del Lavoro voglia una riforma della previdenza con il suo nome). E dove sono i manager? Se ci si rivolge ai soliti noti che hanno una certa responsabilità nello sconquasso attuale, come pensare di migliorare la situazione?
C’è anche una terza domanda. Per incidere davvero, le privatizzazioni “scomode” devono riguardare anche il tentacolare “capitalismo municipale” e “regionale”. In materia verrà detto qualcosa di liberale? O anche soltanto di liberal-socialista?
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