POLITICHE E CRITERI D’INVESTIMENTO PER LE INFRASTRUTTURE
Giuseppe
Pennisi
Università
Europea di Roma
Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro
1 Premessa
In questi ultimi mesi il
dibattito sul ruolo delle infrastrutture nella politica di uscita dalla crisi
in Europa e più specificatamente in Italia si è fatto particolarmente intenso,
anche a ragione di interpretazioni giornalistiche di dichiarazioni di esponenti
delle parti sociali [1].. Si dispone, inoltre, di
ricca documentazione messa a punto in occasione di analisi e confronto a
carattere pubblico (ad esempio, Balassone , Casadio, 2011; Bassanini, Reviglio
2011, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, 2011a); Ministero
dell’Economia e delle Finanze . 2011; Wagenwoort, R. De Nicola C., Kappeler A.
2011,) con dati ed analisi di alto livello. Ci sono stati altri contributi
importanti sia italiani sia internazionali (ad esempio, Calderon, Moral-Benito,
Serven, 2011; Hull, 2011;Ragazzi, 2011)
Questa
nota ha l’obiettivo di tirare le somme di quanto pubblicato e di formulare
alcune proposte al fine di meglio definire parametri e criteri per la
definizione d’investimenti in infrastrutture che meglio contribuiscano ad una
crescita inclusiva – per “inclusiva” si intende cresciti che dai particolare
attenzione alla aree territoriali ed alle fasce di reddito e di consumo meno
favoriti.
La
nota è divisa in quattro parti: a) definizioni di come vengono contabilizzate
le spese per le infrastrutture; b) strategia di rilancio della spesa pubblica e
privata per le infrastrutture c) le strategie europee nel settore e d) parametri e criteri per l’analisi degli
investimenti, tenendo conto dei lavori recentemente avviati dall’Istat.
2. I
Conti delle Infrastrutture Qualsiasi analisi delle
politiche relative alle infrastrutture richiede elementi quantitativi di base;
ad esempio, indicatori della spesa per infrastrutture in termini di Prodotto
interno lordo(Pil). Tale elementi quantitativi sono difficilmente comparabili,
come rilevato dalle recenti analisi della Bei (Wagenwoort, De Nicola, Kappeler,
2011) e della stessa Banca D’Italia (Balassone,.Casadio, 2011) Come ricordato
nel lavoro Bei, la definizione che sembra più sensata (e che è più
frequentemente utilizzata) è quella proposta da Gramlich una ventina di anni fa
che, al termini di una dettagliata rassegna della lettera economica in materia,
restringe il campo essenzialmente alle infrastrutture fisiche (strade, ponti,
ferrovie, porti, idrovie smaltimento di rifiuti), specialmente se in condizione
di monopolio naturale. Lo stesso lavoro Bei sottolinea che tale definizione
include esclusivamente l’infrastruttura “economica” , escludendo quella
“sociale” (scuole , ospedali). A mio avviso , l’esclusione è molto più netta da
quanto appaia nel lavoro Bei poiché da circa trent’anni sono varie forme di
capitale “umano” e di “capitale sociale” (North, 1994) sono considerate le leve
per la crescita inclusiva e lo sviluppo endogeno (per una rassegna, Pieterse
2001; in questa accezione , per il “sociale” come “scuole” e “ospedali” la
componente fisica (“bricks and mortar” , mattone e cemento) raramente supera
più del 10% della spesa e ciò che conta sono i flussi annuali (ovviamente
capitalizzabili) per assicurarne il buon funzionamento.
Di conseguenza, un’interpretazione di cosa
sono le infrastrutture tale da includere queste componenti, pur se giustificata
sotto il profilo dell’analisi economica, comporterebbe l’aggiunta di spese
pubbliche e private che, sotto invece, il profilo contabile sono di parte
corrente. Paradossalmente, in Italia mentre
negli ultimi quattro anni il rapporto investimenti pubblici per
infrastrutture è sceso (raffrontando i conti pubblici e la contabilità
economica nazionale da 2.5% a 1.6% del Pil – si aggirava sul 3% negli Anni
Ottanta-, il rapporto sarebbe rimasto sostanzialmente stabile (attorno al 18%
del Pil) includendo le spese per istruzione e sanità quelle maggiormente dirette al capitale umano
ed al capitale sociale. Una delle ragioni per cui non è stata accettata,a
livello dell’eurozona, l’ipotesi di una “Golden Rule” tale da esentare le spese
per il capitale dal computo del rapporto tra spesa pubblica e Pil ai fini del
“patto di crescita e di stabilità” risiede proprio nella difficoltà di definire
cosa sono, in una visione moderna del pensiero economico, cosa debba o non
debba rientrare nel concetto di spesa per investimento (Breuss, 2007). Cosa
includere e cosa non includere nella definizione di cosa è e cosa non è
“infrastrutture” (al di là di quelle fornite dalla statistica economica e dalla
contabilità economica nazionale, di solito basta su quella di Gramlich)diventa
elemento essenziale sia per l’allestimento e la valutazione delle politiche per
le infrastrutture , sia per finalità direttamente operative su cosa posa essere
considerato finanziabile ad esempio da parte della Cassa Depositi e Prestiti
(CPD) e delle istituzioni appartenenti al Long Term Investment Club (LTIC).[2]
Occorre,
poi, sottolineare un aspetto sollevato , sempre circa venti anni fa,
dall’allora direttore del Congressional Budget Office, Alice Rivkin: in
un’economia avanzata e matura – Alice Rivkin guardava agli Stati Uniti ma si
può fare un ragionamento analogo per l’Europa in generale e per l’Italia in
particolare- le spese infrastrutture fisiche differiscono in misura
significativa da quelle che caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo:
nei Paesi maturi riguardano non tanto la creazione di nuove infrastrutture
fisiche quanto l’ammodernamento e la manutenzione straordinaria di quelle
esistenti – e , di conseguenza, assume un ruolo specialmente importante il
dibattito su come contabilizzare i “costi accantonati” (in gergo i sunk costs) mentre, di converso,
esternalità ed interdipendenze e prezzi ombra di alcuni fattori (e.g. lavoro)
sono centrali nell’analisi economica di nuove infrastrutture fisiche.
Queste
considerazioni sono utili non unicamente sotto il profilo metodologico ma anche
per spiegare , da un canto, il differente grado e la differente natura di dotazione
in infrastrutture tra varie aree d’Europa e d’Italia (aspetto descritto in modo
accurato in Balassone e Casadio, 2011) ma anche i differenti effetti della
crisi in corso dal 2007 tra il gruppo originario, o quasi, di Stati dell’Unione
Europea (UE) e gli Stati neo-comunitari (analizzato in Wagenwoort, De Nicola,
Kappeler, 2011). Nell’UE a 15, in effetti, c’è stata una marcata riduzione
della spesa per infrastrutture secondo la definizione di Gramlich, mentre negli
Stati neo comunitari la flessione è stata breve e poco marcata. Nel primo
gruppo, i programmi di ammodernamento e di manutenzione straordinaria potevano
essere posposti; nel secondo, invece, ritardi in questo campo avrebbero reso
molto più lunga e molto più difficile la convergenza con il resto dell’UE anche
in base ai teoremi fondamentali della teoria dell’integrazione economica
(Balassa, 1961.). Nel primo gruppo, infine, c’è stata una rapida espansione
della spesa per il welfare (indennità
di disoccupazione, ed altri ammortizzatori sociali) che secondo
un’interpretazione estesa del concetto di “infrastrutture” è necessaria a
mantenere quel capitale umano e quel capitale sociale che a differenza del
capitale fisico si deteriora se non utilizzato (Galor, 2011; Pennisi, 2011).
Negli anni ’50 sono state realizzate molte grandi opere perché c’era una volontà
politica che si fondava su un ampio consenso (politica, imprese e cittadini).
Allo stesso modo per l’opinione pubblica in passato la costruzione di una nuova
opera era per definizione un’opportunità, oggi tale percezione non è scontata.
Soprattutto, c’era l’esigenza di costruire l’infrastruttura primaria per lo
sviluppo del Paese. A partire dalla fine degli anni ’90, invece, le esigenze
principali sono state per il completamento e l’ammodernamento del parco
infrastrutture esistente, un’esigenza molto più complessa sotto il profilo
tecnico, molto più difficile da valutare sotto quello economico e finanziario e
molto meno attraente ai fini della costruzione e gestione del consenso.
Inoltre, il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno
dovuto misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti
normative nonché con la sempre maggior carenza di risorse finanziarie che
andava a influire sulle scelte politiche. Ciò ha cambiato il complesso del
ciclo di progetto, le sue regole di governance
e il modello normativo di riferimento.
2.I Ritardi nell’Attuazione della ‘Legge Obiettivo’ Il recente documento Cnel di Osservazioni e Proposte
conclude che “una condivisione dello “status quo” delle infrastrutture in
Italia da parte delle amministrazioni, delle imprese e dei cittadini
appare lontana se si considera che il
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha ritenuto che l’anno che
sta per chiudersi (2011) si configuri come un anno di cerniera tra un decennio
del “fare”, quello che va dal 2001 al 2010, e il prossimo decennio, quello che
va dal 2011 al 2020, che si caratterizzerà come il decennio del “fruire”. Ciò
implica non tanto prevedere procedure selettive di nuovi interventi, di nuovi
progetti, ma piuttosto misurare le reali ricadute che gli interventi
programmati, progettati, e in molti casi appaltati, producono sul Paese. La tesi formulata dal Ministero
contrasta però con i dati dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei
Deputati che dal 2004 monitorizza l’avanzamento degli interventi previsti dalla
cosiddetta legge obiettivo (delibera CIPE n. 121/2001).
L’attuazione della Legge Obiettivo dal 2001 a oggi
Attività di programmazione
|
||||||
Anno
|
Opere
|
Interventi
|
Sotto-interventi
|
Costo complessivo (MLD)
|
||
2001
|
228
|
373
|
188
|
125,8
|
||
2010
|
348
|
753
|
358,0
|
|||
Stanziamento effettivo delle
risorse (in miliardi di €)
|
||||||
Valore complessivo dei progetti programmati nella Legge
Obiettivo (2010)
|
Valore dei progetti approvati dal CIPE
|
Valore complessivo dei Mutui
contratti
|
Somme effettivamente
erogate
|
|||
358,00
|
14,09
|
8,83
|
2,50
|
|||
Fonte: Servizio Studi della Camera dei Deputati, 2011
L’ingente costo complessivo programmato dalla Legge Obiettivo
(358 miliardi di €) stride, poi, con il
modesto volume finanziario delle opere effettivamente approvate dal CIPE (14,1
miliardi di €) e del quasi inesistente ammontare delle risorse effettivamente
erogate dal 2001 ad oggi (2,5 miliardi fra l’altro ripartite in ben 32 opere).
I pochi progetti avviati sono limitati nel loro svolgimento dal contenzioso
che, contava, al 28 luglio 2009, 259
ricorsi amministrativi e giurisdizionali (176 promossi da privati, 62 da enti
pubblici e 21 da associazioni di cittadini).
La contrazione della capacità di realizzazione non ha
determinato né un riesame dei criteri di priorità, né una razionalizzazione
della spesa e neppure una politica di sviluppo. Sebbene le informazioni
disponibili non consentano confronti internazionali sistematici, esse tuttavia
indicano che i costi medi di realizzazione sono relativamente elevati nel
nostro Paese, sia per le autostrade, sia per l’alta velocità ferroviaria. Sul
divario rispetto agli altri paesi europei, oltre alle condizioni orografiche e di
antropizzazione del territorio, hanno inciso anche scelte tecniche. Anche i
tempi complessivi di realizzazione sono mediamente più lunghi e gli scostamenti
di tempi e di costi di realizzazione, rispetto alle stime iniziali, superiori a
quelli rilevati negli altri Paesi europei.
Su tempi e costi di realizzazione influiscono, oltre ai
diffusi fenomeni di illegalità e ai contenziosi[3] e lo scarso coordinamento
tra i diversi livelli di governo; il ridotto utilizzo di valutazioni
standardizzate dei costi e dei benefici economici e sociali dei progetti; le
carenze nelle procedure di affidamento dei lavori maggiormente utilizzate, che
spesso non garantiscono la selezione dell’offerta migliore.
Dalla fine degli anni ’90 a oggi, i vari Governi che si sono
succeduti nel corso delle legislature sono intervenuti in più riprese nel
settore delle infrastrutture, sia sul versante della riorganizzazione
dell’offerta, proponendo un nuovo schema di accesso al mercato delle opere
pubbliche grazie al varo delle Società Organismo di Attestazione (SOA)[4], nel contesto della
revisione dell’impianto normativo degli appalti pubblici; sia sul versante
della domanda, stabilendo due principi fondamentali per l’intervento dello
Stato nelle infrastrutture pubbliche: la snellezza delle procedure, la
concentrazione delle risorse finanziarie scarse su un certo numero di progetti
prioritari (Legge Obiettivo 2010).
L’esperienza dei primi anni di applicazione non ha prodotto
gli effetti sperati. Il sistema di accreditamento delle SOA ha rappresentato un
ulteriore stimolo alla staticità, mentre l’endemico ritardo dei pagamenti da
parte della pubblica amministrazione ha di fatto consentito solo a poche grandi
imprese di rimanere attive. di rimanere attive solo poche grandi imprese.
L’enfasi posta sulle opere strategiche proposte dalla Legge Obiettivo si è
impantanata all’interno di una amministrazione non adeguatamente preparata a
gestire le innovazioni normative. Soprattutto, l’autorità politica non si è
asunta fino in fondo la responsabilità di selezionare le priorità arrivando a identificare fino a ben 348 opere
strategiche. Nel corso di questi ultimi dieci anni si è dunque ampliata la
distanza che separa gli obiettivi del quadro normativo di riferimento dalla
realtà dell’infrastrutturazione strategica del Paese.
La
distanza tra obiettivi e realizzazioni
è sintetizzata dal confronto tra il
punto di vista del Governo e del Ministero preposto, da un lato, e il dato
fornito dal Servizio Studi della Camera dei Deputati, dall’altro (evidenziato
nelle precedenti tabelle), nonché dalle
considerazioni piuttosto scettiche dei rappresentanti di organizzazioni ed enti
che hanno interagito con il Gruppo di Lavoro. Le misure fisiche di dotazione
infrastrutturale, secondo le analisi del Servizio studi della Banca d’Italia,
suggeriscono la presenza di un divario persistente tra l’Italia e i principali
Paesi europei nonostante negli ultimi tre decenni la spesa pubblica per
investimenti italiana, in rapporto al PIL, sia stata superiore a quella media
di Francia, Germania e Regno Unito.
Il tema delle infrastrutture in Italia,
tuttavia, non teme confronti dal punto di vista dell’approfondimento
scientifico e di analisi. In proposito, nel corso delle audizioni sono stati
ricordati almeno tre documenti ricchi di studi e approfondimenti usciti negli
ultimi mesi:
-
il primo, è un documento di programmazione: il
Piano nazionale della Logistica 2011-2020, approvato dalla Consulta
dell’autotrasporto e della logistica e attualmente in discussione nelle aule
parlamentari;
-
il secondo è un repertorio delle principali
correnti di pensiero intorno alla questione: “Le infrastrutture in
Italia:dotazione, programmazione e razionalizzazione”, a cura della Banca
d’Italia;
-
il terzo, infine, è un approfondimento
giuridico-istituzionale: “Le infrastrutture strategiche di trasporto: problemi,
proposte e soluzioni (non ancora disponibile per la diffusione) elaborato dalle
Fondazioni Astrid, Respublica e Italiadecide per conto del Ministero delle
Infrastrutture e Trasporti.
Dai documenti citati emerge che le sole inefficienze della logistica
comporterebbero, secondo il Piano Nazionale della Logistica, un costo di 40
miliardi di euro l’anno. Un primo passo per affrontare i problemi
infrastrutturali del Paese consiste nell’appurare quali e quante siano le
risorse disponibili[5]
e quali siano le priorità strategiche da privilegiare tra quelle proposte dagli
enti di spesa, in primis dai Ministeri e dalle Regioni .
4 La
politica per le infrastrutture nel Piano Nazionale di Riforme 2011
Nel Programma
Nazionale di Riforme, Pnr (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2011), la
politica per le infrastrutture è indicata , in ordine di priorità, come quarto
strumento di azione di governo per il rilancio dell’economia nazionale, dopo la
riforma fiscale, il meridione ed il lavoro ma prima di altre riforme
considerate di rilievo nell’arco della legislatura (edilizia privata, ricerca e
sviluppo, istruzione e merito, turismo, agricoltura, processo civile, pubblica
amministrazione e semplificazione). L’elenco – occorre rilevarlo – appare più
come un ordine di priorità “implicito” (quale indicato nella premessa del
documento) che come un ordine di priorità “esplicito”, espresso in una funzione
obiettivo oppure in una funzione di benessere sociale formalizzata al fine
d’ordinare programmi e progetti o di attribuire ponderazioni a costi, benefici,
effetti ed impatti afferenti alle varie classe di reddito o di consumo. Nelle
120 pagine del Pnr, appena tre vengono dedicate alle infrastrutture intese come
“opere pubbliche” in senso stretto, un’interpretazione, quindi, rigorosa ma
restrittiva, rispetto alla gamma di definizioni passate succintamente in
rassegna nel primo paragrafo di questa nota. Circa due terzi del documento sono
dedicati al programma di stabilizzazione di finanza pubblica nel quadro dello
schema di trattato euro-plus. La priorità delle infrastrutture per la ripresa
nazionale è stata ribadita del recente Governo ‘tecnico’ presieduto dal Prof.
Monti.
In
materia di infrastrutture/opere pubbliche nel Pnr vengono presentate stime
degli effetti macro-economici della realizzazione del programma di
infrastrutture delineato (in essenza le opere pubbliche previste nella Legge
Obiettivo), ma né nel documento né nell’allegato infrastrutture (Camera dei Deputati,
2011) né nell’attenta analisi effettuata dal servizio del bilancio del Senato
della Repubblica e dal Servizio Studi della Camera (Senato della
Repubblica-Camera dei Deputati, 2011) si ricavano le informazioni necessarie
per apprezzare la validità delle stime econometriche effettuate, in particolare
non viene precisata né la modellistica utilizzata né la qualità dei dati
disponibili.
Soprattutto, il lettore ha l’impressione che
ci si riferisca essenzialmente a quelli che vengono spesso chiamati gli
“effetti di cantiere” di breve periodo (ossia al valore aggiunto attivato dalla
spesa per opere pubbliche nel 2011-2013) senza tenere conto dagli impatti a
volte molto più significati sull’aumento di capitale fisso sociale e quindi
sulla crescita della produttività. In breve, si trae la sensazione che
nonostante le aspettative lanciate una decina di anni fa con la Legge
Obiettivo, oggi perduto valore nella strategia di politica economica.
Occorre
sottolineare che a conclusioni analoghe si giunge analizzando il censimento più
recente sulle infrastrutture/opere pubbliche in finanziamento tramite sia fondi
esclusivamente pubblici sia varie forme di partnership tra pubblico e privato
(Reviglio, 2011). Il documento presentato ad un seminario ristretto di operatori
italiani e stranieri del settore aggiorna in misura significativa i dati resi
disponibili negli studi della Banca d’Italia (Balassone, Casadio, 2011) e
conferma essenzialmente la riduzione del ruolo delle infrastrutture/opere
pubbliche nella strategia di riforme e di crescita dell’Italia. A rilievo dello
stesso tenore si giunge esaminando alcuni tra i documenti da istituti privati
di analisi e ricerca , ad esempio quello più recente del Centro Europa Ricerche
(CER, 2011) e lo stesso documento di osservazioni e proposte del CNEL (CNEL;
2011) sul Pnr; nei documenti CER e CNEL, al pari di quello dei servizi di
bilancio e studi di Senato e Camere, le osservazioni e proposte riguardano sia
il Pnr sia il Programma di Stabilità che, insieme, costituiscono il Documento
di economia e finanza (Def) 2011.
Da
questi documenti (e da altri resi disponibili negli ultimi 12 mesi) si ricava
inoltre che la lentezza (e la poca chiarezza di regole) in materia di
progettazione, gare e contrattualizzazione , il frequente mutamento del quadro
regolatorio, la scarsa priorità data alla predisposizione di studi di
fattibilità ed alla valutazione delle infrastrutture/opere pubbliche (ex ante,
in itinere ed ex post)[6] sono elementi che frenano
la definizione e l’attuazione di una politica per le infrastrutture più delle
mancanza di risorse; alla riduzione delle risorse pubbliche derivante dai
vincoli di bilancio fa riscontro invece in Italia ed all’estero un aumento di
risorse private alla ricerca di investimenti di lungo periodo a rendimenti da
considerarsi adeguati ed a rischio contenuto (ad esempio, De Carolis ., Giorgiantonio
, Giovanniello 2011); Bassanini, Reviglio 2011, Reviglio,
2011).
Occorre,
a questo punto, chiedersi se il ruolo comparative ridotto della politica per le
infrastrutture/opere pubbliche nel Pnr sia da attribuirsi alla maggiore urgenza
e priorità di altre riforme, specialmente nel campo della finanza pubblica e
del fisco, oppure alla constatazione (cfr. para. 2) che in Paesi maturi, come
l’Italia, le politiche per le infrastrutture riguardano principalmente
ammodernamenti e completamenti piuttosto che nuove reti (e per questa ragione
suscitano minore attenzione che in Paesi od aree emergenti od in ritardo di
sviluppo) oppure ancora che non sia stato metabolizzato il nesso tra
infrastrutture (anche nel senso ristretto di opere pubbliche) e riforme.
Tale
nesso – si tenga presente – è stato al centro delle strategie della Banca
mondiale (prima) e delle altre maggiori Banche regionali di sviluppo, poi,
(principalmente del Banco interamericano di sviluppo e della Banca asiatica di
sviluppo) ma pare sia stato poco metabolizzato nell’esperienza europea ed ancor
meno in quella italiana. Sulle strategie ed esperienze in questo campo
specifico da parte della Banca mondiale, del Banco interamericano per lo
sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo esiste una letteratura smisurata
sin dagli Anni Ottanta; le esperienze sono diventante particolarmente ricche
negli ultimi vent’anno in seguito ai lavori fondamentale di Dixit e Pindyck su
investimenti, riforme ed incertezza (Dixit, Pindyck 1994) e di Adler e Posner su
analisi economica dell’investimento e decisioni in materia di regolazione
(Adler, Posner, 2006). In Europa , non manca letteratura anche empirica (Bezzi,
2006, Chervel, 1995; Ferrara, 2010; Pennisi, Scandizzo, 2003), ma non sembra
sia stata metabolizzata dai policy makers il ruolo delle infrastrutture (se
opportunamente soggette a valutazione) come grimaldello per riforme della
normativa e della regolazione.
5.
Politiche europee per le infrastrutture
Da
decenni , la politica d’integrazione europea pone l’accento sulla esigenza di
notevoli investimenti per le infrastrutture al fine sia di migliorare la
competitività del continente sia rafforzare la coesione all’interno dell’Unione
(per una sintesi delle misure effettuate prima dell’unione monetaria, Triulzi,
1999; gli anni più recenti utile consultare oltre al sito della Commissione
Europea, www.euinfrastructure.com). Interessante notare che anche il filone di
pensiero che ha coerentemente espresso le critiche più severe nei confronti del
coinvolgimento da loro ritenuto eccessivo da parte delle istituzioni europee,
ed in particolare, da parte della Commissione, in attività che dovrebbero
rientrare nella sfera esclusiva degli Stati membri (Vibert,2001) e da chi ha
sempre sostenuto l’esigenza di una politica di bilancio molto rigorosa
(Magnifico, 2008; Valli 1999). La letteratura sulla politica europea per le
infrastrutture fisiche, specialmente le reti di collegamento Ten-T è sterminata
. E tale è anche quella sulle infrastrutture immateriali ad alto contenuto
tecnologico. Alcune di queste infrastrutture interessano direttamente l’Italia
in quanto , traversandola da Sud a Nord e da Ovest ad Est per migliorare i
collegamenti europei, comportano nuovi snodi ed ammodernamenti del parco
italiano d’infrastrutture. A riguardo è utile ricordare che è' stato
pubblicato di recente[7] un
decreto legislativo di attuazione della Direttiva europea concernente
l'individuazione e la designazione delle infrastrutture critiche europee (ICE),
e la valutazione della necessità di migliorarne la protezione.
Il decreto
stabilisce le procedure per l'individuazione e la designazione di
infrastrutture critiche europee, nei settori dell'energia e dei trasporti,
nonché le modalità di valutazione della sicurezza di tali infrastrutture e le relative
prescrizioni minime di protezione dalle minacce di origine umana, accidentale e
volontaria, tecnologica, e dalle catastrofi naturali. I sotto-settori
riguardanti energia e trasporti, individuati sono:
·
Energia: elettricità, petrolio, gas;
·
Trasporti: trasporto stradale, trasporto ferroviario,
trasporto aereo, vie di navigazione interna, trasporto oceanico, trasporto
marittimo a corto raggio e porti.
Gli adempimenti relativi alla protezione delle
infrastrutture previsti dal decreto in oggetto non sostituiscono quelli già
stabiliti da disposizioni in vigore, ma sono da ritenersi integrativi.In
particolare sono introdotte le seguenti definizioni, riprendendo quelle
utilizzate dalla Direttiva:
·
infrastruttura critica (IC):
infrastruttura, ubicata in uno Stato membro dell'Unione Europea, che è
essenziale per il mantenimento delle funzioni vitali della società, della
salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale della popolazione
ed il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un impatto significativo
in quello Stato, a causa dell'impossibilità di mantenere tali funzioni;
·
infrastruttura critica europea (ICE):
infrastruttura critica ubicata negli Stati membri dell'UE il cui danneggiamento
o la cui distruzione avrebbe un significativo impatto su almeno due Stati
membri. La rilevanza dell’impatto è valutata in termini intersettoriali. Sono
compresi gli effetti derivanti da dipendenze
intersettoriali in relazione ad altri tipi di infrastrutture.
Le funzioni di individuazione e designazione delle ICE sono svolte dal Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione (NISP) che ha anche ll compito di coordinare l'elaborazione di direttive interministeriali contenenti parametri integrativi di protezione, elabora:
Le funzioni di individuazione e designazione delle ICE sono svolte dal Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione (NISP) che ha anche ll compito di coordinare l'elaborazione di direttive interministeriali contenenti parametri integrativi di protezione, elabora:
·
entro un anno dalla designazione di
un'ICE, una valutazione delle possibili minacce nei riguardi del sottosettore
nel cui ambito opera l'ICE designata;
·
ogni due anni elabora i dati generali
sui diversi tipi di rischi, minacce e vulnerabilità dei settori in cui vi è
un'ICE designata.
In parallelo, quasi, con la definizione di infrastrutture critiche, emerge
l’esigenza di nuovi strumenti finanziario come gli “eurobonds” (Bassanini,
Reviglio, 2011) per il finanziamento delle infrastrutture da distinguersi da
altre forme di obbligazioni europee finalizzate a ridurre il peso del debito
sovrano di alcuni Stati [8]
Gli
“Eurobonds” non sono un’idea nuova ed
originale. Per questo Ne sono state fatte numerose formulazioni in passato. Ad
esempio, già negli Anni Sessanta, Alexandre Lamfalussy propose
obbligazioni “europee” a supporto della
politica agricola comune. Negli Anni Settanta, venne delineato un programma da François-Xavier Ortoli,
all’epoca presidente della Commissione europea (giornalisticamente vennero
chiamati “Ortoli Bonds”) di emissioni di obbligazioni “europee” che avrebbero
avuto essenzialmente lo scopo di rilanciare occupazione e crescita tramite
grandi investimenti in infrastrutture. Ne circolarono varie versioni, tutte
preliminari: secondo alcune sarebbero stati emessi dalla Banca Europea per gli
Investimenti (Bei), secondo altre direttamente dalla Commissione europea.
“Eurobonds” vennero, poi, proposti, sempre in chiave di finanziamento dello
sviluppo, nel “piano” Delors per la creazione del mercato unico europeo,
approvato nel Consiglio Europeo di Madrid nel 1989; in effetti, quella delle
obbligazioni “europee” è una delle parti del “piano” rimaste sulla carta. Lo
stesso Delors ha rilanciato l’idea nel 2005. In tutte queste versioni lo strumento
sarebbe di diretto interesse del Cnel ed in particolare della Commissione IV.
Una proposta recente, formulata da Mario Monti
(Monti,2010), riguarda “Eurobonds” a più valenze, che verrebbero emessi da
un’Agenzia europea per il debito ancora da istituire; in prima battuta,
servirebbero ad alleggerire il debito “sovrano” di Stati iper-indebitati; in
seconda, allo sviluppo, alla stregua degli “Ortoli Bonds” e dei “Delors Bonds”.
In questo quadro, si colloca anche la proposta di “Eurobond” lanciati da Giulio
Tremonti e Jean-Claude Juncker. Se ho ben compreso la proposta, ad emetterli
sarebbe la nuova Agenzia ed sottoscriverli sarebbero i Tesori e le banche degli
Stati iper-indebitati dell’Unione monetaria; in tal mondo si alleggerirebbe (a
tassi e termini più conveniente) il fardello dei loro debiti (principalmente
quelli con l’estero). Ciò potrebbe comportare una complessa revisione ( quindi,
con annesse procedure di ratifica) dei Trattati, anche allo scopo d’istituire
la nuova Agenzia; ove alla fine di questo processo, gli “Eurobonds” venissero
in vita in forma sistematica (non episodica), probabilmente il nodo del
“sollievo dal debito” sarebbe già stato sciolto in altri modi, ma resterebbe
loro l’obiettivo di finanziare lo sviluppo e di facilitare l’integrazione del
mercato mobiliare europeo. Al pari dei bond di Bei, di Banca mondiale, di
banche regionali di sviluppo, gli "Eurobonds"
potrebbero arrivare al dettaglio tramite i normali canali bancari ed essere
acquistati dai risparmiatori al dettaglio. E’ difficile, però, argomentare che
lo strumento servirebbe a facilitare
l’integrazione di un mercato finanziario come quello dell’eurozona che appare
già sufficientemente integrato (Fontana, Scheicher, 2010)
A mio
avviso, la letteratura, benché vastissima, sugli “Eurodonds” ha analizzato in
dettaglio gli aspetti giuridico-istituzionali e tecnico-finanziari dello
strumento, ma non ha sufficientemente focalizzato sui suoi fondamentali
economici. In effetti, i principali nessi teorici nella letteratura sugli
“Eurobonds” si riferiscono alla teoria dei mercati finanziari, ed in specie
alla teoria dell’efficienza dei mercati (finanziari), seriamente rimessa in
questione proprio dalla crisi internazionale
iniziata nel 2007 ed all’origine
dell’aumento del debito pubblico e del debito sovrano con l’estero (Bordo,
Landon-Lane, 2010).
Un approccio differente, anche se non
necessariamente alternativo, sarebbe quello di esaminare le varie proposte
relative agli “Eurobonds” sotto il profilo della teoria delle opzioni, in
particolare quella delle opzioni reali e degli investimenti in condizioni di
incertezza (Dixit, Pyndick , 1994). In effetti, l’acquisto di titoli ad alto
rendimento di Stati le cui politiche economiche destano perplessità è un
investimento in condizioni d’incertezza piuttosto che di rischio; le variabili
di quadro generale sono tali e tante che non può essere valutato con tecniche
anche raffinate di calcolo delle probabilità ma occorre, per una sua
valutazione, costruire scenari contro fattuali e stimare “opzioni reali” di
vario tipo (Pennisi, Scandizzo, 2003). Ciò vuole, innanzitutto, dire
esaminare quale può, o deve, essere il
“sottostante” dello strumento perché lo strumento medesimo possa essere
efficiente ed efficace. Ciò comporta un chiarimento sugli obiettivi e, quindi,
sulle modalità di funzionamento e sulle tecniche operative specifiche, dello
strumento. In prima approssimazione ed estrema sintesi, il valore degli
“Eurobonds” deve essere visto come derivante dalla qualità del “sottostante”.
Le procedure di valutazione degli investimenti utilizzando l’analisi dei costi
e dei benefici estesa alle “opzioni reali” comporta l’esame , e la discussione, delle opzioni
reali ai soggetti interessati dal’investimento e la definizione di un consenso
tra essi. Altro motivo di interesse per il Cnel.
In
merito al “sottostante” , si possono fare varie ipotesi, di cui le tre
principali possono essere le seguenti:
a) “Eurobonds”
il cui sottostante è l’aderenza a politiche tale da minimizzare, in un contesto
d’incertezza, il futuro aggravio del debito e del rischio di insolvenza. Si
tratterebbe di strumenti analoghi al “policy-based lending” adottato da
decenni, con alterno successo, dalle istituzioni finanziarie internazionali
(Banca mondiale, Fondo monetario).
Rispetto ad altre aree, nell’”eurozona” il “policy based lending” viene
facilitato, per certi aspetti, dal “patto di crescita e di stabilità” che ne
fornisce un quadro di riferimento. Il “patto”, però, tratta principalmente di
politiche di bilancio e di saldi aggregati da esse derivanti. Occorre chiedersi
se sia sufficiente o si non si debba entrare in altri aspetti (privatizzazioni,
liberalizzazioni, politiche sociali e previdenziali) che, a loro volta, sono il
“sottostante” delle politiche di bilancio, e le determinano. Ciò comporta
aspetti tecnici e politici non indifferenti. Da un canto, in molti Stati (ad
esempio, l’Italia) mancano ancora i dati
(quali una Sam_ Social Accounting Matrix aggiornata e credibile) [9]per effettuare analisi che
siano quantitative e, quindi, vengano considerate asettiche. Da un altro,
analisi qualitative in merito a politiche possono essere facilmente tacciate di
essere “biased” ovvero pregiudizialmente
“orientate”. Da un altro ancora, “peers
reviews” di politiche tra Stati
dell’UE non sembrano avere mai brillato per efficacia.
b) “Eurobonds” il cui sottostante è la qualità di
investimenti per la crescita, con effetti moltiplicativi keynesiani nella fase
di cantiere e con aumento di capitale sociale (e, quindi, dell’aumento della
produttività multifattoriale) nella fase a regime. Per questa tipologia,
esistono metodi, tecniche e procedure di valutazione ex-ante e ex-post
codificate da decenni ed in applicazione nei principali Stati UE, nonché guide
operative della stessa Commissione UE (Florio, 2003). E’ tuttavia difficile
vedere in che modo tali “Eurobonds” differiscano dalle obbligazioni Bei e Bers,
anche esse essenzialmente ancora alla “quality of lending” come loro
“sottostante” e dunque alla qualità della valutazione dei progetti
d’investimento.
c) “Eurobonds”
che potrebbero essere definiti “di scopo”, finalizzati, da un lato, a ridurre
il fardello del debito e,
parallelamente, a facilitare alcune politiche specifiche (quali privatizzazioni, le liberalizzazioni, alcune
riforme di settore) in quelle situazioni in cui fosse necessaria “fresh money”,
non solo finanza per il riscatto In tal caso l’utilizzazione degli “Eurobonds”
verrebbe limitata , da un lato , ad una funzione analoga a quella dei “Brady
Bonds” e, dall’altro, alla facilitazione di politiche ritenute prioritarie per
il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica e di crescita reale.
In
ciascuna di queste tipologie (e nelle loro possibili combinazioni), da un
canto, il “sottostante” sarebbe palese e trasparante, riguarderebbe l’economia
reale e potrebbe essere valutato, consentendo ai contribuenti degli Stati
“virtuosi” (chiamati a sostenere l’operazione) di effettuare scelte informate.
Da un altro, sarebbe possibile orientare progressivamente la funzione obiettivo
pertinente al “sottostante” sempre più verso la crescita dato che in ultima
istanza la crescita economica è il rimedio necessario per ridurre il peso del
debito ed il rischio d’insolvenza.
Nel
concludere , occorre sottolineare che gli “Eurobonds” nelle loro varie
accezioni altro non sarebbero che una forma di partnership pubblico-privato che
può essere ottenuta in vari altri modi.
6. Parametri
di Valutazione e Criteri di Scelta e per le Infrastrutture
Quale che sarà le scenario futuro europeo ed italiano
per la progettazione ed il finanziamento delle infrastrutture nei prossimi anni
(Bassanini, Reviglio, 2011), appare necessario riesaminare i parametri di
valutazione per le singole operazioni ed i criteri per selezione, a fonte di
inevitabili vincoli di bilancio, quelli che meglio contribuiscono agli
obiettivi della società. Credo sia utile iniziare ad accennare a quella che
potrebbe diventare una nuova linea di ricerca In sintesi, la caratteristiche
del “dopo crisi” paiono essere due:
- La prima a carattere più generale interessa il mondo intero e riguarda come andare “oltre il Pil” come misura di benessere nazionale. Il Pil come misura di benessere nazionale è alla base di gran parte della manualistica sulla valutazione e selezione delle infrastrutture.
- La seconda , a carattere principalmente europeo, riguarda come andare da un modello di sviluppo che dalla fine della seconda guerra mondiale ha fatto perno sulla crescita trainata dall’export (e, quindi, ha ipotizzato crescenti disavanzi dei conti con l’estero Usa e saldi attivi invece in quelli dell’Europa con il resto del mondo) ad un modello di crescita basato invece sulla soddisfazione di bisogni collettivi interni all’Europa (infrastrutture, ambiente, capitale umano, salute, cultura, tutela del patrimonio di beni culturali e del paesaggio) e del miglioramento sostenibile, quindi, della qualità della vita.
Un’ampia rassegna dei tentativi per andare “oltre il
Pil” è stata pubblicata da Marc Fleurbeay delle Università di Parigi
“Descartes” e di Lovanio (Fleurbeay, 2009). Sul tema, sono in corso numerosi studi
internazionali; in Italia ha cominciato ad operare una Commissione CNEL-ISTAT.
Al momento , a mio avviso, il lavoro di Fleurbeay rappresenta, a mio avviso, il
meglio di quanto disponibile in un mercato spesso caratterizzato da saggistica
approssimativa. Una sintesi efficace del secondo punto è nel breve ma eloquente
saggio di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan (Guerrieri-Padoan, 2009). I due
lavori sembrano distanti sia in termini di approccio (una rigorosa rassegna
della letteratura, oltre 400 titoli, il primo; un pamphlet volutamente
divulgativo per smuovere i decision maker
il secondo) sia in termini di conclusioni ( problematico il primo sulle
caratteristiche delle “serie alternative al Pil che sarebbero alle porte; più
definitivo nelle sue conclusioni il secondo).
Hanno, soprattutto, un messo in comune che riguarda
sia i Governi sia le imprese: nel “dopo crisi”: in linea con un affinamento
della definizione e del mondo di computare il Pil che tenga conto di tre scuole
di pensiero (l’economia del benessere, l’economia delle libertà, ed il
perfezionismo contabile) , l’accento è delle politiche pubbliche e delle
operazioni delle “intraprese private” dovrà essere sul medio e sul lungo
periodo e non più sul breve periodo (che pare avere caratterizzato gli ultimi
lustri).
Ciò ha una conseguenza implicita per di cui non credo
ci sia ancora piena consapevolezza tra gli operatori : come valutare politiche
, strategie ed investimenti a lungo termine, specialmente quelli caratterizzati
da un lungo periodo di gestazione prima di fornire flussi di ricavi all’impresa
e/o di benefici alla collettività.
Emergono questi spunti di riflessione:
1.
Le politiche e gli investimenti aziendali (anche per
le infrastrutture) devono remunerare gli investitori ad un tasso che non sia
inferiore al costo opportunità del capitale. Quali misure adottare quando una
politica od investimento abbia un valore economico per la collettività nel
lungo periodo ( una gamma di investimenti che va dalla tutela del patrimonio
artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre) ma che potrebbe avere
risultati insoddisfacenti nel breve periodo. In passato, il divario veniva
colmato da varie forme e guise di aiuto di Stato – oggi non più contemplabile a
ragione non solo della normativa UE ma anche dei vincoli di bilancio. Occorre,
quindi, pensare di colmare il divario con la regolazione ; nazionale od
europea? I grandi investimenti europei – ad esempio le reti trans europee – non
dovrebbero essere il grimaldello per una regolazione europea? Specialmente una
“regolazione” che dia certezze di stabilità e di non essere frequentemente
mutata sotto la spinta d’interessi particolaristici pure di breve periodo.
2.
Le politiche e gli investimenti pubblici (a supporto
del miglioramento della qualità della vita) avranno effetti anche sulle
generazioni future , che in molti casi ne saranno le principali beneficiarie.
Ciò solleva due ordini di interrogativi. In primo luogo, secondo Ocse e Banca
mondiale, il tasso di attualizzazione utilizzato per valutare l’investimento
pubblico in molti Paesi UE (a lungo la Francia è stata un’eccezione) e dalla
Commissione Europea riflette il vincoli di bilancio pubblico e misura il
declino del valore sociale delle risorse pubbliche liberamente utilizzabili.
Non è il caso di seguire invece la più antica proposta di Dasgupta-Sen-Marglin
di scegliere un tasso di attualizzazione che rispecchi il tasso d’interesse sui
consumi (Dasgupta,Sen Margling, 1972? Secondo stime disponibili (anche da me
effettuate) il primo approccio comporta un tasso di attualizzazione sull’8%, il
secondo sul 2,5%; il primo non “cattura” quindi costi e benefici alla
collettività nel lungo periodo Pennisi, Scandizzo, 2003). Né l’uno né l’altro,
poi, “catturano” costi e benefici alle generazioni future : due scuole si
confrontano su “come farlo”, ambedue sono cariche d’implicazioni di politica
pubblica. Non è il caso di promuovere un’intesa a livello europeo?
3.
Le metodologie di analisi delle politiche e degli
investimenti , anche privati, hanno posto l’accento sin dagli Anni Settanta su
come coniugare efficienza (intensa nel senso di redditività) con efficacia
(intensa nel senso di distribuzione del reddito e, in un secondo tempo, delle
opportunità). In materia si sono sviluppati metodi, tecniche e procedure basate
sulle “ponderazioni variabili” dei costi e dei benefici a seconda dei livelli
di reddito o di consumo delle varie categorie di soggetti coinvolti
nell’”intrapresa”. Nel Ventunessisimo
secolo, ed in Paese avanzati ad economia di mercato, l’enfasi si deve spostare
a come coniugare il breve e medio con il lungo termine. Dato che previsioni e
scenari (specialmente se contro fattuali) a lungo termine, sono ardui da
costruire con un grado realistico di accuratezza, non è il caso di spostare
l’accento, nella CSR, dall’analisi del rischio all’analisi dell’incertezza?
4.
E’ invalsa la prassi, promossa di numerose società di
studi e consulenza, di quantizzare i benefici degli interventi per beni
intangibili (ad esempio gli investimenti in beni culturali ed infrastrutture ad
esse attieni) in base alle stime del turismo culturale da essi attivati. Tale
metodo non solamente non tiene adeguatamente conto dei costi sociali spesso
associati al turismo ma non ha più legittimità accademico-professionale. Non è
il caso di promuovere tecniche di “valutazioni contingenti” ormai ampiamente in
uso anche in Italia in numerosi settori afferenti al capitale umano ed
all’intangibile?
Il Governo, e le sue strutture
tecniche, in primo luogo, il Ministero delle Infrastrutture in collaborazione
con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, dovrebbero rispondere a questi
interrogativi.
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[1] “Infrastrutture : crollo dei fondi” in Il Sole “4 Ore del 27 maggio.
[2]
Un esempio interessante è l’evoluzione della policy della Banca mondiale in
materia di finanziamento per l’istruzione e la sanità. Particolarmente
eloquente è il caso dell’istruzione. Negli Anni Sessanta, quanto la Banca
cominciò ad operare nel settore erano “eligible” (ossia ammissibili) unicamente
lem spese in conto capitale (con un’alta componente di valuta estera) progetti
di formazione (e.g. scuole professionali, Politecnici) direttamente connessi ad
industria od agricoltura. Negli Anni Settanta l’”ammissibilità” venne estesa
all’intero settore (ossia anche le scuole elementare) purché limitata alle
spese in conto capitale. Negli Anni Ottanta, venne ampliata al finanziamento di
libri di testo. Dalla seconda metà degli Anni Novanta vengono finanziate anche
spese di parte corrente di programmi d’istruzione innovativi nonché la Banca
investe capitale di rischio (equity) in istituti privati.
[3]
Che sembrerebbero essere stati presi in
considerazione nei recenti decreti legislativi - ancora in fase di discussione
- in materia di monitoraggio e di valutazione della spesa pubblica in
infrastrutture da parte dei Ministeri.
[4]
Le Società Organismi di Attestazione (SOA) sono organismi di diritto
privato, autorizzati dall'Autorità per la vigilanza sui lavori
pubblici, che accertano l'esistenza nei soggetti esecutori di lavori
pubblici degli elementi di qualificazione, ovvero della conformità dei
requisiti alle disposizioni comunitarie in materia di qualificazione dei
soggetti esecutori di lavori pubblici, riassunti nel regolamento per il sistema
di qualificazione, Decreto del Presidente della
Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34.
[5]
Spesso “nascoste” in “contabilità
speciali” e gestioni fuori bilancio di vario ordine e grado, secondo gli studi
del Consigliere Giuseppe Pennisi, il solo Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali, MIBAC, nel proprio bilancio conta ben 324 gestioni speciali.
[6]
Da natura che in questo ultimo periodo è diminuito il ruolo dell’unità centrale
di valutazione presso il Ministero dello Sviluppo Economico e sono state, in
pratica, smantellate le unità di valutazione create presso alcuni dicasteri (ad
esempio Mibac) e Regioni.
[7] E' stato pubblicato
sulla G.U. 102 del 04/05/2011
[8] Un’emissione
limitata di “Eurobonds” è stata effettuata il 5 gennaio 2011 al Meccanismo
Europeo di Stabilità per rifinanziare parte del debito estero dell’Irlanda: la
domanda è stata pari a tre volte l’offerta (5 miliardi di euro), segno del
gradimento del mercato nei confronti dello strumento (nonostante, nel caso
specifico, si trattasse di un prodotto finanziario particolarmente
complesso). L’obiezione principale è che
la loro generalizzazione, e la loro graduale ma progressiva sostituzione di
emissioni di titoli dei singoli Stati dell’eurozona, potrebbe causare ad alcuni
Stati un aumento del costo dell’indebitamento e del servizio del debito. Altre
obiezioni concernono l’”azzardo morale” inerente all’utilizzazione di
“Eurobonds” per contenere i rischi di insolvenze sul debito sovrano da parte di
Stati le cui politiche economiche non sono state adeguatamente accorte- ossia
l’incentivo ad adottare politiche poco prudenti derivante dalla prospettiva di
riscatti “europei” del debito tramite “Eurobonds”. Ci sono, inoltre, varie
obiezioni a carattere prevalentemente tecnico (e facilmente superabili) su chi
debba essere l’autorità emittente (se una sola o molteplici), chi i
sottoscrittori, come arrivare al dettaglio (Favero.
[9]
L’ISTAT ha ripreso a lavorare su questo terreno.
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