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Tante chiacchiere, ora servono i
fatti
Giuseppe Pennisi Martedì 22 Ottobre 2013, 15:01 Tags: governoLettaprivatizzazioni |
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Il Governo Letta è alle prese con le critiche sia
dell’opposizione sia della sua stessa maggioranza per un disegno di legge di
stabilità ritenuto inadeguato sotto il profilo sia della crescita sia
dell’equità. In questo contesto, vengono rilanciate le privatizzazioni. Pur se negli ultimi cinque mesi le
vicende delle modifiche normative a proposito di golden share e di offerta
pubblica d’acquisto per vincolare l’aumento di quota azionaria di Telefonica
in Telecom, di ingresso (alla grande) di Poste Italiane in Alitalia
(per evitarne il fallimento) e l’acquisto di Ansaldo Energia da parte
della Cassa Depositi e Prestiti hanno esteso l’intervento dello Stato
nell’economia in generale e nel settore industriale in particolare.
Non manca lo spazio per privatizzare, se si vuole
farlo. Un
documento della Fondazione Astrid Valorizzazione e Privatizzazione del
Patrimonio Pubblico fornisce stime interessanti: la quota Snam detenuta
dalla Cassa Depositi e Presiti potrebbe valere attorno a 2,9 miliardi di euro,
quella di Terna 1, 5 – un totale , quindi, di 4,4 miliardi Aggiungendo l’Eni si
arriverebbe a 17 miliardi. Se si volesse operare alla grande ed il mercato
recepisse anche aziende non quotate (Anas, Enav, Eur, Ferrovie, Invitalia, Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato , Poste Italiane e la stessa CDP) si potrebbero
aggiungere altri 30 miliari e sfiorare 50 miliardi. A cui aggiungere il
patrimonio immobiliare (dalle caserme dismesse agli edifici di Province e
tribunali in chiusura). E soprattutto il ‘capitalismo regionale e
municipale’, una selva vastissima Il settore è, in primo luogo, molto vasto che
comprende circa 370 imprese, con 200.000 addetti. Alcune imprese sono di grandi
dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea): risultano da un
processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province e in
certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti - una delle monografie
analizza dieci tra i principali casi aziendali e individua i percorsi “virtuosi”
(spesso associati ad un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta
redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende.
Complessivamente, formano oltre l’1% del Pil nazionale, ma in alcune Regioni
rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco
Ma si vuole davvero privatizzare? L’ultimo ‘Rapporto’ di Società
Libera che ha organizzato un importante convegno a Roma il 24 ottobre alla Sala
del Refettorio della Camera dei Deputati rivela che mentre organi
d’informazione come Privatization Watch ci informano che in tutto il mondo,
pure in Africa sub-sahariana, continua il processo di liberalizzazione e di
privatizzazione dell’economia e della società e monografie analizzano quanto
fatto in altri Paesi ed altri continenti, nel 2012 in Italia ci sono state
quasi esclusivamente “privatizzazioni parlate”, ossia privatizzazioni di
cui si è discusso (spesso solamente chiacchierato o meglio ancora cincischiato)
ma senza dare alcun seguito concreto.
Non è stata neanche pubblicata la Relazione annuale
sulle privatizzazioni del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) al
Parlamento, un atto amministrativo dovuto; l’ultima risale al settembre 2011 ed è stata
illustrata e commentata nell’edizione 2012 di questo annuario. Occorre dire che
il Parlamento non se ne è preoccupato più di tanto: non si registra una sola
interrogazione in materia. Secondo informazioni di stampa, nell’anno e mezzo in
cui l’Italia ha avuto un Governo “tecnico”, che pur ha proposto un programma di
dismissione graduale del patrimonio immobiliare pubblico, una sola
privatizzazione è stata “decretata”: quella dell’Unione nazionale degli
ufficiali in congedo d’Italia (Unici) con 35.000 iscritti ed una manciata di
dipendenti (che si occupano principalmente di attività turistiche e sportive
dei soci del sodalizio). Tuttavia, il pertinente decreto non è stato convertito
in legge in quanto giunto in Parlamento il 21 gennaio, a Camere ormai sciolte.
Sempre secondo la stampa, ci sarebbero stati ritardi perché non sarebbe stato
facile collocare nelle pubbliche amministrazioni tre della quindicina dei
dipendenti dell’ente, ed avere, quindi, l’assenso dei sindacati. Quindi, si è
aggiunta anche la beffa e la “privatizzata” Unici è rimasta tale e quale come
era prima della denazionalizzazione; basta consultarne il sito per essere
edotti sulle sue attività, principalmente ludiche.
Dato che queste informazioni non sono mai state smentite e che la Relazione
del Mef non è stata pubblicata, almeno sino a metà 2013, sono stati solo delineati
programmi di privatizzazioni per ridurre il fardello del debito pubblico e
delle esigenze impellenti di privatizzazioni per raggiungere l’equilibrio di
bilancio a cui ci siamo impegnati con il Fiscal Compact concluso in sede
europea. Il quadro non è incoraggiante; a titolo indicativo si pensi che
l’ultimo rapporto sullo sviluppo economico della Banca mondiale, presentato in
Banca d’Italia nel marzo 2013, pone l’accento sul fatto che privatizzazioni e
liberalizzazioni sono ingrediente essenziale (pur se non sufficiente) per
creare quell’occupazione di cui l’Italia ha tanto bisogno e per riattivare un
processo di crescita fermo da quindici anni ed aggravato, da oltre un lustro,
dalla recessione più pesante degli ultimi settant’anni. Nel contempo, in controtendenza
con il resto del mondo, in Italia è aumentato, con la pressione tributaria, il
perimetro del settore pubblico, tramite interventi a favore di banche ed
imprese .
Sta a Governo e Parlamento mostrare che questa volta si far davvero e non
solamente a chiacchiere. L’Unione Europea , ed il resto del mondo, ci aspettano
al varco.
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