La politica – quella con la “P” maiuscola – ha o non ha un ruolo da svolgere nel riassetto del mercato mondiale di cui la Fiat è in questi giorni diventata uno dei protagonisti (anche se non l’unico)? È interrogativo doveroso. Anche e soprattutto per gli economisti che credono nel mercato ma ne conoscono le imperfezioni e sono ugualmente consapevoli di quelle del non-mercato. In primo luogo, è utile ricordare che la Fiat ha avuto nel proprio sviluppo storico e anche nella sua evoluzione più recente un forte supporto della politica. Non è questa la sede per esprimere un giudizio di merito. Già nel lontano 1986, il Premio Nobel Leontieff, chiamato dal Governo italiano dell’epoca a collaborare (nella veste di alto consulente) al piano generale dei trasporti, rilevò come il trasporto su merci nel nostro paese fosse stato orientato all’80% su gomma, lasciando alla rotaia una percentuale inferiore a quella del resto d’Europa, in quanto considerato strumento essenziale di una politica industriale che puntava sulla metalmeccanica. Più di recente, incentivi diretti hanno promosso la messa in atto degli stabilimenti Fiat nelle aree del Mezzogiorno; incentivi indiretti hanno dato sostegno generale alla domanda interna di automobili tramite varie forme di rottamazione. In secondo luogo, gli affanni delle major americane sono pure esse il risultato della politica, pur se non necessariamente di quella con la “P” maiuscola.
In Italia, pochi sanno che i problemi di Chrysler e Gm sono particolarmente acuti negli Stati dell’Unione che si bagnano sul Lago Michigan, specialmente in quello che dal lago prende il nome. Là è potentissima la United Auto Workers (Uaw), il sindacato la gestione del cui fondo pensione (contornata di fatti di cronaca nera) è stata il tema di un film di successo pure in Italia. La Uaw è stata uno dei maggiori contributori finanziari alla campagna elettorale di Barack Obama, il quale ha pagato pegno due volte: prima favorendo (e benedicendo) una contrattazione integrativa iper-generosa (differente da quella negli altri Stati dell’Unione) e poi utilizzando le casse dello Sato per un accanimento terapeutico mirato a tenere in vita imprese per le quali la logica finanziaria e il diritto commerciale Usa avrebbero richiesto una procedura fallimentare e una rinascita su nuove basi.La politica – tanto con la “P” maiuscolaquanto con la “p” minuscola – sono state all’origine dei successi di alcuni players e dei disastri di altri. Lo sappiano i colleghi economisti che hanno intonato un coretto a cappella con il ritornello: “giù le mani dalla politica” (nel riassetto in corso). In Italia, la “Politica” ha alcuni obblighi specifici nei confronti di tutti gli italiani: ricordare al Lingotto (come ha fatto il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scaiola) che la riorganizzazione non deve avere implicazioni occupazionali negative, specialmente nel Sud. La “Politica” italiana ha anche un dovere nei confronti proprio della Fiat (oltre che di tutti gli italiani): nella veste di presidente del G8 deve fare sì che il Governo Usa controlli i propri pruriti protezionisti e faccia parte di una vasta strategia del mondo occidentale perché Cina, India ed altri paesi , una volta chiamati “emergenti” aprano i loro mercati.
Sul nostro webmagazine abbiamo riportato i dati del Fondo Monetario secondo cui 19 dei 26 miliardi di nuove auto che il mondo richiederà tra il 2005 ed il 2050 saranno per gli “emergenti”. Proprio in questi giorni, tre storici dell’economia di livello – William Hynes del Wadham College, David Jacks della Simon Fraser University, e Kevin O’ Rourke della Università di Dublino – hanno completato un saggio (Nber working paper No. W14767) in cui ricordano come la disintegrazione del commercio nel periodo tra le due guerre mondiali è stata creata non dall’aumento dei costi di trasporto ma dalla politica – dal protezionismo politico. Uno studio congiunto di Fondo Monetario e Banca Centrale Europea (Nber working paper No w14916) definisce livelli di soglia minimi per l’integrazione finanziaria ed economica al di sotto dei quali si va nel baratro della frammentazione dei mercati. Se il G8 (ed il G20) abbassano la guardia o si limitano a prediche inutili, la rete di acquisizioni, partecipazioni ed alleanze che sta tessendo il Lingotto potrebbe franare di fronte a barriere doganali e contingentali e ad ostacoli non tariffari al commercio. In altri termini, se sarà solida dal punto di vista industriale e finanziarie, la rete avrà bisogno della Politica per avere accesso ai mercati di sbocco. Il silenzio della Politica sarebbe assordante.8 maggio 2009
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1 commento:
Serve Politica, è vero. Nel senso che servono politici capaci di disfare i danni creati da altri politici, senza farne di nuovi e senza cedere alla tentazione di "fare" qualcosa, qualsiasi cosa, pur di sembrare attivi.
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