Giuseppe Pennisi
Gli Stati Uniti ed, in minor misura, la Gran Bretagna sono l’epicentro del sisma finanziario ed economico mondiale in corso, con sussulti di vari gradi d’intensità, dalla metà del 2007. L’Europa continentale è, però, l’area dove il sisma morde di più e gli sciami saranno più duraturi. Eloquenti le previsioni del “consensus” (20 istituti di analisi econometrica internazionale, tutti privati nessuno italiano) diramate il 23 maggio: nell’anno in corso, il pil dell’area dell’euro avrà una contrazione del 4% rispetto ad una del 2,7 stimata per il Nord America; nel 2010, nell’area dell’euro si segnerà un incremento del pil appena dello 0,3% (ed a partire dall’autunno), mentre nel Nord America la ripresa sarà dell’1,5% (ed inizierà in primavera).A fine 2010, Europa continentale e Nord America avranno tassi di disoccupazione quasi identici (tendenti al 10% delle forze lavoro) .
Cosa spiega questa divergenza? In primo luogo – lo sottolinea efficacemente un saggio di Pier Carlo Padoan e Paolo Guerrieri appena pubblicato da “Il Mulino” – la strategia di crescita dell’Europa continentale è da decenni fondata sull’export di manufatti come motore di sviluppo; quindi il Vecchio Continente è (con il Giappone) l’area che reagisce di più ad un crollo a picco dell’esportazioni mondiali (-9% stimato per quest’anno). In secondo luogo, negli ultimi dieci anni, le disparità tra redditi di lavoro e redditi da capitale sono aumentate (nonostante “il modello sociale europeo”) nel Vecchio Continente che in Nord America: dati OCSE mostrano che in Europa continentale, in termini reali i redditi medi da lavoro sono rimasti stazionari (e quelli delle fasce più basse diminuiti) mentre quelli da capitale sono cresciuti del 25% circa. Da un lato, quindi, l’export da traino è diventato freno. Dall’altro, redditi da lavoro stazionari (od in decremento) incidono negativamente sulla domanda interna, specialmente di beni di consumo durevole di massa (si differiscono gli acquisti di elettrodomestici, di abbigliamento, di auto in attesa di tempi migliori e si tenta, almeno, di avere risorse, sino a fine mese, per il fitto – o il mutuo- il pranzo e la cena).
L’ideogramma che in cinese vuol dire crisi, se capovolto significa opportunità. Dunque, la crisi può e deve essere un’occasione per ripensare il modello di crescita dell’Europa continentale. Non abbandonare il manifatturiero tramite una politica di de-industrializzazione e finanziarizzazione come fatto dalla Gran Bretagna negli Anni 90 – la premessa che oggi la ha posta al centro della crisi. Ma ri-orientare la struttura industriale verso fabbisogni e consumi interni: meno accento sull’export e maggiore enfasi sull’utilizzazione di nuove tecnologie per il capitale umano e sociale (telemedicina, teleformazione), su prodotti per i servizi alla persona ed alla famiglia (essenziali in un’area afflitta da invecchiamento e bassa natalità), su energie alternative ed eco-compatibili. Tale ri-orientamento dal lato dell’offerta avrebbe, però, risultati modesti senza un aumento della domanda interna. Quindi, di un maggiore equilibrio tra i redditi da lavoro e quelli da capitale con attenzione specialmente alla fasce più deboli. Questi temi dovrebbero al centro delle ormai imminenti elezioni europee. Ma in Italia come altrove, di tutto sembra che si discuta tranne che di ciò che riguarda il nostro futuro.
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