Alla ricerca di un'economia
per il dopo-crisi
di Giuseppe Pennisi Su Ffwebmagazine del 30 marzo, sono stati commentati una serie di indicatori presentati a un seminario internazionale tenuto a Montecitorio, su iniziativa del presidente della Camera, in base ai quali si dimostrava che nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale, l’economia italiana stesse reggendo meglio di molte altre e avesse la capacità per piazzarsi, nel dopo-crisi, in una posizione comparativamente migliore di quella in cui nel 2007 (alle soglie, quindi, del marasma delle Borse). Ci si basava su dati, ancora preliminari, di una ricerca della Fondazione Edison. Adesso, nonostante i dati sul debito pubblico (ancorché fisiologici in una fase di recessione) abbiano fatto esultare catastrofisti e sfasciti (il partito del “tanto peggio, tanto meglio”) arrivano autorevoli conferme delle indicazioni fornite su Ffwebmagazine.
I dati mensili più recenti del consensus (venti istituti econometrici privati, nessuno italiani) – pubblicati il 9 maggio – affermano che la contrazione del Pil italiano è in linea con la media dell’area dell’euro ma che – è questo il dato significativo – nel 2010 avremo una crescita ancora contenuta (1,4%) ma comparativamente molto più alta della media dell’area dell’euro (1%). Inoltre, nonostante l’aumento dello stock di debito pubblico, nel 2009 il rapporto indebitamento netto della pubblica amministrazione e pil si assesterà sul 4,5% mentre la media per i maggiori Paesi Ocse sarà il 9% (a ragione in gran misura dei salvataggi che Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Belgio hanno dovuto effettuare a spese dei contribuenti.
Per meglio comprendere il contesto è bene leggere un libro in uscita in questi giorni: il saggio di Bruno Costi, presidente del Club dell’Economia e manager industriale dopo una brillante carriera giornalistica, Alla ricerca dell’economia perduta – Le proposte di politica economica in Italia dal 2001 al 2008 (Ed. I Quaderni di Economia Italiana – Unicredit Group). In circa 350 pagine scritte in linguaggio molto chiaro aiuta a comprendere “l’eccezione italiana” nell’attuale crisi internazionale. In particolare, a capire come mai non siamo dovuti ricorrere a salvataggi bancari e a nazionalizzazioni come hanno fatto Usa, Gran Bretagna, Germania e Belgio, perché il nostro tasso di occupazione è cambiato meno che in altri paesi nonostante la caduta del pil e soprattutto quali sono i punti di forza che si annidano dietro quelli che sembrano punti di debolezza (la rete di piccole e medie imprese).
Il saggio passa in rassegna l’evoluzione dell’economia e della politica economica italiana nel primo decennio del XXI secolo e le prospettive per il prossimo futuro raccontando e commentando i documenti di politica economica (principalmente i Dpef) prodotti dai governi in carica e soffermandosi su alcuni temi di importanza strategica (i programmi per le infrastrutture, le riforme del fisco, del mercato del lavoro, della previdenza complementare, le liberalizzazioni). Consente, quindi, di cogliere tanto il cambiamento quanto i contraccolpi e i passi indietro. Permette anche di toccare con mano (pure ai non specialisti) la “cassetta degli attrezzi” di cui dispone la politica per trattare i complessi temi e problemi di politica economica del XXI secolo.
È un volume interessante proprio in quanto esamina sia le promesse e le prospettive che avevamo all’inizio del secolo sia le proposte di politica economica effettuate nella XIVe nella XV legislatura nonché nel primo scorcio della XVI legislatura. Dall’esame delle proposte (sia macro-economiche sia settoriali sia micro-economiche) si tocca con mano come esse si siano dovute adattare a forti determinanti esterne (le tensioni successive all’attacco alle Torri Gemelle, la crisi finanziaria in atto da metà 2007). Si realizza anche come nella XV legislatura si siano fatti pensati passi indietro sia sui contenuti (aumento della spesa pubblica di parte corrente, contro-riforma della previdenza) sia sulle procedure (l’introduzione dei decreti mille proroghe non neutri, come in passato, rispetto alla politica economica ma tali da essere “un’appendice particolarmente costosa” di un governo in pratica già dimissionato). I primi peseranno sulle nuove generazioni. I secondi costituiscono un cattivo precedente da non seguire. È chiaro che le politiche nazionali sono sempre più vincolate dai comportamenti del mercato globale, in cui la finanza tende a dominare l’economia reale. Tuttavia, più che alla “ricerca dell’economia perduta”, siamo (non solo l’Italia) alla ricerca della politica economica per il dopo-crisi.
19 maggio 2009
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