Ieri al Teatro Regio di Torino c’erano tutte le premesse per un disastro. L’opera “La Dama di Picche” di Pietr Ill’c Cajkovskij è una delle più elaborate da mettere in scena specialmente in una fase di tagli di bilancio: tre ore di musica, sette quadri, 15 solisti, doppio coro con 100 coristi, un coro di 25 bambini e anche una pantomima pastorale); il regista programmato per lo spettacolo (Dmitri Cherniakov) sparito senza lasciare tracce; il tenore (Misha Didyk) scomparso pure lui. Eppure i torinesi e il direttore musicale del Regio, Gianandrea Noseda, sono caparbi e, dopo decenni, una loro “Dama di Picche” la volevano. E non certo come quella importata alcuni anni fa al San Carlo dal Covent Garden, uno spettacolo “cheap”, essenzialmente di pessimo gusto. L’ultimo allestimento scenico a Torino, in traduzione ritmica italiana, risaliva al 1963 (al Teatro Nuovo) anche se non sono mancate edizioni in forma di concerto in lingua originale e versione integrale, all’auditorium Rai (la più recente nel 1990). Certo, date le ristrettezze, il Regio non poteva aspirare a una “Dama” analoga a quella che dal 1995 va in scena al Mariinsky di San Pietroburgo e che, in un elegante cofanetto color azzurro, è stata regalata da Vladimir Putin e dal suo staff a giornalisti e accompagnatori che hanno partecipato alle riunioni ministeriali del G8 tenutosi nella Federazione Russa.
“La Dama”, del 1890, è la penultima opera di Cajkovskij. Precede di tre anni “Iolanta”, una partitura di maniera che tenta di esprimere una visione estremamente e falsamente serena del mondo, proprio mentre il compositore ne riversava una visione totalmente negativa nella sesta sinfonia. Nel teatro musicale di Cajkovskij, “La Dama” (in cui ci sono molti spunti che troveremo ampliati nella sesta sinfonia) è l’opera che meglio esprime i tormenti interni che portarono il compositore, tre anni più tardi, a una morte misteriosa. Un decesso che numerosi biografi considerano un suicidio o un “suicidio ordinato”, a ragione dei crescenti scandali dovuti ai suoi rapporti con adolescenti maschi non solo appartenenti alla servitù della gleba, ampiamente tollerati se discreti, ma con figli di aristocratici e ricchi borghesi. A San Pietroburgo l’allestimento di Alexander Galibin (regia) e Alexander Orlov (scene e costumi) è tradizionale: dominano il bianco e nero, con cui contrastano violentemente il rosso fuoco della stanza da letto della Contessa, l’immenso verde macero della sala da gioco e i colori sgargianti (specialmente il blu) dei costumi della folla nei quadri del giardino d’estate e della festa. È una lunga marcia funebre verso la dissoluzione dei tre protagonisti e di coloro che li circondano. La fine di un’epoca al cui orizzonte si avvertono rulli di tamburo rivoluzionari.
Il tormento dei tre protagonisti, il bianco e nero e la lunga marcia, sono pure il tema centrale delle spettacolo del Regio firmato da Denis Krief (regia, scene e costumi) e Gianandrea Noseda. Non ci sono, però, grandi scene per rappresentare un Settecento di maniera. Cajkovskij scava nei propri problemi, incluse le passioni carnali, attraverso un Settecento visionario, quale veniva percepito alle soglie del Novecento. Chiamato di corsa a effettuare un vero e proprio salvataggio, Krief dice di avere concepito lo spettacolo in tre giorni e di averlo realizzato esclusivamente con le maestranze del Regio. C’ è una scena unica per i sette quadri, con pochi elementi per accennare ai giardini di San Pietroburgo, ai saloni delle feste, agli appartamenti della Contessa, alle bische, e alle caserme: una grande piattaforma verde che si scompone per rappresentare l’ossessione del protagonista per il gioco e l’inquietudine per le proprie tendenze sessuali punite, all’epoca, con l’esilio a vita nelle lande estreme della Siberia. I costumi sono atemporali, anche se ricordano la fine dell’Ottocento, periodo durante il quale venne composto il lavoro. Il bianco e nero diventa sempre più spettrale di atto in atto e di scena in scena; la stessa bisca in cui termina l’opera appare un lugubre cimitero in cui i giocatori sono fantasmi di una società ormai in decomposizione. Come sempre nelle regie di Krief, viene posto grande accento sulla recitazione: è teatro in musica non opera in cui si privilegia lo sfoggio delle doti canore di questo o di quello. La Contessa non è una vecchia grinzosa, ma una delle più belle donne del teatro d’opera (Anja Silja) ancora affascinante superati i 70 anni di età e una complicata vita amorosa. Uno spettacolo “low cost”, assicurano al Regio, ma anche elegantissimo. Un segnale esplicito rivolto ad altri teatri: si può risparmiare senza fare compromessi sulla qualità.
La direzione musicale di Noseda è secca, ancor più che asciutta. Manca la violenza di un Gergeev, la passione di uno Tchakarov e l’accento sulle anticipazioni novecentesche di uno Jurosvkij. Ma è comunque ineccepibile. L’orchestra risponde bene, specialmente gli archi e i fiati, mentre gli ottoni mancano a volte della morbidezza richiesta. I due cori si cimentano valentemente con la dizione in russo (la buona volontà copre alcune evidenti difficoltà di pronuncia). Dei protagonisti, il più atteso era il protagonista: Maksim Aksënov è, al tempo, un grande attore e un cantante strepitoso, specialmente nei “do”, nei legati e negli acuti, ma ha qualche difficoltà nel registro di centro. Svetla Vassilleva è una Lisa tenera e fragile, più adatta a questo repertorio che a quello verdiano. Anja Silja stupisce per come alla sua età riempia la scena, irradiandola di fascino. Dalibor Jenis ha un fraseggio morbido. Julia Gertseva sa primeggiare pur se non nei ruoli di protagonista a cui è abituata. È stato un grande successo. Si replica sino al 27 maggio. Ci si augura che lo spettacolo possa essere visto anche in altri teatri italiani.
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1 commento:
ho visto lo spettacolo e letto la recenzione. Musicalmente l'opera è stata eccezionale sia la direzione del maestro Noseda sia l'intero cast dei canatnti soprattutto, Svetla Vassilleva grandissima sia vocalmente che scenicamente. Per quanto riguarda la regia di Krief la cosa migliore sarebbe non commentare, veramente terribile, si può risparmiare ma non proponendo delle cose senza senso come le panchine del primo atto o quel pannello di platica che non si capiva a cosa servisse, per non parlare del teatrino di corte veramente ridicolo con quella pantomima di terza categoria della cameriera che spazzava per terra, i parrucconi illuminati dalle luci wood, la banalità del "fiume della morte" (che sembrava il gioco del meccano) e del tavolo da gioco su cui i coristi sembrano tutto tranne che degli spettri. Ma peggio di tutto erano le luci frontali che facevano delle ombre che nemmeno nei tatri parrocchiali si vedono più. Dispiace tutto questo perchè una direzione musicale ed un cast del genere avrebbero meritato molto di meglio.
Mi chiedo per risparmiare invece di fare questo tipo di messe in scena orribili non sarebbe meglio fare le opere in forma di concerto o con messe in scena essenziali ed intelligenti?
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