lunedì 4 maggio 2009

PRIMA LIBERALIZZARE, POI PRIVATIZZARE: LA RIFORMA DELLE “MUNICIPALIZZATE” PASSA PER UN PERCORSO A DUE FASI, Amministrazione Civile n 6, 2008

Il tema dell’efficienza, della liberalizzazione e della privatizzazione dei servizi pubblici è all’attenzione del Governo almeno dal 2002 quando un rapporto della Banca d’Italia pose l’accento su varie problematiche del settore (Banca d’Italia, 2002). E’ stato argomento di numerosi studi, tra i quali particolarmente significativi quelli del gruppo di ricerca Astrid (Amato, 2005) e dell’associazione Società Italiana” (Società Libera, 2007). E’ tema trasversale in cui, sotto molto aspetti, le posizioni e le indicazioni del centro sinistra e del centro destra hanno molti in punti in comune e tendono a convergere, anche se non a coincidere, mentre le differenze, anche marcate, sono tra centro e periferia- specialmente tra amministrazione centrale e Comuni.

Nel luglio 2006 uno dei primi atti del neo-eletto Governo di centro-sinistra è stato il varo, nel luglio 2006, del disegno di legge (ddl) 772 , presentato dai Ministri per gli affari regionali e le autonomie locali e per lo sviluppo economico – un disegno di legge delega che riguardava tanto la privatizzazione dei servizi pubblici locali quanto i contratti dello Stato e degli Enti locali, tramite procedure concorsuali di evidenza pubblica. La più dura opposizione al ddl è venuta dall’interno della stessa maggioranza parlamentare – non solo da parte di quella che è giornalisticamente definita “la sinistra radicale” ma anche da vaste aree che successivamente , nel 2007, sono confluite nel Partito Democratico. Sin dall’inizio dell’iter parlamentare del ddl delega, è stato, in pratica, accantonato il programma di grande rilievo di liberalizzazione (non ancora di privatizzazione) nel settore idrico, nonostante gli acquedotti italiani (e le aziende che li gestiscono) restino di piccole dimensioni e di scarsa efficienza, mentre in Francia, Germania e Regno Unito si è dato vita a colossi del comparto che operano come global player internazionali (Cometi, 2007). Nel corso del 2007 , l’iter parlamentare del provvedimento è continuato, tra mille ostacoli e ritardi. Si deve dare atto al Governo di avere tentato di accelerarne l’approvazione includendo i suoi aspetti fondanti nel disegno di legge finanziaria per il 2008-2010, nonostante tale procedura potesse apparire di dubbia legittimità (dato che la legge finanziaria non è la sede per includere norme ordinamentali). Il tentativo, tuttavia, non ha, comunque, avuto esiti positivi. A metà dicembre 2007, ossia alla vigilia dell’approvazione della legge finanziaria, articoli ed emendamenti predisposti a questo scopo sono stati ritirati (Ceffalo, 2007).

Quali che siano le connotazioni politiche d’opposizione alla privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali, è chiaro che l’opposizione proviene essenzialmente dalle aziende fornitrici di tali servizi e dagli enti locali responsabili a dare ad esse indirizzo ed a vigilarne l’attività. E’ un comparto molto vasto composto di circa 370 imprese e con 200.000 addetti. Nel 2007 e nel 2008, le cronache sulla vita delle aziende di servizi pubblici locali nelle prime pagine della stampa finanziaria hanno riguardato, in gran misura, tensioni e fibrillazioni tra s.p.a. (Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) di cui i Comuni, le Province ed in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti. Hanno trattato, in particolare, di negoziati per alleanze ed anche fusioni, di cui alcune andate in porto ed altre rimaste in mezzo al guado. E’ un universo vasto, ma poco conosciuto. Una radiografia utile del settore è stata messa a punto dalla Fondazione Eni Enrico Mattei (Feem), presentata ad un seminario ristretto organizzato dalla Fondazioni Iri e successivamente pubblicata (Bortolotti, Pellizzola, Scarpa, 2007). L’analisi, che ha avuto una risonanza limitata sui media nazionali (ma di cui si è occupata molto la stampa locale), si distingue da altre effettuate in questi ultimi anni – ad esempio dallo studio della Fondazione Civicum che ha esaminato i dati di bilancio di 35 società a controllo comunale in sei grandi Comuni e dalle ricerche periodiche della Conservizi – perché esamina “il capitalismo municipale” , la forma più consistente di imprenditoria pubblica dopo le privatizzazioni effettuate negli ultimi tre lustri (sia su pressione dell’Unione Europea, Ue, per ridurre, con i ricavi da esse ottenute, il fardello del debito pubblico). E’ il settore dove l’imprenditoria pubblica è più presente sotto il profilo dell’entità della partecipazione delle autonomie locali in società di capitali invece che sotto quello della spesa, dell’occupazione o del ruolo degli enti locali (a cui sono affiliate) nella governance delle fondazioni bancarie, temi centrali delle analisi precedenti della Feem e della stessa Conservizi.

I risultati sollevano più interrogativi di quelli a cui rispondono. In primo luogo, le 369 imprese partecipate da enti locali formano oltre l’1% del pil nazionale ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del pil prodotto in loco. Siamo, quindi, alle prese con un fenomeno di grande rilievo sotto il profilo sia dell’economia reale sia della finanza (e pubblica e d’impresa) sia, infine, dell’imprenditorialità.

Il capitalismo municipale è presente non soltanto nei comparti tradizionali dei servizi di pubblica utilità (come l’energia, l’acqua, i trasporti) ma anche in campi puramente di mercato e non necessariamente di competenza pubblica, come le costruzioni, il commercio, il manifatturiero ed i servizi nei settori più differenti e più diversificate. Ci sono incroci complessi nell’assetto azionario delle multiutility: ad esempio, l’azionista di maggioranza della GESAC (Società di gestione degli aeroporti campani) è una multinazionale d’ origine britannica e tra gli altri soci si contano oltre al Comune ed alla Provincia di Napoli, in posizione nettamente minoritaria, anche il Comune e la Provincia di Milano ed altri privati. La complessità dell’assetto azionario è una delle determinanti delle difficoltà nei processi di aggregazioni in corso – i tentativi di alleanze e di fusioni a cui si è fatto riferimento in precedenza.

Interessanti gli effetti dell’ingresso d’azionisti e capitale privato sugli indicatori consueti di redditività finanziaria: le società miste presentano redditività superiore di quelle unicamente municipali specialmente in termine di margine operativo lordo. L’eccezione è rappresentata dai trasporti locali, su cui gravano forti vincoli politici a carattere occupazionale tali da incidere pesantemente e negativamente su un significativo indice di efficienza- l’utile per addetto.

Quanto incide la politica, specialmente quella a livello locale, sulle scelte imprenditoriali? Con il termine si vuole dire ciò che i francesi chiamano “la politiqye d’abord” (scelte determinate da considerazioni elettorali più e prima che imprenditoriali). Lo studio della Feem non fornisce una risposta puntuale: da un lato, si riconosce ormai generalmente l’esigenza di una professionalità manageriale ben distinta da interferenze burocratiche e di politica di piccolo cabotaggio. Dall’altro, la presenza del capitalismo municipale (spesso in perdita) in settori di mercato che poco hanno a che fare con interessi di pubblica utilità suggerisce che, a livello locale, lo Stato produttore continua ad esistere con i difetti delle partecipazioni statali di un tempo (nonché della Rai, delle Poste, delle Ferrovie, dell’Alitalia). I più alti indici di redditività contabile (specialmente in termini di Roe – Return on Equity- rendimento della partecipazione azionaria) delle società miste rispetto a quelle puramente pubbliche dovrebbe essere un impulso a privatizzare o a meglio regolamentare (Bezzi, 2005, Bognetti, Robotti, 2007; Cavaliere, Scabrosetti, 2006;).

Il “capitalismo municipale” ha registrato, tra il 2001 ed il 2006 un calo degli investimenti in rapporto al fatturato dal 20% al 17%.- più pronunciato nei comparti dell’energia dal 20% al 13% e dei trasporti pubblici locali,dal 23 al 20%, nonché vistose differenze costi del personale e della redditività fra le varia macro-aree (Sud,Centro e Nord). Queste cifre (risultanti da uno studio dell’Università di Roma “La Sapienza” e da un’analisi della Banca d’Italia- Dipartimento di Economia Pubblica; 2007; Bianco, Sestito 2007), danno corpo all’ipotesi secondo cui in certe aree del Paese ed in certi settori l’”ingombro” della “politique d’abord” locale è maggiore che in altre con l’esito che il management, anche di qualità, ha le mani legati pure nel reperimento di finanziamenti (nonostante la disponibilità di risorse private per finanza di progetto). Inoltre, il forte aumento dell’imposizione locale (nel solo 2007 il gettito dei comuni è aumentato dell’8,5%) ha comportato un freno alle tariffe: uno studio delle Università di Brescia e Padova indica (Miniaci, Scarpa, Valbonesi, 2007) che dal 1998 al 2005, gli esborsi per acqua, elettricità e riscaldamento delle famiglie a basso reddito è passata dallo 0,0648% allo 0,0595% della spesa familiare totale, restando al di sotto dei livelli di soglia definiti nel resto dell’Ue. Infine, i tentativi di privatizzazione, iniziati già dal 2002 , sono stati in gran misura meramente formali e ci è mossi in modo discordante in materia di trasporto pubblico locale, gas, energia elettrica e acque. Causando frammentazione ed ingenerando disorientamento tra i potenziali investitori.

Come uscirne? Il Dipartimento di Economia del “La Sapienza” propone “una scelta radicale”:“una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali” . E’ una soluzione sensata , specialmente in un contesto in cui c’è una spinta imprenditoriale in campi (telecomunicazioni, energia, autostrade) con prospettive di profitto.

Il percorso non è semplice . Varie alternative sono indicate in un lavoro importante : i due volumi, per oltre 1000 pagine, curati da Ray Rees sull’economia delle aziende di pubblica utilità pubblicato poco più di un anno fa (Rees, 2006). Possono fornire utili spunti alla politica legislativa, se è quando si vorrà, e si potrà, riprendere il percorso della privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali.

Al termine della precedente legislativa non solamente i tentativi di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali non sono andati in porto ma sono sorte nuove “utility” plurifunzionali e di grandi dimensioni, come A2A, di cui vari Comuni hanno la maggioranza azionaria.

La privatizzazione dei servizi pubblici locali era presente nei programmi elettorali con i quali l’attuale maggioranza si è presentata al corpo elettorale. Rientrava nelle “sette missioni” del Governo ma non con la priorità anche temporale d’altri aspetti del programma. Occorre rilevare che ciò corrispondeva, in linea di massima, agli umori della società civile quali rilevati dal barometro di uno dei più noti centri d’analisi sociologica (Censis, 2008) Era, in ogni caso, una riforma da essere realizzata successivamente al varo del federalismo fiscale, se non altro perché di competenza di enti (principalmente i Comuni) già dotati di un vasto grado di autonomia, destinato a crescere ulteriormente nell’ambito del progettato nuovo assetto federale dell’Italia.

Ciò nonostante, quasi di soppiatto (tramite un emendamento al disegno di legge di conversione del decreto sulle misure urgenti per l’economia varato poche settimane dopo l’insediamento del nuovo Esecutivo) è stata realizzata quella che alcuni organi di stampa hanno chiamato “una privatizzazione silenziosa” . In effetti, anche se la norma definitivamente approvata (art. 23 bis della Legge 133/2008) non contiene nessuna privatizzazione specifica, essa fornisce un grimaldello (ed un percorso) per privatizzare i servizi pubblici locali. Contiene l’indicazione di una scelta in favore della modalità di selezione del gestore del servizio a seguito dell’espletamento di “procedure competitive ad evidenza pubblica”. In deroga a tale modalità ordinaria di affidamento di servizi pubblici, in relazione a fattispecie che, “a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”, “l'affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”. Le espressioni sono piuttosto generiche. Ciò non rende agevole ricondurre la fattispecie della SpA mista pubblico-privata nell'ambito della modalità ordinaria o eccezionale di affidamento. Tuttavia, anche alla luce di prime indicazioni (ad esempio, la comunicazione del 16 ottobre 2008 dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), si lascia preferire l'interpretazione che tende a ricondurre SpA mista nell'ambito di “procedure competitive ad evidenza pubblica”, sempre che la scelta del socio privato sia fatta in ragione del servizio oggetto d’affidamento, secondo il modello della cosiddetta gara "a doppio oggetto" Tra le modalità eccezionali rientra, invece, l'affidamento a società "in house". E’ senza dubbio auspicabile un chiarimento - ad esempio una legge interpretativa -, per rendere univoca l'interpretazione.

Per entrare nella sostanza del problema occorre chiedersi se ci sono le condizioni economiche e sociali per utilizzare il grimaldello. Gli ostacoli alla privatizzazione dei servizi pubblici locali riposano in gran misura sull’argomento che la privatizzazione rischia di rendere tali servizi (specialmente quelli scarsi come l’acqua) poco accessibili alle fasce più basse di reddito e di consumi. Un’analisi di varie università Usa, basata principalmente sulle privatizzazioni di servizi pubblici locali in America Latina, afferma che questa “credenza” è “propaganda lontana dalla realtà (Di Tella, Galiani, Schargrodsky, 2008). Due analisi puntuali relative specificatamente all’Italia (Miniaci, Scarpa, Valbonesi, a) e b), 2008) esaminano la spesa delle famiglie nel 1998-2002 sulla base dell’Indagine Istat sui Consumi delle Famiglie; concludono che le riforme già introdotte nel settore dei servizi di pubblica utilità (specialmente in materia di acqua e di energia), e delle tariffe ad essi attinenti, non hanno gravato sui ceti deboli.

Non solamente il percorso sarà verosimilmente lungo ma resta il dilemma se è prioritario privatizzare o liberalizzare. Una privatizzazione senza liberalizzazione consente ai nuovi titolari dell’impresa di servizio pubblico di catturare rendite di posizione. In molti casi, la liberalizzazione non solo deve precedere ma è un’efficace alternativa alla privatizzazione (Shaij, 2008). Questa scuola di pensiero ha una propria base analitica esperienza, e nell’esperienza Ocse (di recente rivisitata in uno studio della Banca d’Italia- Barone, Cingano, 2008) ed in quella dell’Ue nonché in valutazioni effettuate da singoli Paesi ed in una rassegna recente commissionata dalla Verlag Bertelsmann Stiftung (Frick, Ernst 2008; National Normenkontrollat, 2008). Per la politica economica, dunque, la liberalizzazione deve avere la priorità (almeno in termini di scansione temporale).





Per saperne di più

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