di Giuseppe Pennisi Gli organi d’informazione italiani trattano in queste settimane diffusamente dei rapporti (in differente grado di evoluzione) tra la Fiat, la Chrysler e la Gm. Nessuno si rivolge, però, a cosa sta avvenendo all’altra major americana , la Ford – neanche coloro che affollano le sale cinematografiche per vedere “Gran Torino”, il nome di una Ford gran lusso della metà degli Anni Settanta. Se ne ricorda il vostro “chroniqueur” il quale ha vissuto per tre lustri a Washington e con una Ford station wagon non soltanto portava a scuola i bambini ma andava in gita alle Outer Banks della Carolina del Nord.
Pochi ricordano che nell’autunno del 2006 (meno di tre anni fa), la Ford appariva intubata come un malato terminale, in condizioni commerciali e finanziarie ben peggiori di quelle in cui versavano la Chrysler (alle prese con un matrimonio turbolento con la Daimler ) e la Gm (che aveva appena pagato un caro prezzo per rompere il fidanzamento con la Fiat). Adesso, la Ford ha appena ricevuto uno “spot” di lusso da Barack Obama il quale, nel roseto della Casa Bianca, tracciando il futuro dell’industria automobilistica Usa, ha affermato di avere sempre guidato autovetture prodotte da quella sola delle tre case di Detroit. Cosa è cambiato?
I conti sono ancora in rosso: esaminando su Internet i bilanci consolidati, il consuntivo 2008 evidenzia una perdita di 14,6 miliardi di dollari e la prima trimestrale 2009 una di 1,4 miliardi. Il disavanzo, però, non è pari a quello fallimentare della Chrysler (una spina che Obama si sta togliendo grazie alla Fiat, ed ai contribuenti italiani) o a quello quasi fallimentare di molte aziende del gruppo Gm (che la Casa Bianca vedrebbe volentieri cedute a compagnie automobilistiche e contribuenti volenterosi). Il merito di avere dato una sterzata ad una Ford i cui libri contabili stavano per essere portati in tribunale, è stato attribuito principalmente a Alan R. Mullaly, giunto alla guida del complicato conglomerato di imprese a ragione dell’esperienza maturata al timone della direzione commerciale della Boeing, un’azienda che negli ultimi venti anni ne ha viste di tutti i colori.
Mullaly ha attuato un programma di risanamento senza attingere, né direttamente né indirettamente, un dollaro dalle casse dell’erario (quindi un percorso molto differente da quello della Chrysler e della Gm, nonché della Fiat) ma lavorando di stretta intesa con la United Auto Workers (Uaw), il potente sindacato metalmeccanico – uno stile (si dice a Detroit) più “tedesco” che “americano”. Ha messo da parte modelli di lusso (tipo Jaguar) e puntato su media cilindrata (la nuova Taurus, la nuova Fiesta). I suoi collaboratori e la Uaw affermano che la sua principale dote è l’ottimismo che sprigiona e infonde agli altri. Preferisce visitare gli impianti che spendere tempo nei salotti di Detroit , o in quelli di Washington (che dice di aborrire). Non va in giro in maglione ma in gessato. Ha saputo rompere le baronie che per decenni hanno infestato la Ford. Ogni martedì mattina alle 7,30 si riunisce con la sua squadra per impostare programmi, valutarli, rivederli – insomma decidere.
È in questo contesto che è stato stabilito di ridurre il ruolo della Jaguar ed enfatizzare quello della nuova Taurus e della nuova Fiesta, in piena consapevolezza che si tratta due modelli che, per quanto aggiornati nelle loro caratteristiche tecniche, possono sembrare troppo piccoli agli automobilisti americani. Lo stesso Floyd Norris, columnist del New York Times e ammiratore di Mulally, ha espresso perplessità a questo riguardo. Tuttavia la Ford di Mulally non guarda al mercato Usa o a quello Nord Americano in generale e neanche all’Emisfero Occidentale (ossia l’intero continente, America Latina inclusa). Ha sulla sua scrivania lo studio del Fondo Monetario in cui si stima che l’80% del mercato è nei paesi oggi chiamati “emergenti” ; nel suo studio c’è pure un cannocchiale. Fissato in quella direzione.
L’analisi Fmi e il cannocchiale rispondono a molte domande poste da Ffwebmagazine. E a cui si spera che Sergio Marchionne, prima o poi, risponda. Non tanto a un piccolo webmagazine di nicchia. Ma agli italiani.
26 maggio 2009
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