Con la trasferta a Berlino della delegazione Fiat guidata dall’amministratore delegato Sergio Marchionne inizia l’operazione più complessa di politica industriale europea degli ultimi dieci anni. Che cominci, per iniziativa di una delle maggiori imprese italiane, nel mezzo della recessione mondiale più grave dalla dine della seconda guerra mondiale è, senza dubbio, un segno importante di vitalità del nostro Paese. E’ un segnale in positivo che si affianca ad altri meno notati ma parimenti importanti: ad esempio, nel 2009, l’indebitamento della pubblica amministrazione in Italia è stimato attorno al 4,6% rispetto ad una media del 9% dei maggiori Paesi Ocse , non abbiamo dovuto fare ricorso a salvataggi di banche o di imprese; l’aumento della disoccupazione è relativamente contenuto. Senza tale contesto comparativamente positivo non sarebbe stato possibile portare a termine l’intesa Fiat-Chrysler che è la premessa del tentativo di Corso Marconi di diventare l’azionista di riferimento della Ope, nata come filiale europea della GM ed ora un conglomerato con 50.000 dipendenti in sette Paesi ma fortemente radicata in Germania (25.000 dipendenti in quattro stabilimenti). Completato il prologo (l’accordo Torino-Detroit passando per Washington), ora comincia il “play” vero e proprio.
Se la Fiat riuscirà nell’intrapresa uscirà da un ruolo relativamente minore nel mercato mondiale dell’auto e diventerà una delle poche “major” internazionali. Avrà il cappello a tre punte che si addice all’aristocrazia non solamente perché avrà come riferimento Italia, Germania ed Usa ma poiché potrà definire ed attuare una strategia davvero planetaria.
Come ogni intrapresa, però, pure questa ha il suo tallone d’Achille, ossia il suoi punto debole. Esso non costituisce sul giungere ad un accordo sul prezzo (se 750 milioni o un miliardo di euro per un’azienda, la Opec, di cui la capogruppo si vuole liberare). Il tallone d’Achille- ci dice un banchiere tedesco che ha vissuto in prima persona- la tormentata vicenda tra Chrysler e Daimler, consiste nel fondere culture così diverse. E’ in questa difficoltà che è incappato il matrimonio tra Chrysler e Daimler: gli interessi in gioco non solamente non hanno fatto scattare l’amore ma hanno portato ad un divorzio da film dell’orrore. L’intervento della Casa Bianca per evitare il fallimento della Chrysler e l’ingresso del sindacato nella “newco” di Detroit possono avere avvicinato il “modello” prevalente sulle rive del lago Michigan Detroit alla co-determinazione che vige da decenni su quelle del Reno. Restano interrogativi, però, su come il “modello italiano” si innescherà su questi due. La mossa del CdA della FIAT di valutare l’ipotesi di spin off delle attività automobilistiche del gruppo e di farle confluire in una nuova società è una chiara indicazione che a Torino si ha consapevolezza del problema.
La fusione di culture è essenziale per il secondo atto del “play”- quello più importante. Chi scrive che la strategia sia la conquista del mercato americano ed est-europeo con utilitarie dimostra di sapere molto poco del cambiamento strutturale del mercato dell’auto. Un’analisi del Fondo monetario, che riteniamo sia nota a Corso Marconi, sostiene che dei 26 miliardi di nuovo auto che il mondo richiederà tra iul 2005 ed il 2050, 19 saranno nei Paesi in via di sviluppo. Per entrare in questi mercati, il cappello a tre punto avrà bisogno che i Governi (degli Usa e dell’Ue) convincano Cina ed India a seguire le regole Omc (Organizzazione mondiale del commercio) ed a smantellare i protezionismi.
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