martedì 5 maggio 2009

AL G8 DE L’AQUILA L’ITALIA E’ OBBLIGATA A SPENDERE LA SUA MONETA PIU’ FORTE, L'Occidentale del 5 maggio

C’è un campo in cui al prossimo G8 de l’Aquila, l’Italia si presenta in posizione relativamente forte: la politica di bilancio e della moneta. Non siamo necessariamente in una posizione comparativamente buona esclusivamente a ragione delle nostre virtù. Lo siamo anche a causa dei vizi del passato che non ci hanno concesso di mettere il piede sull’acceleratore (tanto quanto hanno fatto e stanno facendo gli altri). Lo siamo pure a motivo di un sistema bancario che negli ultimi tre lustri è passato da circa 600 istituti di credito a cinque poli ma, pur avendo scoperto “la banca universale” ed il “bancassurance”, è rimasto ancorato alle vecchie tradizioni dei nostri padri e madri alla ricerca di impieghi “di tutto riposo”. Lo dicono, in primo luogo, i numeri. Mentre mediamente, secondo stime dell’Economist Intelligence Unit, i Paesi “avanzati” ad economia di mercato chiuderanno l’esercizio finanziario in corso con un indebitamente pubblico netto pari al 9% del pil, noi sforeremo forse solo di qualche punto percentuale il fatidico – per utilizzare il lessico di un tempo- 3% del “patto di crescita e di stabilità”. Non abbiamo potuto attuare politiche di bilancio espansioniste perché non ce lo consente il nostro elevato stock di debito pubblico (quasi il 106% del pil), un vulcano sempre sul punto di andare in eruzione causando crisi di liquidità ove non insolvenze . Soprattutto, però, non siamo stati costretti a dilatare la nostra spesa pubblica (proprio mentre la crisi della produzione e dei consumi mordeva sulle entrate) per effettuare salvataggi di banche grandi e piccole o per correre in aiuto ad imprese (si veda il caso dell’auto negli Usa) sul punto di portare i libri in tribunale.
Questa posizione relativamente forte (nonostante le debolezze strutturali del nostro sistema economico) ci dà modo di parlare con autorevolezza non solamente perché siamo i padroni di casa ma perché oggi abbiamo una casa comparativamente più ordinata di quella di altri.
Come spendere questa autorevolezza? In primo modo, facendo domande, garbate ma puntuali, che altri hanno difficoltà a formulare. L’interrogativo che tutti-si-pongono-ma-che-nessuno.-vuole-profferire riguarda i costi (oltre che i rischi) di una politica Usa che sta raddoppiando ogni sei mesi la base monetaria. E’ competenza – diranno i giuristi- della Federal Reserve non della Casa Bianca. Non c’è dubbio, però, che, dopo avere agevolato una fase di esuberanza irrazionale (per mutuare il lessico da Robert Schiller) l’attuale Federal Reserve è una Giovanna d’Arco con la lancia spezzata e che ascolta non “le voci” ma “la voce” che dal n.1600 di Pennsylvania Ave- N.W di Washington gli chiede di fare di tutto per rilanciare l’economia. Non stiamo certamente cadendo nell’errore della politica restrittiva che scatenò la Grande Depressione degli Anni Trenta. Si sta, però, probabilmente eccedendo sull’altro versante senza troppo curarsi del fatto che l’inflazione è la più ingiusta delle tasse poiché colpisce più che proporzionalmente le fasce a reddito basso e che i disavanzi oggi sono lo stock di debito di domani che le nuove generazioni dovranno rimborsare.
In secondo luogo, possiamo, e dobbiamo, spendere la nostra autorevolezza in materia di riassetto del sistema monetario internazionale. Il nodo non è la moneta mondiale virtuale, oppure un rilancio dei Dsp (diritti speciali di prelievo – la valuta scritturale istituita negli Anni 70 e creata dal Fondo monetario) quanto le nuove regole e, soprattutto, le nuove prassi di funzionamento dei flussi finanziari e della pertinente vigilanza. Il gruppo di lavoro istituito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ha prodotto testi, ancora coperti di riserbo, ma che hanno avuto una larga base di consenso ad una riunione a porte chiuse tenuta il 18 aprile all’Hotel Adlon di Berlino.
In terzo luogo, dobbiamo fare attenzione (in effetti il termine più appropriato sarebbe “vigilare”) sui progetti di riforma del Fondo monetario e della Banca mondiale. L’aumento dei diritti di voto di Paesi un tempo chiamati emergenti minaccia di ridure i nostri. E con essi i seggi nel CdA delle due istutizioni.

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