Per calcolare quanto costa l’”Auf Weidersehen” con cui l’Opel (non senza il supporto del Governo tedesco) ha detto “addio” alla Fiat occorre calcolare le opzioni reali a cui il Lingotto deve rinunciare a ragione sia del mancato accordo sia dell’intesa raggiunta con la Magna International. Due aspetti i cui effetti si sommano l’uno sull’altro.
In primo luogo, secondo coloro che hanno avuto modo di studiarne il testo, il piano presentato dall’Amministratore Delegato , Sergio Marchionne, si basa sull’ipotesi che nel mercato globale, una volta che i giganti indiani e cinesi prenderanno il volo, potranno “sopravvivere” solamente le case automobilistiche con un fatturato annuo di 80 miliardi di euro ed una produzione annua di 6 milioni di auto. La Fiat ha un fatturato di poco più di un milione di euro ed una produzione di 2,5 milioni di auto. Con quel-che-resta-della-Chrysler, fatturato e produzione potrebbero crescere di un terzo- ben al di sotto dell’“obiettivo di sopravvivenza”.
In secondo luogo, in casa propria, nel mercato dell’Ue e dell’Europa dell’Est, la Fiat avrà a che fare con un concorrente agguerrito che già oggi produce 1,7 milioni di auto, ha ampia liquidità ed un accesso preferenziale ad oriente tramite la Sberbank, la maggiore cassa di risparmio russa.
In terzo luogo, la Fiat perde il vantaggio dell’integrazione tecnologica con Chrysler e Opel (ambedue rivolte alle medie cilindrate). Al contrario, ha il danno che la tecnologia Opel rafforza chi sino ad ora si è dedicato principalmente alla produzione di componenti di grandi cilindrate. Ciò rende ancora più difficile penetrare nel mercato nord-americano: Magna International ha la propria sede in Canada (pur se radici anche in Austria e Russia) e dal 1962 esiste un accordo Usa-Canada in materia di commercio d’auto . Non è certo facile operare in un mercato europeo in rapida riconversione: un saggio recente di Pier Carlo Padoan (Vice Segretario Generale dell’Ocse) e Paolo Guerrieri (Università La Sapienza e Collège d’Europe a Bruges) dimostra come l’Europa stia passando da una crescita trainata dall’export di manufatti ad uno sviluppo promosso dalla domanda interna per i servizi alla persona e l’ambiente. In tale contesto, il mercato Ue dell’auto pare destinato a diventare sempre più selettivo.
In quarto luogo, la Fiat – dicono i tedeschi- ha perso l’Opec ha ragione della propria situazione finanziaria: non ha potuto offrire liquidità a ragione di un indebitamento netto stimato dalla Sanford C. Bernstein in 6,6 miliardi di euro – un fardello pesante dato che molti prevedono un aumento dei tassi d’interesse.
A fronte di questi costi (ed agli interrogativi che sollevano banche e finanziarie), occorre che , al più presto, Sergio Marchionne chiarisca quale è la strategia alternativa (in gergo “il piano B”) nei suoi obiettivi, contenuti e modalità d’attuazione. Se le premesse del “piano A” erano corrette, è in gioco la “sopravvivenza stessa” della maggiore industria del manifatturiero italiano.
sabato 30 maggio 2009
Persa Opel il futuro della Fiat torna incerto L'Occidentale 30 maggio
Questa sera, a Piazza San Carlo a Torino, ad un tavolo del Whrist, il circolo più aristocratico della città (quello dove si respira ancora la nostalgia di quando si era una capitale al centro delle Grandi Potenze del Consesso Europeo), si riunisce , a cena, un gruppetto di storici. Parleranno, però, di un tema molto attuale: cosa succederà a Marchionne, e quel che più conta, alla Fiat, dopo la sonora sconfitta subita nel tentativo di conquistare (senza contante) l’Opel?
Ai commensali interessa più l’avvenire della Fiat che quello di Marchionne. Al Whrist non si è accettati in maglioncino. Tanto meno se il maglione è considerato un amuleto scaramantico; nei saloni c’è aura risorgimentale - quindi, nettamente contraria ad ogni forma di superstizione (ritenuta appannaggio dei cugini poveri di baronia borbonica). Gli storici ricordano quanto detto da Napoleone ai suoi fratelli e cognati, dopo la battaglia di Austerlitz, quando l’aristocrazia europea si inchinava ai suoi piedi ed i suoi congiunti ottenevano corone di qua e di là : “Alla prima sconfitta, sarà tutto finito”. Per il còrso divenuto Imperatore dei francesi, ciò avvenne alla Beresina, quando, dopo l’inverno russo, i generali bruciarono il tricolore per non farlo cadere nelle mani delle armate dello Zar. Rommel, “la volpe del deserto”, appassionato di storia, raccontò l’episodio ad Hitler, sottolineando come la vera sconfitta non era stata a El Alamein ma Leningrado (dopo che il Führer aveva già fatto stampare i biglietti d’invito per la festa della vittoria da tenersi all’Hotel Astoria di fronte al Palazzo d’Inverno). Per il Generale Tojo, la svolta fu la sconfitta alle Mid-Way , in seguito alla quale scemò anche il suo seguito interno (e nella stessa corte di Hirohito).
Tra la dirigenza Fiat - come già sottolineato da l’Occidentale - c’è sempre stata una certa diffidenza nei confronti del “canadese”, le cui maniere erano e sono così distanti da quelle della “Torino-che-pensa”. Ora la fronda si irradia, si estende, trova supporto pure negli ambienti sindacali (operai ma pur sempre torinesi, d’adozione se i nonni sono venuti dalla Calabria e dalla Lucania, nonché dubbiosi sugli effetti occupazionali della strategia di Marchionne). In primo luogo, il risanamento finanziario ed industriale di cui la stampa elogia Marchionne sarebbe stato più fittizio che reale; nel gennaio 2008 (ossia non tanto tempo fa), il Governo Prodi (in punto di uscire di scena) modificava, ai limiti della costituzionalità il decreto “Milleproroghe” per dare ossigeno all’azienda. In secondo luogo, il tentativo di accaparrarsi Opel ed attività sud-americane della GM viene ora visto come una manovra per fare diventare la Fiat “too big to fail” a livello europeo ove non mondiale; finita male questa strategia, adesso la Fiat appare in tutta la sua fragilità finanziaria - come ben sanno i dirimpettai del Whrist (il Sanpaolo ora Intesa-Sanpaolo).
In terzo, l’operazione Chrysler appare in tutti i suoi limiti: una cortesia fatta ad Obama (il cui principale finanziatore è stata l’United Auto Workers) nella prospettiva che la Casa Bianca potesse rendergli il favore facendo pressioni sulla GM: Obama ed i suoi consiglieri si sono rivelati o poco affidabili o non in grado di sdebitarsi (con Marchionne) - oppure il destino è stato “cinico e baro” (come si dice a Chieti). Adesso la Fiat si trova ad essere non solo la più piccola tra le grandi case automobilistiche europee, ma anche tra quelle più fragili sotto il profilo finanziario, nonché priva di un “piano B” alternativo al piano industriale “A” le cui premesse non hanno più base. Ed aggravata dal fardello della Chrysler, la cui cultura aziendale mal si armonizza con quella di altri (come dimostrato dal tempestoso matrimonio con la Daimler).
Che previsioni fare? Alcuni soci del Whrist auspicano che Marchionne ed il suo maglioncino tornino a Toronto. Ciò non risolverebbe, però, i nodi di fondo che sono finanziari, tecnologici e di mercato. Pare certo che, dopo le ultime vicende, la Fiat avrà difficoltà a bussare alla porta dei contribuenti italiani. Se lo farà - con questi chiari di luna e con queste ristrettezze di bilancio - la troverà chiusa. Ermeticamente.
Ai commensali interessa più l’avvenire della Fiat che quello di Marchionne. Al Whrist non si è accettati in maglioncino. Tanto meno se il maglione è considerato un amuleto scaramantico; nei saloni c’è aura risorgimentale - quindi, nettamente contraria ad ogni forma di superstizione (ritenuta appannaggio dei cugini poveri di baronia borbonica). Gli storici ricordano quanto detto da Napoleone ai suoi fratelli e cognati, dopo la battaglia di Austerlitz, quando l’aristocrazia europea si inchinava ai suoi piedi ed i suoi congiunti ottenevano corone di qua e di là : “Alla prima sconfitta, sarà tutto finito”. Per il còrso divenuto Imperatore dei francesi, ciò avvenne alla Beresina, quando, dopo l’inverno russo, i generali bruciarono il tricolore per non farlo cadere nelle mani delle armate dello Zar. Rommel, “la volpe del deserto”, appassionato di storia, raccontò l’episodio ad Hitler, sottolineando come la vera sconfitta non era stata a El Alamein ma Leningrado (dopo che il Führer aveva già fatto stampare i biglietti d’invito per la festa della vittoria da tenersi all’Hotel Astoria di fronte al Palazzo d’Inverno). Per il Generale Tojo, la svolta fu la sconfitta alle Mid-Way , in seguito alla quale scemò anche il suo seguito interno (e nella stessa corte di Hirohito).
Tra la dirigenza Fiat - come già sottolineato da l’Occidentale - c’è sempre stata una certa diffidenza nei confronti del “canadese”, le cui maniere erano e sono così distanti da quelle della “Torino-che-pensa”. Ora la fronda si irradia, si estende, trova supporto pure negli ambienti sindacali (operai ma pur sempre torinesi, d’adozione se i nonni sono venuti dalla Calabria e dalla Lucania, nonché dubbiosi sugli effetti occupazionali della strategia di Marchionne). In primo luogo, il risanamento finanziario ed industriale di cui la stampa elogia Marchionne sarebbe stato più fittizio che reale; nel gennaio 2008 (ossia non tanto tempo fa), il Governo Prodi (in punto di uscire di scena) modificava, ai limiti della costituzionalità il decreto “Milleproroghe” per dare ossigeno all’azienda. In secondo luogo, il tentativo di accaparrarsi Opel ed attività sud-americane della GM viene ora visto come una manovra per fare diventare la Fiat “too big to fail” a livello europeo ove non mondiale; finita male questa strategia, adesso la Fiat appare in tutta la sua fragilità finanziaria - come ben sanno i dirimpettai del Whrist (il Sanpaolo ora Intesa-Sanpaolo).
In terzo, l’operazione Chrysler appare in tutti i suoi limiti: una cortesia fatta ad Obama (il cui principale finanziatore è stata l’United Auto Workers) nella prospettiva che la Casa Bianca potesse rendergli il favore facendo pressioni sulla GM: Obama ed i suoi consiglieri si sono rivelati o poco affidabili o non in grado di sdebitarsi (con Marchionne) - oppure il destino è stato “cinico e baro” (come si dice a Chieti). Adesso la Fiat si trova ad essere non solo la più piccola tra le grandi case automobilistiche europee, ma anche tra quelle più fragili sotto il profilo finanziario, nonché priva di un “piano B” alternativo al piano industriale “A” le cui premesse non hanno più base. Ed aggravata dal fardello della Chrysler, la cui cultura aziendale mal si armonizza con quella di altri (come dimostrato dal tempestoso matrimonio con la Daimler).
Che previsioni fare? Alcuni soci del Whrist auspicano che Marchionne ed il suo maglioncino tornino a Toronto. Ciò non risolverebbe, però, i nodi di fondo che sono finanziari, tecnologici e di mercato. Pare certo che, dopo le ultime vicende, la Fiat avrà difficoltà a bussare alla porta dei contribuenti italiani. Se lo farà - con questi chiari di luna e con queste ristrettezze di bilancio - la troverà chiusa. Ermeticamente.
venerdì 29 maggio 2009
HAYDN SENZA ASSOLO NEI TEATRI ITALIANI Milano Finanza del 30 maggio
Il 31 maggio 1809 morì Vienna Franz Joseph Haydn, musicista che ha definito l’assetto della “sinfonia” ed inciso sugli sviluppi del pentagramma sino ad oggi. Domani, in 20 capitali verrà suonato contemporaneamente (ovviamente in fusi orari differenti) uno dei suoi oratori più maturi: La Creazione. In Italia, è stata scelta per l’evento, dalle autorità austriache, la giovane Orchestra Sinfonica della Fondazione Roma il cui direttore Francesco La Vecchia è diventato a fine aprile il principale maestro concertatore ospite dei Berliner Symphoniker . Sempre a Roma sia l’Accademia di Santa Cecilia (dove è stato eseguito dal 16 al 19 maggio il grandioso oratorio, in pratica un’opera seria, Il ritorno di Tobia) sia l’Orchestra Sinfonica – Fondazione Roma sia altre formazioni minori presentano serie di concerti dedicati a Franz Joseph. A Milano tanto la Scala quanto gli Amici del Quartetto e la Verdi hanno in corso programmi haydniani.
Poca attenzione alla mirabile produzione operistica (in gran parte su libretti di Goldoni). Il “Teatro dei Rozzi” di Siena mette in scena a metà luglio, “L’Isola Disabitata” e i Teatri di Treviso e di Jesi presentano (a fine giugno ed in autunno), “La Vera Costanza”; la produzione andrà anche a Madrid, Leigi e Ratisbona. “L’Infedeltà Delusa” (fonte d’ispirazione per Mozart) è stato eseguito al Conservatorio di Milano in forma di concerto a metà maggio Assordante il silenzio in materia delle principali fondazioni liriche tanto più che le opere di Haydn comportano allestimenti semplici ed economici, hanno forte teatralità e sono perfette per voci giovani.
Poca attenzione alla mirabile produzione operistica (in gran parte su libretti di Goldoni). Il “Teatro dei Rozzi” di Siena mette in scena a metà luglio, “L’Isola Disabitata” e i Teatri di Treviso e di Jesi presentano (a fine giugno ed in autunno), “La Vera Costanza”; la produzione andrà anche a Madrid, Leigi e Ratisbona. “L’Infedeltà Delusa” (fonte d’ispirazione per Mozart) è stato eseguito al Conservatorio di Milano in forma di concerto a metà maggio Assordante il silenzio in materia delle principali fondazioni liriche tanto più che le opere di Haydn comportano allestimenti semplici ed economici, hanno forte teatralità e sono perfette per voci giovani.
CHE NE SARAI MAI DI FIAT “ITALIANA” iI Domenicale del 30 maggio
Sono passati pochi mesi – non anni luce – dalle settimane di vivacissime polemiche in cui tanto il centro destra quanto il centro sinistra si dilaniavano sull’annacquamento, ed ancora peggio, sulla perdita di italianità di quella che era stata, in tempi gloriosi, la compagnia aerea di bandiera ma da tre lustri era diventata un pozzo senza fondo per il frutto del seduto lavoro e delle non gradite imposte e tasse degli italiani. Oggi, alla presentazione di spizzichi e bocconi di quello che viene definito il “piano Marchionne”, nessuno pare preoccuparsi dell’”italianità” della FIAT. Di oggi e di domani.
Cifre alla mano, la FIAT ha avuto più sangue dai contribuenti di quanto non sia stato, per cosi dire, “donato” dai medesimi all’Alitalia. Se non altro per la più lunga storia e per avere orientato verso il trasporto su gomma tutta la politica italiana delle infrastrutture e dell’industria sin dall’inizio del secolo scorso (quando aviazione civile ed Alitalia non erano ancora nel grembo degli Dei). Chi vuole avere dati precisi, legga i volumi sull’argomento di Valerio Castronuovo, affettuosamente e scherzosamente chiamato “storico di corte” di Corso Marconi, prima, e del Lingotto, poi.
Del “piano Marchionne” sappiamo solo che il “cadanese” (tale ama definirsi al di là delle Alpi ed, a maggior ragione, sull’altra sponda dell’Atantico) ha tirato una castagna dal fuoco a Barack Obama, di cui i sindacati dell’auto sono stati i maggiori sponsor elettorali. Predisposti gli sponsali con la Chrysler, Marchionne si è poi candidato alla guida di parte di quella General Motors (GM) che meno di un lustro fa aveva sborsato due miliardi di dollari pur di rompere il fidanzamento con Torino. La stessa FIAT pareva boccheggiante sino a ieri; il volume di Bruno Costi (recensito a p…... di questo numero del “Dom”) documenta che a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2009 , il Governo Prodi utilizzò in modo ardito il decreto “mille proroghe” per dare una boccata d’ossigeno al Lingotto.
Ora da casa automobilistica “minor” (e malmessa) nel contesto mondiale, il “mago Marchionne” starebbe per fare diventare la FIAT la terza o lo quarta “major”, su piano internazionale, senza aumentare l’indebitamento (tanto più che si prevede un sensibile aumento dei tassi tra un paio d’anni) e grazie ad una serie di fusioni e concentrazioni a titolo gratuito. O quasi.
Ammettiamo che il piano (di cui si conoscono unicamente alcuni aspetti) vada in porto e Marchionne diventi il centro di una rete multinazionale che accorpi la FIAT con ciò che resta della Chrysler e un po’ di spezzatino di GM. Nessuno si inquieta per la perdita di poca o tanta italianità se il cervello si sposta da Torino altrove? Chi scrive ha vissuto per oltre tre lustri negli Usa ed ha una moglie francese; non è quindi un fan preconcetto dell’italianità. E’ però domanda che dovrebbe essere posta (da chi si agitava tanto pochi mesi fa) se non altro poiché è il sottostante del futuro a lungo termine degli stabilimenti localizzati nel nostro Paese.
Quale che sia la risposta a questa domanda , occorre porne una seconda: per quali mercati produrrà la rete con Marchionne al proprio fulcro ed al proprio timone? Il Fondo monetario prevede che tra il 2005 ed il 2050 i Paesi emergenti avranno una domanda di 19 miliardi di auto e quelli Ocse di 7. Siamo certi che gli emergenti di oggi si rivolgeranno domani alla produzione del conglomerato che si sta tentando di mettere in vita? Il “canadese” ci rifletta e ce lo spieghi.
Cifre alla mano, la FIAT ha avuto più sangue dai contribuenti di quanto non sia stato, per cosi dire, “donato” dai medesimi all’Alitalia. Se non altro per la più lunga storia e per avere orientato verso il trasporto su gomma tutta la politica italiana delle infrastrutture e dell’industria sin dall’inizio del secolo scorso (quando aviazione civile ed Alitalia non erano ancora nel grembo degli Dei). Chi vuole avere dati precisi, legga i volumi sull’argomento di Valerio Castronuovo, affettuosamente e scherzosamente chiamato “storico di corte” di Corso Marconi, prima, e del Lingotto, poi.
Del “piano Marchionne” sappiamo solo che il “cadanese” (tale ama definirsi al di là delle Alpi ed, a maggior ragione, sull’altra sponda dell’Atantico) ha tirato una castagna dal fuoco a Barack Obama, di cui i sindacati dell’auto sono stati i maggiori sponsor elettorali. Predisposti gli sponsali con la Chrysler, Marchionne si è poi candidato alla guida di parte di quella General Motors (GM) che meno di un lustro fa aveva sborsato due miliardi di dollari pur di rompere il fidanzamento con Torino. La stessa FIAT pareva boccheggiante sino a ieri; il volume di Bruno Costi (recensito a p…... di questo numero del “Dom”) documenta che a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2009 , il Governo Prodi utilizzò in modo ardito il decreto “mille proroghe” per dare una boccata d’ossigeno al Lingotto.
Ora da casa automobilistica “minor” (e malmessa) nel contesto mondiale, il “mago Marchionne” starebbe per fare diventare la FIAT la terza o lo quarta “major”, su piano internazionale, senza aumentare l’indebitamento (tanto più che si prevede un sensibile aumento dei tassi tra un paio d’anni) e grazie ad una serie di fusioni e concentrazioni a titolo gratuito. O quasi.
Ammettiamo che il piano (di cui si conoscono unicamente alcuni aspetti) vada in porto e Marchionne diventi il centro di una rete multinazionale che accorpi la FIAT con ciò che resta della Chrysler e un po’ di spezzatino di GM. Nessuno si inquieta per la perdita di poca o tanta italianità se il cervello si sposta da Torino altrove? Chi scrive ha vissuto per oltre tre lustri negli Usa ed ha una moglie francese; non è quindi un fan preconcetto dell’italianità. E’ però domanda che dovrebbe essere posta (da chi si agitava tanto pochi mesi fa) se non altro poiché è il sottostante del futuro a lungo termine degli stabilimenti localizzati nel nostro Paese.
Quale che sia la risposta a questa domanda , occorre porne una seconda: per quali mercati produrrà la rete con Marchionne al proprio fulcro ed al proprio timone? Il Fondo monetario prevede che tra il 2005 ed il 2050 i Paesi emergenti avranno una domanda di 19 miliardi di auto e quelli Ocse di 7. Siamo certi che gli emergenti di oggi si rivolgeranno domani alla produzione del conglomerato che si sta tentando di mettere in vita? Il “canadese” ci rifletta e ce lo spieghi.
DENIS KRIEF E LA DAMA DI TORINO: SPENDERE POCO MA BENE: Il Domenicale del 230 maggio
A fine maggio, sono andati in scena a Roma ed a Torino due drammi in musica che hanno come tratto in comune di avere avuto la prima rappresentazione a fine Ottocento e richiedere un grande organico orchestrale. Il primo è Pagliacci di Ruggero Leoncavallo (70 minuti di musica, sette solisti, coro, una scena unica- una piazza in un villaggio in Calabria). E’ considerato “il manifesto” del “verismo”, anche in quanto il Prologo ne decanta la poetica. Molto popolare; ne circolano ogni estate edizioni in cui l’organico orchestrale è ridotto a 32 elementi, allo stesso Metropolitan di New York (dove il regista a scenografo dell’edizione romana, Franco Zeffirelli, è di casa) viene eseguita con 70 orchestrali (40 quando la compagnia è nell’annuale tournée). A Torino è in scena, “Dama di Picche” di Pietr Ill’c Cajkovskij , opera poco rappresentata per i costi che di solito il suo allestimento comporta; a Roma negli Anni 90, la sua messa in scena (lo spettacolo veniva in gran misura noleggiato dalla Russia) è stata annullata all’ultima ora poiché, secondo i calcoli del sub-commissario dell’epoca (un Consigliere di Stato) sarebbe stata la goccia finale che avrebbe provocato il dissesto: oltre tre ore di musica, sette quadri, 15 solisti, doppio coro con 100 coristi, un coro di 25 bambini e anche una pantomima pastorale in un quadro di “teatro-nel-teatro”. A Torino, quando si è sentito odor di tagli di bilancio il regista programmato per lo spettacolo (Dmitri Cherniakov) è sparito senza lasciare tracce; il tenore (Misha Didyk, diventato una star internazionale dopo il successo riportato nel 2008 a La Scala ed alla Staatsoper di Berlino nel “Giocatore” di Prokofief) è scomparso pure lui. Eppure i torinesi e il direttore musicale del Regio, Gianandrea Noseda, sono caparbi e, dopo decenni, una loro “Dama di Picche” la volevano: l’ultimo allestimento scenico sotto la Mole, in traduzione ritmica italiana, risaliva al 1963 (al Teatro Nuovo) anche se non sono mancate edizioni in forma di concerto in lingua originale e versione integrale, all’auditorium Rai (la più recente nel 1990). E’ stato chiamato lo scorso aprile il regista franco-tunisino ma di cultura italiana (e di ascendenza triestina) Denis Krief con l’incarico di curare scene, costumi e luci con un budget - pare - equivalente ad un decimo di quello di Pagliacci. E’ stato anche ingaggiato un giovane tenore dall’aspetto prestante ma del tutto sconosciuto al di fuori dei confini della “Grande Madre Russia”- Maksim Aksënov, dal 22 maggio (la prima è stata il 21 maggio) firma scritture con i maggiori teatri occidentali.
Mentre a Roma Pagliacci si sviluppa come uno spettacolo hollywoodiano: duecento persone in scena tra cori e comparse, un cavallo, una lambretta, una moto giapponese, cambi a vista e chi più ne ha più ne metta, ne la Dama torinese, il tormento dei tre protagonisti e la dissoluzione di una società (quella russa alla fine dell’Ottocento) non è rappresentata nel Settecento di maniera previsto dal libretto. Cajkovskij scava nei propri problemi, incluse le proprie passioni carnali, attraverso un Settecento visionario, quale percepito alle soglie del Novecento. Krief afferma di avere concepito lo spettacolo in tre giorni e di averlo realizzato esclusivamente con le maestranze del Regio: una scena unica per i sette quadri, con pochi elementi per accennare ai giardini di San Pietroburgo, ai saloni delle feste, agli appartamenti della Contessa, alle bische, e alle caserme. In breve, una grande piattaforma verde che si scompone per rappresentare l’ossessione del protagonista per il gioco. I costumi se ricordano la fine dell’Ottocento, periodo durante il quale venne composto il lavoro. Il bianco e nero diventa sempre più spettrale di atto in atto e di scena in scena; la stessa bisca in cui termina l’opera appare un lugubre cimitero in cui i giocatori sono fantasmi di una società ormai in decomposizione. Uno spettacolo “low cost ma anche elegantissimo. Un segnale esplicito rivolto ad altri teatri: si può risparmiare senza fare compromessi sulla qualità. In questo senso – ricordiamolo- si stanno muovendo i maggiori teatri tedeschi e francesi. Pure se gli allestimenti gravano relativamente poco sui costi totali è un tassello da non sottovalutare: la battaglia della Marna venne vinta correndo al luogo dello scontro anche in bicicletta.
Mentre a Roma Pagliacci si sviluppa come uno spettacolo hollywoodiano: duecento persone in scena tra cori e comparse, un cavallo, una lambretta, una moto giapponese, cambi a vista e chi più ne ha più ne metta, ne la Dama torinese, il tormento dei tre protagonisti e la dissoluzione di una società (quella russa alla fine dell’Ottocento) non è rappresentata nel Settecento di maniera previsto dal libretto. Cajkovskij scava nei propri problemi, incluse le proprie passioni carnali, attraverso un Settecento visionario, quale percepito alle soglie del Novecento. Krief afferma di avere concepito lo spettacolo in tre giorni e di averlo realizzato esclusivamente con le maestranze del Regio: una scena unica per i sette quadri, con pochi elementi per accennare ai giardini di San Pietroburgo, ai saloni delle feste, agli appartamenti della Contessa, alle bische, e alle caserme. In breve, una grande piattaforma verde che si scompone per rappresentare l’ossessione del protagonista per il gioco. I costumi se ricordano la fine dell’Ottocento, periodo durante il quale venne composto il lavoro. Il bianco e nero diventa sempre più spettrale di atto in atto e di scena in scena; la stessa bisca in cui termina l’opera appare un lugubre cimitero in cui i giocatori sono fantasmi di una società ormai in decomposizione. Uno spettacolo “low cost ma anche elegantissimo. Un segnale esplicito rivolto ad altri teatri: si può risparmiare senza fare compromessi sulla qualità. In questo senso – ricordiamolo- si stanno muovendo i maggiori teatri tedeschi e francesi. Pure se gli allestimenti gravano relativamente poco sui costi totali è un tassello da non sottovalutare: la battaglia della Marna venne vinta correndo al luogo dello scontro anche in bicicletta.
L’HIMALAYA DEL DEBITO Formiche giugno
I tempi ed i modi dell’uscite dalla crisi economica e finanziaria internazionale e dell’allestimento di quello che sarà l’economia internazionale del dopo crisi - non deve fare perdere di vista una caratteristica importante di questi ultimi anni: la crescita esponenziale, ed a ritmi che non hanno precedenti, dell’indebitamento totale (quindi, sia pubblico sia privato) in rapporto alla produzione. Ci sono casi estremi: nell’arco di solamente due anni, a ragione , in gran parte, della dilatazione della spesa pubblica per i “salvataggi bancari”, lo stock di debito dello Stato, degli enti locali e del settore pubblici allargato in senso lato della Gran Bretagna è passato dal 40% all’80% del pil e minaccia di crescere ulteriormente; alcuni Paesi neo-comunitari (ad esempio, l’Ungheria) si sono indebitati da essere alle soglie dell’insolvenza.
Più di questi casi estremi deve preoccupare la tendenza generale. Negli Stati Uniti, a motivo del tasso di risparmio negativo delle famiglie e della forte leva finanziaria con cui hanno operato le imprese (nonché della politica di spesa pubblica per emergenze di ogni sorta e per stimolare la domanda aggregata), a fine 2008 il rapporto debito totale: pil era quasi al 3:1, il doppio di quelle contabilizzato nel 1929 (quando scoppiò la Grande Depressione). Gli altri Paesi Ocse non stanno molto meglio: in Irlanda, Spagna, Australia e Nuova Zelanda, l’espansione del credito totale interno dal 1977 al 2007 a tassi annui superiori al 10% (molto più alti, dunque, di quelli del pil nominale) ha creato montagne di debito totale in proporzione alla produzione che si pongono come un macigno sulla via della ripresa di medio e lungo termine. I dati citati sono rigorosamente quelli di fonti ufficiali che, come è noto, o non tengono conto di forme “innovative” di indebitamento (quali quelle tramite Siv- Special investment vehicles) o gestioni fuori bilancio o le sottostimano. Verosimilmente la situazione è molto peggiore.
Per vedere come uscire dal pasticcio, occorre riflettere su come ci si è cascati. Mi torna in mente un breve saggio pubblicato una ventina di anni orsono, sulla scia della crisi delle Borse dell’autunno 1987. Allora, una spiegazione era nell’”ipotesi dell’instabilità finanziaria” di Hyman Minsky, economista americano morto nel 1996 ed i cui lavori sono stati in gran misura dimenticati. Secondo lo schema di Minsky, i periodi di stabilità e di crescita reale hanno i germi dell’instabilità poiché abbassano l’avversione al rischio e rendono individui, famiglie, imprese,pubbliche amministrazioni e governi più spericolati e, dunque, maggiormente propensi ad indebitarsi per intraprese a rendimento molto contenuto o anche negativo. Minsky vedeva cicli relativamente brevi in cui ad una fase d’instabilità ne seguiva una di tremori e timori che inducevano (per qualche tempo) comportamenti virtuosi. Per poi ricominciare. Il periodo detto di “grande moderazione” che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni (con interruzioni ben localizzate su piano regionale, come la crisi asiatica), esce dallo schema di Minsky in quanto ha portato all’annullamento quasi dell’avversione al rischio: si è diffusa l’opinione che le nuove tecniche di finanza strutturata avrebbero parcellizzato il rischio sino a farlo sparire, causando un indebitamento sempre più marcati- sino a livelli superiori a quelli dei mesi precedenti la Grande Depressione.
Estrapolando dallo schema di Minsky si può dire che per uscire da quello che pare un Himalaya del debito non ci sono che due strade, ambedue irte di pericoli. Se si sceglie (come si fece negli Anni Trenta) un percorso di bassa inflazione, c’è la probabilità di fallimenti a catena ed il pericolo di scivolare nella Depressone. Se si prende il percorso dell’inflazione sostenuta, è fattibile abbattere il debito in modo, però, iniquo: l’inflazione ed il rientro dal debito pesano soprattutto selle fasce a più basso reddito e sulle generazioni giovani (nonché su quelle future). Dato che nel 2009 i maggiori Paesi industrializzati hanno un indebitamente netto delle pubbliche amministrazioni pari al 9% del pil e che la liquidità Usa sta raddoppiando ogni sei mesi pare che sia stato implicitamente scelto il percorso dell’inflazione sostenuta. Con le implicazioni di etica pubblica che ciò comporta. Occorre parlane andando verso il G8 . Ed al G8.
Per saperne di più
Keen S. (2001) Debunking Economcs. The Emperor’s Clothes and the Social Sciences The Pluto Press
Minsky H. (1991) Financial Crisis: Systemic or Idiosincratic Bard College, The Levy Economic Institute n. 51
Pennisi G. (1988) La svolta economica rivelata dal crack in Borsa e La svolta economica: rischi tensioni, opportunità MondOperaio nn. 1 e 2
Più di questi casi estremi deve preoccupare la tendenza generale. Negli Stati Uniti, a motivo del tasso di risparmio negativo delle famiglie e della forte leva finanziaria con cui hanno operato le imprese (nonché della politica di spesa pubblica per emergenze di ogni sorta e per stimolare la domanda aggregata), a fine 2008 il rapporto debito totale: pil era quasi al 3:1, il doppio di quelle contabilizzato nel 1929 (quando scoppiò la Grande Depressione). Gli altri Paesi Ocse non stanno molto meglio: in Irlanda, Spagna, Australia e Nuova Zelanda, l’espansione del credito totale interno dal 1977 al 2007 a tassi annui superiori al 10% (molto più alti, dunque, di quelli del pil nominale) ha creato montagne di debito totale in proporzione alla produzione che si pongono come un macigno sulla via della ripresa di medio e lungo termine. I dati citati sono rigorosamente quelli di fonti ufficiali che, come è noto, o non tengono conto di forme “innovative” di indebitamento (quali quelle tramite Siv- Special investment vehicles) o gestioni fuori bilancio o le sottostimano. Verosimilmente la situazione è molto peggiore.
Per vedere come uscire dal pasticcio, occorre riflettere su come ci si è cascati. Mi torna in mente un breve saggio pubblicato una ventina di anni orsono, sulla scia della crisi delle Borse dell’autunno 1987. Allora, una spiegazione era nell’”ipotesi dell’instabilità finanziaria” di Hyman Minsky, economista americano morto nel 1996 ed i cui lavori sono stati in gran misura dimenticati. Secondo lo schema di Minsky, i periodi di stabilità e di crescita reale hanno i germi dell’instabilità poiché abbassano l’avversione al rischio e rendono individui, famiglie, imprese,pubbliche amministrazioni e governi più spericolati e, dunque, maggiormente propensi ad indebitarsi per intraprese a rendimento molto contenuto o anche negativo. Minsky vedeva cicli relativamente brevi in cui ad una fase d’instabilità ne seguiva una di tremori e timori che inducevano (per qualche tempo) comportamenti virtuosi. Per poi ricominciare. Il periodo detto di “grande moderazione” che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni (con interruzioni ben localizzate su piano regionale, come la crisi asiatica), esce dallo schema di Minsky in quanto ha portato all’annullamento quasi dell’avversione al rischio: si è diffusa l’opinione che le nuove tecniche di finanza strutturata avrebbero parcellizzato il rischio sino a farlo sparire, causando un indebitamento sempre più marcati- sino a livelli superiori a quelli dei mesi precedenti la Grande Depressione.
Estrapolando dallo schema di Minsky si può dire che per uscire da quello che pare un Himalaya del debito non ci sono che due strade, ambedue irte di pericoli. Se si sceglie (come si fece negli Anni Trenta) un percorso di bassa inflazione, c’è la probabilità di fallimenti a catena ed il pericolo di scivolare nella Depressone. Se si prende il percorso dell’inflazione sostenuta, è fattibile abbattere il debito in modo, però, iniquo: l’inflazione ed il rientro dal debito pesano soprattutto selle fasce a più basso reddito e sulle generazioni giovani (nonché su quelle future). Dato che nel 2009 i maggiori Paesi industrializzati hanno un indebitamente netto delle pubbliche amministrazioni pari al 9% del pil e che la liquidità Usa sta raddoppiando ogni sei mesi pare che sia stato implicitamente scelto il percorso dell’inflazione sostenuta. Con le implicazioni di etica pubblica che ciò comporta. Occorre parlane andando verso il G8 . Ed al G8.
Per saperne di più
Keen S. (2001) Debunking Economcs. The Emperor’s Clothes and the Social Sciences The Pluto Press
Minsky H. (1991) Financial Crisis: Systemic or Idiosincratic Bard College, The Levy Economic Institute n. 51
Pennisi G. (1988) La svolta economica rivelata dal crack in Borsa e La svolta economica: rischi tensioni, opportunità MondOperaio nn. 1 e 2
Haydn, per il suo bicentenario la “Creazione” infiamma il mondo, Il Velino 29 maggio
Roma, 29 mag (Velino) - Il 31 maggio 1809 moriva a Vienna il compositore Franz Joseph Haydn. Nato nel piccolo villaggio rurale austriaco di Rohrau nel 1732, aveva vissuto un’esistenza lunga, se rapportata all’aspettativa di vita prevalente nel XVIII secolo, ed operosa: 104 sinfonie, 62 sonate, 70 quartetti 10 concerti, 14 messe, 4 oratori, 20 composizioni vocali di musica sacra, 15 opere, oltre a un numero vastissimo di composizioni da camera per ensemble di piccole dimensioni, come i trii. Aveva anche rivoluzionato, senza darlo a vedere e forse senza rendersene conto, l’estetica musicale del Settecento e segnato il solco di quella dell’Ottocento, specialmente nella sinfonia e nella “forma-sonata” che grazie a lui raggiungessero quella compiutezza rimasta essenzialmente immutata anche nel corso del Novecento. Il bicentenario della morte di Haydn è occasione, in tutto il mondo, per riflettere sul contributo offerto alla storia della musica. Il ministero della Cultura austriaco ha promosso e sta coordinando un evento davvero significativo: il 31 maggio in 20 capitali (dagli antipodi dell’emisfero sud nel bacino del Pacifico, a Washington, fino a Helsinki) verrà suonato contemporaneamente (ovviamente in fusi orari differenti) uno degli oratori più maturi e completi del compositore: “La Creazione”, su testo del poeta inglese Lidley che lo aveva in precedenza sottoposto a Händel, opera che venne eseguita per la prima volta nel 1798 a Vienna nella cappella privata del principe Schwarzenberg.
In Italia, dove “La Creazione” è stata eseguita di recente in varie città (a Roma nel quadro della stagione dell’Accademia di Santa Cecilia), è stata scelta per l’evento del 31 maggio dalle autorità austriache, la giovane Orchestra Sinfonica della Fondazione Roma dell’auditorium di via della Conciliazione, il cui direttore Francesco La Vecchia è diventato a fine aprile il principale maestro concertatore ospite dei Berliner Symphoniker. L’Orchestra Sinfonica della Fondazione Roma ha dedicato un ciclo di sette concerti al bicentenario di Haydn e ora “La Creazione” si colloca come coronamento e conclusione di questa iniziativa. “La Creazione”, ispirato in parte, specialmente nelle ultime sezioni, al “Paradiso Peduto” di Milton, è un lavoro monumentale che, pur se scritto e composto per essere eseguito in chiesa o in una sala da concerto, si presta pure a rappresentazione scenica. Nella prima e nella seconda parte, si descrivono i sei giorni della creazione; nella terza viene raffigurata la felicità dell’Eden e si svolgono ampi duetti tra Adamo ed Eva.
Il racconto della creazione è disposto in modo che nella prima parte, Raffaele e Uriel narrino i primi quattro giorni; nella seconda, il quinto e il sesto. Mentre il primo giorno ha quasi carattere di preludio e si distingue per la straordinaria originalità con cui viene descritto il caos (uno dei brani più ingegnosi di tutta la letteratura musicale), gli altri seguono la Bibbia puntualmente. Le arie, i duetti e i terzetti sono collegati da ampi recitativi accompagnati. Molto interessante la tecnica con cui vengono elencati i singoli animali, preceduti da una loro “rappresentazione” musicale che oggi può apparire un po’ ingenua, ma che alla fine del Settecento ebbe un carattere profondamente innovativo e giunse a influenzare anche Wagner (si pensi al secondo atto del “Sigfrido”). In alcune esecuzioni, la terza parte, considerata una sorta d’appendice, viene soppressa del tutto. Invece, non solo è essenziale all’architettura complessiva del lavoro, ma contiene il più complesso “doppio-duetto” d’amore composto da Haydn. Il primo è un “adagio” seguito da un breve e brillante rondò. Il secondo un “adagio” seguito da un “allegretto”: un’impostazione originalissima per fondere al tempo stesso l’amor sacro con l’amor profano. Per la maratona del 31 maggio il consiglio è di tenere la radio sintonizzata sulle varie esecuzioni de “La Creazione”, mentre i romani colgano questa occasione per correre all’auditorium di via della Conciliazione.
(Hans Sachs) 29 mag 2009 10:37
In Italia, dove “La Creazione” è stata eseguita di recente in varie città (a Roma nel quadro della stagione dell’Accademia di Santa Cecilia), è stata scelta per l’evento del 31 maggio dalle autorità austriache, la giovane Orchestra Sinfonica della Fondazione Roma dell’auditorium di via della Conciliazione, il cui direttore Francesco La Vecchia è diventato a fine aprile il principale maestro concertatore ospite dei Berliner Symphoniker. L’Orchestra Sinfonica della Fondazione Roma ha dedicato un ciclo di sette concerti al bicentenario di Haydn e ora “La Creazione” si colloca come coronamento e conclusione di questa iniziativa. “La Creazione”, ispirato in parte, specialmente nelle ultime sezioni, al “Paradiso Peduto” di Milton, è un lavoro monumentale che, pur se scritto e composto per essere eseguito in chiesa o in una sala da concerto, si presta pure a rappresentazione scenica. Nella prima e nella seconda parte, si descrivono i sei giorni della creazione; nella terza viene raffigurata la felicità dell’Eden e si svolgono ampi duetti tra Adamo ed Eva.
Il racconto della creazione è disposto in modo che nella prima parte, Raffaele e Uriel narrino i primi quattro giorni; nella seconda, il quinto e il sesto. Mentre il primo giorno ha quasi carattere di preludio e si distingue per la straordinaria originalità con cui viene descritto il caos (uno dei brani più ingegnosi di tutta la letteratura musicale), gli altri seguono la Bibbia puntualmente. Le arie, i duetti e i terzetti sono collegati da ampi recitativi accompagnati. Molto interessante la tecnica con cui vengono elencati i singoli animali, preceduti da una loro “rappresentazione” musicale che oggi può apparire un po’ ingenua, ma che alla fine del Settecento ebbe un carattere profondamente innovativo e giunse a influenzare anche Wagner (si pensi al secondo atto del “Sigfrido”). In alcune esecuzioni, la terza parte, considerata una sorta d’appendice, viene soppressa del tutto. Invece, non solo è essenziale all’architettura complessiva del lavoro, ma contiene il più complesso “doppio-duetto” d’amore composto da Haydn. Il primo è un “adagio” seguito da un breve e brillante rondò. Il secondo un “adagio” seguito da un “allegretto”: un’impostazione originalissima per fondere al tempo stesso l’amor sacro con l’amor profano. Per la maratona del 31 maggio il consiglio è di tenere la radio sintonizzata sulle varie esecuzioni de “La Creazione”, mentre i romani colgano questa occasione per correre all’auditorium di via della Conciliazione.
(Hans Sachs) 29 mag 2009 10:37
giovedì 28 maggio 2009
LA RIPRESA IN EUROPA SI AGGANCIA AUMENTANDO SALARI ED OFFERTA INTERNA, Avvenire 28 maggio
Giuseppe Pennisi
Gli Stati Uniti ed, in minor misura, la Gran Bretagna sono l’epicentro del sisma finanziario ed economico mondiale in corso, con sussulti di vari gradi d’intensità, dalla metà del 2007. L’Europa continentale è, però, l’area dove il sisma morde di più e gli sciami saranno più duraturi. Eloquenti le previsioni del “consensus” (20 istituti di analisi econometrica internazionale, tutti privati nessuno italiano) diramate il 23 maggio: nell’anno in corso, il pil dell’area dell’euro avrà una contrazione del 4% rispetto ad una del 2,7 stimata per il Nord America; nel 2010, nell’area dell’euro si segnerà un incremento del pil appena dello 0,3% (ed a partire dall’autunno), mentre nel Nord America la ripresa sarà dell’1,5% (ed inizierà in primavera).A fine 2010, Europa continentale e Nord America avranno tassi di disoccupazione quasi identici (tendenti al 10% delle forze lavoro) .
Cosa spiega questa divergenza? In primo luogo – lo sottolinea efficacemente un saggio di Pier Carlo Padoan e Paolo Guerrieri appena pubblicato da “Il Mulino” – la strategia di crescita dell’Europa continentale è da decenni fondata sull’export di manufatti come motore di sviluppo; quindi il Vecchio Continente è (con il Giappone) l’area che reagisce di più ad un crollo a picco dell’esportazioni mondiali (-9% stimato per quest’anno). In secondo luogo, negli ultimi dieci anni, le disparità tra redditi di lavoro e redditi da capitale sono aumentate (nonostante “il modello sociale europeo”) nel Vecchio Continente che in Nord America: dati OCSE mostrano che in Europa continentale, in termini reali i redditi medi da lavoro sono rimasti stazionari (e quelli delle fasce più basse diminuiti) mentre quelli da capitale sono cresciuti del 25% circa. Da un lato, quindi, l’export da traino è diventato freno. Dall’altro, redditi da lavoro stazionari (od in decremento) incidono negativamente sulla domanda interna, specialmente di beni di consumo durevole di massa (si differiscono gli acquisti di elettrodomestici, di abbigliamento, di auto in attesa di tempi migliori e si tenta, almeno, di avere risorse, sino a fine mese, per il fitto – o il mutuo- il pranzo e la cena).
L’ideogramma che in cinese vuol dire crisi, se capovolto significa opportunità. Dunque, la crisi può e deve essere un’occasione per ripensare il modello di crescita dell’Europa continentale. Non abbandonare il manifatturiero tramite una politica di de-industrializzazione e finanziarizzazione come fatto dalla Gran Bretagna negli Anni 90 – la premessa che oggi la ha posta al centro della crisi. Ma ri-orientare la struttura industriale verso fabbisogni e consumi interni: meno accento sull’export e maggiore enfasi sull’utilizzazione di nuove tecnologie per il capitale umano e sociale (telemedicina, teleformazione), su prodotti per i servizi alla persona ed alla famiglia (essenziali in un’area afflitta da invecchiamento e bassa natalità), su energie alternative ed eco-compatibili. Tale ri-orientamento dal lato dell’offerta avrebbe, però, risultati modesti senza un aumento della domanda interna. Quindi, di un maggiore equilibrio tra i redditi da lavoro e quelli da capitale con attenzione specialmente alla fasce più deboli. Questi temi dovrebbero al centro delle ormai imminenti elezioni europee. Ma in Italia come altrove, di tutto sembra che si discuta tranne che di ciò che riguarda il nostro futuro.
Gli Stati Uniti ed, in minor misura, la Gran Bretagna sono l’epicentro del sisma finanziario ed economico mondiale in corso, con sussulti di vari gradi d’intensità, dalla metà del 2007. L’Europa continentale è, però, l’area dove il sisma morde di più e gli sciami saranno più duraturi. Eloquenti le previsioni del “consensus” (20 istituti di analisi econometrica internazionale, tutti privati nessuno italiano) diramate il 23 maggio: nell’anno in corso, il pil dell’area dell’euro avrà una contrazione del 4% rispetto ad una del 2,7 stimata per il Nord America; nel 2010, nell’area dell’euro si segnerà un incremento del pil appena dello 0,3% (ed a partire dall’autunno), mentre nel Nord America la ripresa sarà dell’1,5% (ed inizierà in primavera).A fine 2010, Europa continentale e Nord America avranno tassi di disoccupazione quasi identici (tendenti al 10% delle forze lavoro) .
Cosa spiega questa divergenza? In primo luogo – lo sottolinea efficacemente un saggio di Pier Carlo Padoan e Paolo Guerrieri appena pubblicato da “Il Mulino” – la strategia di crescita dell’Europa continentale è da decenni fondata sull’export di manufatti come motore di sviluppo; quindi il Vecchio Continente è (con il Giappone) l’area che reagisce di più ad un crollo a picco dell’esportazioni mondiali (-9% stimato per quest’anno). In secondo luogo, negli ultimi dieci anni, le disparità tra redditi di lavoro e redditi da capitale sono aumentate (nonostante “il modello sociale europeo”) nel Vecchio Continente che in Nord America: dati OCSE mostrano che in Europa continentale, in termini reali i redditi medi da lavoro sono rimasti stazionari (e quelli delle fasce più basse diminuiti) mentre quelli da capitale sono cresciuti del 25% circa. Da un lato, quindi, l’export da traino è diventato freno. Dall’altro, redditi da lavoro stazionari (od in decremento) incidono negativamente sulla domanda interna, specialmente di beni di consumo durevole di massa (si differiscono gli acquisti di elettrodomestici, di abbigliamento, di auto in attesa di tempi migliori e si tenta, almeno, di avere risorse, sino a fine mese, per il fitto – o il mutuo- il pranzo e la cena).
L’ideogramma che in cinese vuol dire crisi, se capovolto significa opportunità. Dunque, la crisi può e deve essere un’occasione per ripensare il modello di crescita dell’Europa continentale. Non abbandonare il manifatturiero tramite una politica di de-industrializzazione e finanziarizzazione come fatto dalla Gran Bretagna negli Anni 90 – la premessa che oggi la ha posta al centro della crisi. Ma ri-orientare la struttura industriale verso fabbisogni e consumi interni: meno accento sull’export e maggiore enfasi sull’utilizzazione di nuove tecnologie per il capitale umano e sociale (telemedicina, teleformazione), su prodotti per i servizi alla persona ed alla famiglia (essenziali in un’area afflitta da invecchiamento e bassa natalità), su energie alternative ed eco-compatibili. Tale ri-orientamento dal lato dell’offerta avrebbe, però, risultati modesti senza un aumento della domanda interna. Quindi, di un maggiore equilibrio tra i redditi da lavoro e quelli da capitale con attenzione specialmente alla fasce più deboli. Questi temi dovrebbero al centro delle ormai imminenti elezioni europee. Ma in Italia come altrove, di tutto sembra che si discuta tranne che di ciò che riguarda il nostro futuro.
mercoledì 27 maggio 2009
IL MURO CHE FRENA MARCHIONNE Il Tempo del 28 bmaggio
Se il buon giorno si vede dal mattino, le complicazioni della trattativa per la partnership della Fiat con l’Opel (la forma giuridica non è ancora particolarmente chiara) non promettono un esito nella direziona auspicato dal Lingotto. Cerchiamo di capire quali sono le determinanti analizzando sia informazioni note da tempo sia dati freschi che provengono dal mondo politico e finanziario tedesco:
Il primo ostacolo è al Ministero dell’Economia. Il Ministro Karl-Theodor zu Guttemberg non cela di non avere fiducia nel risanamento della FIAT che sarebbe stato effettuato grazie alla regia di Sergio Marchionne. I suoi uffici gli hanno fatto notare che nel “Milleprororoghe” italiano del 2007 (sul 2008), presentato dal Governo Prodi”in “articulo mortis” si prevedeva un’estensione della “rottamazione” proprio per dare ossigeno al Lingotto(a spese dei contribuenti italiani). Nessuno (tranne che nei libri di favole) dispone di bacchetta magica per una svolta così rapida) Inoltre, è la personalità stessa dell’italo-canadese (e i suoi rapporti con ambienti italo-canadesi), nonché l’illazione (forse messa in giro artatamente) che Marchionne sarebbe superstizioso (il maglioncino, dicono le malelingue, servirebbe da amuleto), che poco collimano con le abitudini e le frequentazioni dell’aristocratico giovane Ministro tedesco. In breve, per zu Guttemberg si tratterebbe di un bluff allo scopo di ritardare l’agonia della Opel e spillare risorse ai contribuenti tedeschi.
Il secondo ostacolo sono gli stretti rapporti (in effetti genetici) tra il Partito Socialdemocratico ed i sindacati, specialmente della metalmeccanica. Per questi ultimi è chiaro che in Europa si è in una crisi strutturale di produzione eccessiva: l’UE a 27 ha il 10% della popolazione mondiale ma il 30% della produzione di auto (mentre Cina ed India stanno puntando forte del settore – la “Nano” della Tata costa, su strada, 2600 dollari in versione supereconomica e 4000 in versione “de luxe” con aria condizionata). La FIAT – sostengono- non è mai stata chiara su dove i 18.000 o 10.000 posti di lavoro verranno tagliati; temono che in un gruppo la cui testa è a Torino, la Germania sarà costretta a pagare un costo elevato.
In terzo ostacolo è la localizzazione dei 10 impianti Opel in una manciata di Länder dove alle prossime elezioni di settembre le maggioranze sono in bilico – pure a ragione del complesso sistema elettorale della Repubblica Federale. Perché regalarle al non tanto folto partito pro-FIAT, mentre si può gradualmente passare attraverso una procedura fallimentare e la cessione di singoli rami d’azienda, accontentando medie aziende locali?
Il quarto ostacolo è finanziario. All’Ifo (il più autorevole istituto tedesco di analisi economica) e nelle maggiori banche si ritiene che tra un paio d’anni si andrà verso un considerevole aumento dei tassi nel Nord America ed in Europa. La FIAT non porta cash (contante) ma chiede prestiti ed ostenta la qualità delle proprie attività intangibili (sinergie, tecnologie). La Magna International arriva con una valigia piena di banconote. Il percorso del fallimento pilotato della Opel (che molti tedeschi preferiscono) non richiede moneta, ma neanche nozze.
Il primo ostacolo è al Ministero dell’Economia. Il Ministro Karl-Theodor zu Guttemberg non cela di non avere fiducia nel risanamento della FIAT che sarebbe stato effettuato grazie alla regia di Sergio Marchionne. I suoi uffici gli hanno fatto notare che nel “Milleprororoghe” italiano del 2007 (sul 2008), presentato dal Governo Prodi”in “articulo mortis” si prevedeva un’estensione della “rottamazione” proprio per dare ossigeno al Lingotto(a spese dei contribuenti italiani). Nessuno (tranne che nei libri di favole) dispone di bacchetta magica per una svolta così rapida) Inoltre, è la personalità stessa dell’italo-canadese (e i suoi rapporti con ambienti italo-canadesi), nonché l’illazione (forse messa in giro artatamente) che Marchionne sarebbe superstizioso (il maglioncino, dicono le malelingue, servirebbe da amuleto), che poco collimano con le abitudini e le frequentazioni dell’aristocratico giovane Ministro tedesco. In breve, per zu Guttemberg si tratterebbe di un bluff allo scopo di ritardare l’agonia della Opel e spillare risorse ai contribuenti tedeschi.
Il secondo ostacolo sono gli stretti rapporti (in effetti genetici) tra il Partito Socialdemocratico ed i sindacati, specialmente della metalmeccanica. Per questi ultimi è chiaro che in Europa si è in una crisi strutturale di produzione eccessiva: l’UE a 27 ha il 10% della popolazione mondiale ma il 30% della produzione di auto (mentre Cina ed India stanno puntando forte del settore – la “Nano” della Tata costa, su strada, 2600 dollari in versione supereconomica e 4000 in versione “de luxe” con aria condizionata). La FIAT – sostengono- non è mai stata chiara su dove i 18.000 o 10.000 posti di lavoro verranno tagliati; temono che in un gruppo la cui testa è a Torino, la Germania sarà costretta a pagare un costo elevato.
In terzo ostacolo è la localizzazione dei 10 impianti Opel in una manciata di Länder dove alle prossime elezioni di settembre le maggioranze sono in bilico – pure a ragione del complesso sistema elettorale della Repubblica Federale. Perché regalarle al non tanto folto partito pro-FIAT, mentre si può gradualmente passare attraverso una procedura fallimentare e la cessione di singoli rami d’azienda, accontentando medie aziende locali?
Il quarto ostacolo è finanziario. All’Ifo (il più autorevole istituto tedesco di analisi economica) e nelle maggiori banche si ritiene che tra un paio d’anni si andrà verso un considerevole aumento dei tassi nel Nord America ed in Europa. La FIAT non porta cash (contante) ma chiede prestiti ed ostenta la qualità delle proprie attività intangibili (sinergie, tecnologie). La Magna International arriva con una valigia piena di banconote. Il percorso del fallimento pilotato della Opel (che molti tedeschi preferiscono) non richiede moneta, ma neanche nozze.
Meglio raffrontare il Dpef con il Ruef Il Pil italiano crolla ma una Finanziaria bis sarebbe una trappola. L'Occidentale 26 maggio
Anche se non è ancora passata molta acqua sotto i ponti del Tevere dal giorno in cui il Governo ha presentato il Dpef-2009 -2013 e la pertinente manovra di correzione della finanza pubblica, la crisi finanziaria ed economica attraversate dall’economia internazionale hanno cambiato drasticamente il quadro, sia macro-economico sia micro-economico, rispetto all’estate scorsa. Tanto che nei corridoi del Palazzo si chiede se non sia il caso di far seguire il Ruef (Rapporto unificato di economia e finanza pubblica) da una nuova manovra di aggiustamento da presentare al Parlamento dopo le elezioni europee – una vera e propria finanziaria bis sul tipo di quelle consuete negli Anni Ottanta e Novanta.
Vale la pena perseguire questa strada? Oppure i rischi superano le eventuali opportunità? Si tratta di “rumors” che per il momento non trovano alcun riscontro a Via Venti Settembre , dove la manovra dovrebbe essere allestita prima di essere discussa con i Ministeri di spesa e finire sul tavolo del Consiglio dei Ministri.
Le più recenti previsioni (22 maggio) dei 20 centri di ricerca econometrica (tutti privati , nessuno italiano) stimano al 4% la contrazione del pil dell’Italia nell’anno in corso (dopo una contrazione dell’1% nel 2008) e una lenta ripresa nel 2010 (1%) rispetto ai minuscoli aumenti (0,5-0,3%) previsti, quando è stato approntato il Dpef, rispettivamente per il 2008 ed il 2009 ed un miglioramento più sostenuto (1,5%) preconizzati per il 2010. Altre stime – ad esempio, Fmi- affermano che nell’anno in corso la caduta del pil dell’Italia sarà del 5%. Altre ancora arrivano al 5,5% ed una prosecuzione di tassi negativi nel 2010. Senza dubbio, saggi di crescita negativi di queste dimensioni non possono non avere effetti sul debito pubblico (gli ultimi dati Bankitalia avvertono che lo stock ha raggiunto nuovi record) e sulle entrate fiscali e parafiscali (che esporrebbero una riduzione del 5% rispetto a quanto stimato nel Dpef). Si potrebbero citare altri dati: la settimana che inizia il 25 maggio, terranno banco quelli dell’Istat. Tuttavia, troppa attenzione a questo od a quell’indicatore ci fanno dimenticare che sono spesso non omogenei o per natura della costruzione dell’indice o per il tasso temporale che ciascuno di essi copre.
Quindi, è bene raffrontare il Dpef con il Ruef – documenti omogenei e redatti dalle stesse mani. Il Ruef non è un documento programmatico – nel suo recente libro Alla ricerca dell’economia perduta: le proposte di politica economica in Italia dal 2001 al 2008, Bruno Costi passa in meticolosa rassegna i documenti formulati nel primo decennio di questo secolo per concludere che si tratta di “buone intenzioni” da giustapporre al “realismo solitamente consegnato alla finanziaria ed al bilancio”. E’, invece, un’analisi degli andamenti economiche che può o non po’ contenere indicazioni di politica legislativa.
Il Ruef di fine aprile stima un indebitamento netto della p.a. per il 2009 al 4,7% con un aumento di oltre punto percentuale circa rispetto a quanto previsto dal Dpef. La determinante, però, non sarebbe unicamente il calo delle entrate (in relazione alla contrazione del pil) ma anche la conclusione più rapida (di quanto inizialmente stimato) di alcuni rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, la riduzione dei tempi per il pagamento di debiti della PA verso le imprese ed altre misure orientate allo sviluppo. Tanto l’aumento dello stock di debito quanto l’incremento del rapporto indebitamento-pil superano i vincoli posti dal “patto di stabilità”; ma tutti i Paesi dell’area dell’euro soffrono di problemi analoghi e l’interpretazione del “patto” effettuata dall’Eurogruppo nel marzo 2005 (in sostanza un allentamento dei vincoli in caso di recessione). Il Reuf preconizza anche un graduale miglioramento nel 2010-2011, ma avverte che si opera in un contesto d’incertezza.
E’ questo il punto centrale. L’incertezza è molto differente dal rischio (i cui effetti possono essere quantizzati facendo ricorso a tecniche, più o meno complicate, di calcolo delle probabilità). Per quantizzare l’incertezza occorre fare ricorso a metodiche non semplice, e non condivise nella zona dell’euro, di “opzioni reali”; le esperienze effettuate, poi, riguardano investimenti e programma ben precisi non l’intera gamma delle politiche pubbliche, il sottostante di una eventuale finanziaria bis.
D’altro canto, navigando a vista, una finanziaria bis sarebbe irta di trappole – sia di imboscate sia di emendamenti particolaristici. Meglio continuare sulla strada degli aggiustamenti, in gran misura a carattere amministrativo non normativo, in corso d’opera in attesa che il quadro internazionale sia più chiaro.
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Vale la pena perseguire questa strada? Oppure i rischi superano le eventuali opportunità? Si tratta di “rumors” che per il momento non trovano alcun riscontro a Via Venti Settembre , dove la manovra dovrebbe essere allestita prima di essere discussa con i Ministeri di spesa e finire sul tavolo del Consiglio dei Ministri.
Le più recenti previsioni (22 maggio) dei 20 centri di ricerca econometrica (tutti privati , nessuno italiano) stimano al 4% la contrazione del pil dell’Italia nell’anno in corso (dopo una contrazione dell’1% nel 2008) e una lenta ripresa nel 2010 (1%) rispetto ai minuscoli aumenti (0,5-0,3%) previsti, quando è stato approntato il Dpef, rispettivamente per il 2008 ed il 2009 ed un miglioramento più sostenuto (1,5%) preconizzati per il 2010. Altre stime – ad esempio, Fmi- affermano che nell’anno in corso la caduta del pil dell’Italia sarà del 5%. Altre ancora arrivano al 5,5% ed una prosecuzione di tassi negativi nel 2010. Senza dubbio, saggi di crescita negativi di queste dimensioni non possono non avere effetti sul debito pubblico (gli ultimi dati Bankitalia avvertono che lo stock ha raggiunto nuovi record) e sulle entrate fiscali e parafiscali (che esporrebbero una riduzione del 5% rispetto a quanto stimato nel Dpef). Si potrebbero citare altri dati: la settimana che inizia il 25 maggio, terranno banco quelli dell’Istat. Tuttavia, troppa attenzione a questo od a quell’indicatore ci fanno dimenticare che sono spesso non omogenei o per natura della costruzione dell’indice o per il tasso temporale che ciascuno di essi copre.
Quindi, è bene raffrontare il Dpef con il Ruef – documenti omogenei e redatti dalle stesse mani. Il Ruef non è un documento programmatico – nel suo recente libro Alla ricerca dell’economia perduta: le proposte di politica economica in Italia dal 2001 al 2008, Bruno Costi passa in meticolosa rassegna i documenti formulati nel primo decennio di questo secolo per concludere che si tratta di “buone intenzioni” da giustapporre al “realismo solitamente consegnato alla finanziaria ed al bilancio”. E’, invece, un’analisi degli andamenti economiche che può o non po’ contenere indicazioni di politica legislativa.
Il Ruef di fine aprile stima un indebitamento netto della p.a. per il 2009 al 4,7% con un aumento di oltre punto percentuale circa rispetto a quanto previsto dal Dpef. La determinante, però, non sarebbe unicamente il calo delle entrate (in relazione alla contrazione del pil) ma anche la conclusione più rapida (di quanto inizialmente stimato) di alcuni rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, la riduzione dei tempi per il pagamento di debiti della PA verso le imprese ed altre misure orientate allo sviluppo. Tanto l’aumento dello stock di debito quanto l’incremento del rapporto indebitamento-pil superano i vincoli posti dal “patto di stabilità”; ma tutti i Paesi dell’area dell’euro soffrono di problemi analoghi e l’interpretazione del “patto” effettuata dall’Eurogruppo nel marzo 2005 (in sostanza un allentamento dei vincoli in caso di recessione). Il Reuf preconizza anche un graduale miglioramento nel 2010-2011, ma avverte che si opera in un contesto d’incertezza.
E’ questo il punto centrale. L’incertezza è molto differente dal rischio (i cui effetti possono essere quantizzati facendo ricorso a tecniche, più o meno complicate, di calcolo delle probabilità). Per quantizzare l’incertezza occorre fare ricorso a metodiche non semplice, e non condivise nella zona dell’euro, di “opzioni reali”; le esperienze effettuate, poi, riguardano investimenti e programma ben precisi non l’intera gamma delle politiche pubbliche, il sottostante di una eventuale finanziaria bis.
D’altro canto, navigando a vista, una finanziaria bis sarebbe irta di trappole – sia di imboscate sia di emendamenti particolaristici. Meglio continuare sulla strada degli aggiustamenti, in gran misura a carattere amministrativo non normativo, in corso d’opera in attesa che il quadro internazionale sia più chiaro.
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martedì 26 maggio 2009
Zeffirelli’s New “Pagliacci” Without “Cav” But With Motorbikes OPERA TODAY 26 MAGGIO
26 May 2009
The new Franco Zeffirelli’s production of Ruggero Leoncavallo “Pagliacci” reached the Teatro dell’Opera di Rome on May 19 : I will be on stage in the Italian capital every night until May 27th . Then, it will continue a worldwide tour: its debut was in Florence in the 2008 Fall. It has already visited Moscow and Athens. It is rumored to reach the MET next seasons.
Zeffirelli’s New “Pagliacci” Witout “Cav” But With Motorbikes
Nedda: Myrtò Papatanasiu (19, 21, 24, 27) / Susanna Branchini (20, 23, 26) / Mina Yamazaki (22); Canio: Stuart Neill (19, 21, 23, 24, 26) / Renzo Zulian (20, 22, 27); Tonio: Seng-Hyoun Ko (19, 21, 23, 26) / Silvio Zanon (20, 22, 24, 27); Silvio: Domenico Balzani (19, 21, 24) / Pierluigi Dilengite (20, 23, 26) / Gianpiero Ruggeri (22, 27); Peppe: Danilo Formaggia (19, 21, 23, 26, 27) / Cristiano Olivieri (20, 22, 24); A Farmer: Giordano Massaro (19, 21, 23, 26) / Vinicio Cecere (20, 22, 24, 27); A Second Farmer: Antonio Taschini (19, 21, 23, 26) / Andrea Buratti (20, 22, 24, 27). Condustor: Gianluigi Gelmetti. Chorus Master: Andrea Giorgi. Stage director and set designer: Franco Zeffirelli. Costumes: Raimonda Gaetani. Lighting: Agostino Angelini. Orchestra and Chorus of Teatro Dell’Opera.
Photos by Marco Serri
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Leoncavallo never attained anything else remotely approaching the success of “Pagliacci”, though he wrote a dozen of other operas and operettas. “Pagliacci” is normally plaid in a double bill with Pietro Mascagni’s “Cavalleria Rusticana”, as they are both short and kindred in spirit. Artistically, the combination represents the apex of the Italian “veristic” movement; commercially the double bill constitutes a salable “ham and eggs” staple for many an opera house. The “Pagliacci”’s Prologue is considered the very “manifesto” of “verismo” aesthetics It is known that Mascagni never appreciated the idea of the double bill. Zeffirelli broadly agrees with him. Albeit he has staged “Cav” and “Pag” in several theatres , including the “Met”, and also directed a movie with the two operas, most recently he has produced different versions of “Pagliacci” either alone or with a ballet (to fill the evening; “Pagliacci” lasts 70 minutes). In the 1980s, for instance, in a La Scala production, Zeffirelli placed the plot during Italian fascism and completed the performance with the Nino Rota ballet “La Strada” (after Federico Fellini’s movie). In the 1990s, in Rome “Pag” was a stand-alone show; the plot was placed under a highway bridge or by-pass in Southern Italy. In this new production, “Pagliacci” is a blighted Neapolitan suburbs where motorbikes (“lambrettas”, but also high speed Japanese motos) cross the stage, prostitutes of all races sell their ware, drug pushers are in the crowd of nearly 200 (double chorus, children chorus, extras).
The show is grand and also elegant and with Zeffirelli’s usual care for details. There is a special feature in the staging : the first act is quasi-neorealistic (inspired by Rossellini and De Sica movies of the 1940s); the second act is fellinian (viz in an atmosphere of Fellini’s movies). A real touch of genius which shows how Leoncavallo, although assertive “verista”, was approaching visionary expressionistic lands.
There a very close entente with the musical director Gianluigi Gelmetti whose wand demonstrate how brilliant is the score (in spite of what some reviewers starte); the use of motif’s point to Wagner’s influence (also present in the Canio’s role), the melodies are subtle and well-judged, the orchestra is used with elegance and the choruses (in Rome under the guidance of Andrea Giorgi) well-polished. The Prologue is a real stroke of genius. Gelmetti underscored the rhythmic élan of the main theme whilst Zeffirelli had the curtain abruptly torn aside to carry the audience into the kaleidoscopic world of the strolling players. The perfect “unison” between director and conductor adds value to the agonizing sorrow when Canio (Stuart Neill) takes on the second main them , his desperate “Ridi, Pagliacci”. Finally, the Colombin play is performed as it should be : a self-contained musical jewel with dance-like style including Nedda-Colombina (Myrtà Papatanasiu) minuet, Taddeo (Seng-Yyun Ko) light hearted waltz tune and duet where the comic parody has as undertone the dramatic thematic accompanied from the same scene in the first act and the underlying seriousness is clearly suggested.
The orchestra responded very well to the challenge of giving a demonstration that “Pagliacci” is not a second class score for cheap summer performances by travelling companies moving from resort to resort but a XX century masterpiece. Stuart Neill is big generous American tenor with the voice to fill the huge Teatro dell’Opera; his timbre is very clear and his acting better suited to Canio than to La Scala recent “Don Carlo” Myrtà Papatanasiu is a good soprano with a very nice voice emission but lacks the volume required by the Teatro dell’Opera. Effectuive Seng-Yyun Ko and the other.
The audience was thrilled as shown by the many curtain calls
Giuseppe Pennisi
The new Franco Zeffirelli’s production of Ruggero Leoncavallo “Pagliacci” reached the Teatro dell’Opera di Rome on May 19 : I will be on stage in the Italian capital every night until May 27th . Then, it will continue a worldwide tour: its debut was in Florence in the 2008 Fall. It has already visited Moscow and Athens. It is rumored to reach the MET next seasons.
Zeffirelli’s New “Pagliacci” Witout “Cav” But With Motorbikes
Nedda: Myrtò Papatanasiu (19, 21, 24, 27) / Susanna Branchini (20, 23, 26) / Mina Yamazaki (22); Canio: Stuart Neill (19, 21, 23, 24, 26) / Renzo Zulian (20, 22, 27); Tonio: Seng-Hyoun Ko (19, 21, 23, 26) / Silvio Zanon (20, 22, 24, 27); Silvio: Domenico Balzani (19, 21, 24) / Pierluigi Dilengite (20, 23, 26) / Gianpiero Ruggeri (22, 27); Peppe: Danilo Formaggia (19, 21, 23, 26, 27) / Cristiano Olivieri (20, 22, 24); A Farmer: Giordano Massaro (19, 21, 23, 26) / Vinicio Cecere (20, 22, 24, 27); A Second Farmer: Antonio Taschini (19, 21, 23, 26) / Andrea Buratti (20, 22, 24, 27). Condustor: Gianluigi Gelmetti. Chorus Master: Andrea Giorgi. Stage director and set designer: Franco Zeffirelli. Costumes: Raimonda Gaetani. Lighting: Agostino Angelini. Orchestra and Chorus of Teatro Dell’Opera.
Photos by Marco Serri
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Leoncavallo never attained anything else remotely approaching the success of “Pagliacci”, though he wrote a dozen of other operas and operettas. “Pagliacci” is normally plaid in a double bill with Pietro Mascagni’s “Cavalleria Rusticana”, as they are both short and kindred in spirit. Artistically, the combination represents the apex of the Italian “veristic” movement; commercially the double bill constitutes a salable “ham and eggs” staple for many an opera house. The “Pagliacci”’s Prologue is considered the very “manifesto” of “verismo” aesthetics It is known that Mascagni never appreciated the idea of the double bill. Zeffirelli broadly agrees with him. Albeit he has staged “Cav” and “Pag” in several theatres , including the “Met”, and also directed a movie with the two operas, most recently he has produced different versions of “Pagliacci” either alone or with a ballet (to fill the evening; “Pagliacci” lasts 70 minutes). In the 1980s, for instance, in a La Scala production, Zeffirelli placed the plot during Italian fascism and completed the performance with the Nino Rota ballet “La Strada” (after Federico Fellini’s movie). In the 1990s, in Rome “Pag” was a stand-alone show; the plot was placed under a highway bridge or by-pass in Southern Italy. In this new production, “Pagliacci” is a blighted Neapolitan suburbs where motorbikes (“lambrettas”, but also high speed Japanese motos) cross the stage, prostitutes of all races sell their ware, drug pushers are in the crowd of nearly 200 (double chorus, children chorus, extras).
The show is grand and also elegant and with Zeffirelli’s usual care for details. There is a special feature in the staging : the first act is quasi-neorealistic (inspired by Rossellini and De Sica movies of the 1940s); the second act is fellinian (viz in an atmosphere of Fellini’s movies). A real touch of genius which shows how Leoncavallo, although assertive “verista”, was approaching visionary expressionistic lands.
There a very close entente with the musical director Gianluigi Gelmetti whose wand demonstrate how brilliant is the score (in spite of what some reviewers starte); the use of motif’s point to Wagner’s influence (also present in the Canio’s role), the melodies are subtle and well-judged, the orchestra is used with elegance and the choruses (in Rome under the guidance of Andrea Giorgi) well-polished. The Prologue is a real stroke of genius. Gelmetti underscored the rhythmic élan of the main theme whilst Zeffirelli had the curtain abruptly torn aside to carry the audience into the kaleidoscopic world of the strolling players. The perfect “unison” between director and conductor adds value to the agonizing sorrow when Canio (Stuart Neill) takes on the second main them , his desperate “Ridi, Pagliacci”. Finally, the Colombin play is performed as it should be : a self-contained musical jewel with dance-like style including Nedda-Colombina (Myrtà Papatanasiu) minuet, Taddeo (Seng-Yyun Ko) light hearted waltz tune and duet where the comic parody has as undertone the dramatic thematic accompanied from the same scene in the first act and the underlying seriousness is clearly suggested.
The orchestra responded very well to the challenge of giving a demonstration that “Pagliacci” is not a second class score for cheap summer performances by travelling companies moving from resort to resort but a XX century masterpiece. Stuart Neill is big generous American tenor with the voice to fill the huge Teatro dell’Opera; his timbre is very clear and his acting better suited to Canio than to La Scala recent “Don Carlo” Myrtà Papatanasiu is a good soprano with a very nice voice emission but lacks the volume required by the Teatro dell’Opera. Effectuive Seng-Yyun Ko and the other.
The audience was thrilled as shown by the many curtain calls
Giuseppe Pennisi
Haydn’s “Il Ritorno Di Tobia” , Oratorio Or Opera Seria? Opera Today 26 maggio
Joseph Haydn's place in the history of the oratorio has been secured by his masterpieces The Creation (1798) and The Seasons (1801). His first appearance, however, on the Mount Parnassus of oratorio was a good quarter of a century beforehand with Il ritorno di Tobia.
F. J. Haydn: Il Ritorno Di Tobia
Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Conductor: Fabio Biondi. Valentina Farcas (Raffaele); Maria Grazia Schiavo (Sara); Ann Hallenberg (Anna); Bernard Richter (Tobia); Johannes Weisser(Tobit). Chorus Master: Filippo Maria Bressan.
Above: Fabio Biondi. Photos by Musacchio & Ianniello.
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Recently performed at the Accademia di Santa Cecilia in Rome (May 16-19) with an all star cast as a part of the celebration for the bicentenary of Haydn’s death. It is also the indication of revival of a nearly forgotten masterpiece: a few months ago Il ritorno di Tobia had been performed in London and Poissy under the baton of Sir Roger Norrington.
Il ritorno di Tobia had had a promising start: in April 1775 Haydn directed the first two performances of his work, written for the Vienna Tonkünstler-Societät. This success was no mere accident: Haydn had tailored his first oratorio as much as possible to suit Viennese taste. At this time Vienna was, to a certain extent, the bastion of the Italian oratorio north of the Alps. An Italian libretto was therefore indispensable, and for his subject matter, Haydn had chosen an exceptionally popular story: in the XVIII century, the Old Testament Book of Tobias was found everywhere, in painting, sculpture, literature and music; in Vienna alone it had been set to music dozens of times. Oratorios were performed in theatres because , during Lent, opera performances were forbidden; from the Playbills of the time we know that tickets for Il ritorno di Tobia were as high as those for a major opera seria performance. There was also some politics: the main theme of Il ritorno is conjugal love and parenthood; this would fit very well Empress Marie Thérèse’s view of the world- a world then rapidly changing , only a few years from Così fan tutte wives’ swapping and Marquis de Sade’s novels.
Within a short space of time copies of the score were circulating throughout Europe and Haydn himself counted the work among his most successful. It is also no surprise, however, that as early as 1781 a planned repeat performance in Vienna failed owing to the subsequent change in public taste; and besides this, as it took almost three hours to perform, the work was considered simply too long. Haydn, , was after all an experienced man of the theatre who had earned his stripes at the Esterházys’ opera house, and as such was perfectly capable of tackling the reworking of his Tobia in view of its difficulties. The parts of the Tonkünstler-Societät and Haydn’s autograph testify to this in a variety of ways: Haydn himself made alterations in a number of places in his score to passages of secco recitative, which, being accompanied only by the continuo instrument, allow the singer greater freedom in which to be creative. On the other hand, the orchestral material contains cuts in much of the extravagant coloratura, and also the repeated sections in the arias. Not only did this bring about the shortening of the work deemed necessary, it also reduced the technical demands of the arias significantly, and so made the rôles easier to cast. It is no longer possible to reconstruct beyond doubt when exactly and for which performance these alterations were made.
Even if the action is not set directly scene by scene, Il ritorno di Tobia still provides moments of striking theatricality. In matters of text setting, the Italianate oratorio of the XVIII century followed the opera seria closely: this begins with the sequence of recitatives and arias and continues with the ways in which these formal elements are given shape. The recitative is characterized from the outset by dialogue and the dramatic structure imposed by the characters’ immediate reactions to one other. This is not even altered by the fact that repeated events already bygone are brought back to life in the recitatives.
IMG_9050.gif
Haydn takes the opera as his model not only for the dialogical texture but also for the aria’s structure. Unlike the opera seria of the time, in which the involvement of the chorus is reserved for particularly festive types such as the Festa teatrale, in the Italianate oratorio both parts traditionally concluded with a chorus; usually the choir also played a part in the opening scene. Besides this, the inclusion of contrapuntal techniques is typical of oratorio. The basic question is still unanswered: it is an oratorio or a grand opera seria?
After performances in Vienna at the Kärtnertortheater in 1775 and in 1784 at the Hofburgtheater, where it was heard again in 1808 , Il ritorno di Tobia faded away until very recently. There only a couple of recording available - and not very easy to find and purchase.
Santa Cecilia’s lavish production is to be considered an Italian premiere. The symphony orchestra was superbly conducted by Flavio Biondi, the creator and leader of the Europa Galante ensemble. To borrow from Giuseppe Verdi one of his favorite quote Biondi “made the orchestra dance” . A few cuts were made in the very long score; I attended the Monday subscription performance starting at 9 pm. Even after the cut, the work, unknown to most of the audience, appeared too to some; at end (well after midnight) only half of the large auditorium (2800 seats) was full but those who sat through the end gave a generous applause to the orchestra, the chorus and the soloist.
The chorus deserves a special mention. There important and very difficult choral sections in Il ritorno di Tobia. They require considerable skills; conducted by Filipp Maria Bessan, the Santa Cecilia Chorus had a warm deserved applause.
Somewhat uneven the soloist cast. Maria Grazia Schiavo was an excellent Sara and gained an open stage applause after her long second act arias where her acute reached very high heights. An Allenberg is a alto specializing in baroque and XVIII century music; she was a very motherly Anne descending to very grave tonalities. Bernard Richter , Tobia,is a lyric tenor: he braved out a role requiring to climb very steep acute mountains. Less satisfactory Johannes Weisser , Tobit , and Valentina Farcas, Raffaele.
Giuseppe Pennisi
F. J. Haydn: Il Ritorno Di Tobia
Orchestra e Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Conductor: Fabio Biondi. Valentina Farcas (Raffaele); Maria Grazia Schiavo (Sara); Ann Hallenberg (Anna); Bernard Richter (Tobia); Johannes Weisser(Tobit). Chorus Master: Filippo Maria Bressan.
Above: Fabio Biondi. Photos by Musacchio & Ianniello.
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Recently performed at the Accademia di Santa Cecilia in Rome (May 16-19) with an all star cast as a part of the celebration for the bicentenary of Haydn’s death. It is also the indication of revival of a nearly forgotten masterpiece: a few months ago Il ritorno di Tobia had been performed in London and Poissy under the baton of Sir Roger Norrington.
Il ritorno di Tobia had had a promising start: in April 1775 Haydn directed the first two performances of his work, written for the Vienna Tonkünstler-Societät. This success was no mere accident: Haydn had tailored his first oratorio as much as possible to suit Viennese taste. At this time Vienna was, to a certain extent, the bastion of the Italian oratorio north of the Alps. An Italian libretto was therefore indispensable, and for his subject matter, Haydn had chosen an exceptionally popular story: in the XVIII century, the Old Testament Book of Tobias was found everywhere, in painting, sculpture, literature and music; in Vienna alone it had been set to music dozens of times. Oratorios were performed in theatres because , during Lent, opera performances were forbidden; from the Playbills of the time we know that tickets for Il ritorno di Tobia were as high as those for a major opera seria performance. There was also some politics: the main theme of Il ritorno is conjugal love and parenthood; this would fit very well Empress Marie Thérèse’s view of the world- a world then rapidly changing , only a few years from Così fan tutte wives’ swapping and Marquis de Sade’s novels.
Within a short space of time copies of the score were circulating throughout Europe and Haydn himself counted the work among his most successful. It is also no surprise, however, that as early as 1781 a planned repeat performance in Vienna failed owing to the subsequent change in public taste; and besides this, as it took almost three hours to perform, the work was considered simply too long. Haydn, , was after all an experienced man of the theatre who had earned his stripes at the Esterházys’ opera house, and as such was perfectly capable of tackling the reworking of his Tobia in view of its difficulties. The parts of the Tonkünstler-Societät and Haydn’s autograph testify to this in a variety of ways: Haydn himself made alterations in a number of places in his score to passages of secco recitative, which, being accompanied only by the continuo instrument, allow the singer greater freedom in which to be creative. On the other hand, the orchestral material contains cuts in much of the extravagant coloratura, and also the repeated sections in the arias. Not only did this bring about the shortening of the work deemed necessary, it also reduced the technical demands of the arias significantly, and so made the rôles easier to cast. It is no longer possible to reconstruct beyond doubt when exactly and for which performance these alterations were made.
Even if the action is not set directly scene by scene, Il ritorno di Tobia still provides moments of striking theatricality. In matters of text setting, the Italianate oratorio of the XVIII century followed the opera seria closely: this begins with the sequence of recitatives and arias and continues with the ways in which these formal elements are given shape. The recitative is characterized from the outset by dialogue and the dramatic structure imposed by the characters’ immediate reactions to one other. This is not even altered by the fact that repeated events already bygone are brought back to life in the recitatives.
IMG_9050.gif
Haydn takes the opera as his model not only for the dialogical texture but also for the aria’s structure. Unlike the opera seria of the time, in which the involvement of the chorus is reserved for particularly festive types such as the Festa teatrale, in the Italianate oratorio both parts traditionally concluded with a chorus; usually the choir also played a part in the opening scene. Besides this, the inclusion of contrapuntal techniques is typical of oratorio. The basic question is still unanswered: it is an oratorio or a grand opera seria?
After performances in Vienna at the Kärtnertortheater in 1775 and in 1784 at the Hofburgtheater, where it was heard again in 1808 , Il ritorno di Tobia faded away until very recently. There only a couple of recording available - and not very easy to find and purchase.
Santa Cecilia’s lavish production is to be considered an Italian premiere. The symphony orchestra was superbly conducted by Flavio Biondi, the creator and leader of the Europa Galante ensemble. To borrow from Giuseppe Verdi one of his favorite quote Biondi “made the orchestra dance” . A few cuts were made in the very long score; I attended the Monday subscription performance starting at 9 pm. Even after the cut, the work, unknown to most of the audience, appeared too to some; at end (well after midnight) only half of the large auditorium (2800 seats) was full but those who sat through the end gave a generous applause to the orchestra, the chorus and the soloist.
The chorus deserves a special mention. There important and very difficult choral sections in Il ritorno di Tobia. They require considerable skills; conducted by Filipp Maria Bessan, the Santa Cecilia Chorus had a warm deserved applause.
Somewhat uneven the soloist cast. Maria Grazia Schiavo was an excellent Sara and gained an open stage applause after her long second act arias where her acute reached very high heights. An Allenberg is a alto specializing in baroque and XVIII century music; she was a very motherly Anne descending to very grave tonalities. Bernard Richter , Tobia,is a lyric tenor: he braved out a role requiring to climb very steep acute mountains. Less satisfactory Johannes Weisser , Tobit , and Valentina Farcas, Raffaele.
Giuseppe Pennisi
An Elegant Pique Dame in Turin Opera Today 26 naggio
“Pique Dame” (“Pivokaja Dama” or “The Queen of Spades”) is one of Pyotr I. Tchaikovsky most difficult, and most expensive, operas to produce.
P. Tchaikovsky: Pique Dame
Hermann: Maksim Aksënov; Liza: Svetla Vassileva; The Countess: Anja Silja; Eleckij: Dalibor Janis; Polina: Julia Gerteva; Tomkij: Vladimir Vaneev. Musical director: Gianandrea Noseda. Stage director, set and lighting: Denis Krief. Chorus Master: Roberto Gabbiani.
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The work’s forces include 14 soloists, a chorus of some 100 men and women, a children chorus of 24 and a “theatre-within-the-theatre” pastoral pantomime with the arrival of Empress Katherine the Great and her retinue. Its three acts entail seven different scenes: from St. Petersburg’s gardens in the spring to the great hall of a palace, to private apartments, to the banks of the Neva, to officers’ quarters, and finally, to the casino. Turin had had only one fully staged series of seven performances (but in Italian and with substantial cuts) way back in 1963. There had been concert versions (in Russian) in the RAI Auditorium (the most recent in 1990). The Teatro Regio is a well-managed institution; it has scheduled a glittering new production for the current season with the intent to rent it to other Theaters; its normal partners are Lyon’ s and Los Angeles’ opera houses. A star of the Russian opera theaters, Dmitri Cherniakov, entrusted the stage direction and stage set. Another star (Misha Didyk) was contracted for the taxing role of the protagonist, Herman. Finances compelled cuts of the expected lavish production.
Meanwhile, both Cherniakov and Didyk disappeared or, rather, vanished away. The Regio Musical’s strong-willed director, Gianandrea Noseda, conducted. Denis Krief was called upon to provide a “low cost, but elegant” production that would set a standard for low budget productions that could nevertheless be leased to other theaters. The Teatro Regio gave Krief three days to develop a new concept for this “Pique Dame” staging.
The resulting production consisted of a single set with the stage floor as a huge gambling table where, with a few simple props, the gardens, the palaces, the apartments, the barracks, the casinos take shape. In “Pique Dame”, Tchaikovsky delved into his own personal problems (foremost his sexual orientation) that three years later led him to commit suicide (the most widely accepted version of his death). He used the 18th Century setting as a device that allowed the examination of himself and of contemporary Russian aristocratic and bourgeois society (similar to Strauss’ “Der Rosenkavalier”). In this context, the setting was moved forward to the end of the 19th Century.
Black and white is de rigueur — a spectral ghost society now in decay. Within this context, the Countess is not a handicapped old woman, but an aging, yet still attractive, “grande dame”. Hermann is not in love with Liza — she is a mere tool to enter the Countess’ bedroom and steal the secret of the winning three card combination — but is struggling with his own obsessions. Prince Eleckij, on the other hand, is a real man suffering from Liza’s betrayal. The others (Polina, Count Tomskij, Celakinskij, Surin, Narunov) represent Russia in decay. The gambling casino resembles a cemetery.
The Regio audience saluted the staging (and the rest of the performance) with standing ovations. Some reviewers appreciated the musical part but regretted the lack of cardboard 18th Century palaces and wigs.
The young and attractive Russian tenor, Maksim Aksënov, rescued what threatened to become a doomed production. A superb actor, Aksënov has a crystal- clear timbre. He easily reaches high “Cs” and caresses tender “legatos”. He has a great career in front of him; but he has work to do on the central tonalities and on the “mezza-voce”.
There were two vocal and acting giants with him. Svetla Vassileva is more at ease with Tchaikovsky than with the Verdi repertoire in which she is normally cast in Italian opera houses. Anja Silja, with a career of more than 55 years, remains impressive.
Gianandrea Noseda has a dry way of conducting this score- different from Gergeev’s dramatic nearly violent approach, from Tchakarov’s morbid treatment and from Jurosvkij’s emphasis on anticipations of the 20th Century. The orchestra responds well, especially the strings and the woods. The double chorus has some difficulties with Russian pronunciation.
Altogether, this production deserves to be seen elsewhere in Europe and, perhaps, in the USA.
Giuseppe Pennisi
Comments
P. Tchaikovsky: Pique Dame
Hermann: Maksim Aksënov; Liza: Svetla Vassileva; The Countess: Anja Silja; Eleckij: Dalibor Janis; Polina: Julia Gerteva; Tomkij: Vladimir Vaneev. Musical director: Gianandrea Noseda. Stage director, set and lighting: Denis Krief. Chorus Master: Roberto Gabbiani.
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The work’s forces include 14 soloists, a chorus of some 100 men and women, a children chorus of 24 and a “theatre-within-the-theatre” pastoral pantomime with the arrival of Empress Katherine the Great and her retinue. Its three acts entail seven different scenes: from St. Petersburg’s gardens in the spring to the great hall of a palace, to private apartments, to the banks of the Neva, to officers’ quarters, and finally, to the casino. Turin had had only one fully staged series of seven performances (but in Italian and with substantial cuts) way back in 1963. There had been concert versions (in Russian) in the RAI Auditorium (the most recent in 1990). The Teatro Regio is a well-managed institution; it has scheduled a glittering new production for the current season with the intent to rent it to other Theaters; its normal partners are Lyon’ s and Los Angeles’ opera houses. A star of the Russian opera theaters, Dmitri Cherniakov, entrusted the stage direction and stage set. Another star (Misha Didyk) was contracted for the taxing role of the protagonist, Herman. Finances compelled cuts of the expected lavish production.
Meanwhile, both Cherniakov and Didyk disappeared or, rather, vanished away. The Regio Musical’s strong-willed director, Gianandrea Noseda, conducted. Denis Krief was called upon to provide a “low cost, but elegant” production that would set a standard for low budget productions that could nevertheless be leased to other theaters. The Teatro Regio gave Krief three days to develop a new concept for this “Pique Dame” staging.
The resulting production consisted of a single set with the stage floor as a huge gambling table where, with a few simple props, the gardens, the palaces, the apartments, the barracks, the casinos take shape. In “Pique Dame”, Tchaikovsky delved into his own personal problems (foremost his sexual orientation) that three years later led him to commit suicide (the most widely accepted version of his death). He used the 18th Century setting as a device that allowed the examination of himself and of contemporary Russian aristocratic and bourgeois society (similar to Strauss’ “Der Rosenkavalier”). In this context, the setting was moved forward to the end of the 19th Century.
Black and white is de rigueur — a spectral ghost society now in decay. Within this context, the Countess is not a handicapped old woman, but an aging, yet still attractive, “grande dame”. Hermann is not in love with Liza — she is a mere tool to enter the Countess’ bedroom and steal the secret of the winning three card combination — but is struggling with his own obsessions. Prince Eleckij, on the other hand, is a real man suffering from Liza’s betrayal. The others (Polina, Count Tomskij, Celakinskij, Surin, Narunov) represent Russia in decay. The gambling casino resembles a cemetery.
The Regio audience saluted the staging (and the rest of the performance) with standing ovations. Some reviewers appreciated the musical part but regretted the lack of cardboard 18th Century palaces and wigs.
The young and attractive Russian tenor, Maksim Aksënov, rescued what threatened to become a doomed production. A superb actor, Aksënov has a crystal- clear timbre. He easily reaches high “Cs” and caresses tender “legatos”. He has a great career in front of him; but he has work to do on the central tonalities and on the “mezza-voce”.
There were two vocal and acting giants with him. Svetla Vassileva is more at ease with Tchaikovsky than with the Verdi repertoire in which she is normally cast in Italian opera houses. Anja Silja, with a career of more than 55 years, remains impressive.
Gianandrea Noseda has a dry way of conducting this score- different from Gergeev’s dramatic nearly violent approach, from Tchakarov’s morbid treatment and from Jurosvkij’s emphasis on anticipations of the 20th Century. The orchestra responds well, especially the strings and the woods. The double chorus has some difficulties with Russian pronunciation.
Altogether, this production deserves to be seen elsewhere in Europe and, perhaps, in the USA.
Giuseppe Pennisi
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PENSIONI: TRE NODI DA SCIOGLIERE SUBITO Il Tempo 26 giugno
Come anticipato alcuni mesi fa, le crisi accelerano il passo delle riforme. Ci sono le premesse, infatti, per l’avvio di una stagione riformatrice che, sotto gli aspetti principalmente politici, riguarda l’ammodernamento delle istituzioni (Governo, Parlamento) e sotto quello economico prende l’avvio dal tentativo di un riassetto della previdenza condiviso con le parti sociali.
Non è una peculiarità italiana. In questi giorni, escono tre libri distinti di tre tra i maggiori specialisti di sistemi previdenziali Nicholas Barr della London School of Economics, Peter Diamond del Massachusetts Institute of Technology, Ondrej Schneider a lungo all’Ocse ed ora alla Charles University di Praga – in cui vengono tracciati bilanci di quanto fatto (in materia previdenziale) nei principali Paesi industriali e di cosa pare necessario fare per essere meglio preparati al dopo-crisi.
In Italia, il dibattito sulla previdenza ha una caratteristica particolare: dopo 17 anni dalle prime riforme (quella che presero il nome dall’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato) siamo tra i Paesi Ocse quello che destina maggiori risorse al sistema previdenziale pubblico (oltre 15% del pil nel 2008) ma la cui platea di pensionati è caratterizzata dalla più alta proporzione di persone “al minino”, un minimo inadeguato per la mera sussistenza. La frammentazione dei 700 fondi pensione lillipuziani ha reso quelli finanziari vittime predestinate della crisi (come ripetuto da Il Tempo in questi anni). Un miglioramento dell’efficienza interna degli istituti di previdenza (peraltro urgentissimo) può apportare un sollievo unicamente modesto. Occorre affrontare il nodo strutturale di questo ulteriore “paradosso Italia”: una spesa pubblica per la previdenza, fondi pensione privati troppo fragili od a rendimenti rasoterra e troppe pensioni troppo basso.
I lavori recenti di Barr, Diamond e Schneider confermano che non c’è una ricetta universalmente applicabile , specialmente se si transita da un sistema a ripartizione con prestazioni ancorate alle retribuzioni ad uno che un giorno dovrebbe diventare a capitalizzazioni e con assegni agganciati ai rendimenti dei contributi versati. Le simulazioni per differenti Paesi (specialmente interessanti quelle di Schneider) indicano però alcuni elementi da cui non si potrà eludere (quali che siano le specifiche tecniche): l’aggiornamento dell’età pensionabile (per tenere conto delle dinamiche demografiche), la revisione del tasso di copertura (ossia della percentuale dell’ultimo stipendio con cui si va in pensione), il rialzo dei trattamenti più bassi. I primi due elementi sono essenziali per attuare il terzo. C’è una gamma molto vasta di alternative (lo mostrano i volumi di Barr e di Diamond) per dare corpo a queste tre componenti. Avere identificato che si debba, come diceva Massimo Troisi, ripartire da tre e quali sono le tre leve rappresenta già la premessa di un buon avvio per una riforma condivisa che si distingua dai monologhi alterni del passato.
Non è una peculiarità italiana. In questi giorni, escono tre libri distinti di tre tra i maggiori specialisti di sistemi previdenziali Nicholas Barr della London School of Economics, Peter Diamond del Massachusetts Institute of Technology, Ondrej Schneider a lungo all’Ocse ed ora alla Charles University di Praga – in cui vengono tracciati bilanci di quanto fatto (in materia previdenziale) nei principali Paesi industriali e di cosa pare necessario fare per essere meglio preparati al dopo-crisi.
In Italia, il dibattito sulla previdenza ha una caratteristica particolare: dopo 17 anni dalle prime riforme (quella che presero il nome dall’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato) siamo tra i Paesi Ocse quello che destina maggiori risorse al sistema previdenziale pubblico (oltre 15% del pil nel 2008) ma la cui platea di pensionati è caratterizzata dalla più alta proporzione di persone “al minino”, un minimo inadeguato per la mera sussistenza. La frammentazione dei 700 fondi pensione lillipuziani ha reso quelli finanziari vittime predestinate della crisi (come ripetuto da Il Tempo in questi anni). Un miglioramento dell’efficienza interna degli istituti di previdenza (peraltro urgentissimo) può apportare un sollievo unicamente modesto. Occorre affrontare il nodo strutturale di questo ulteriore “paradosso Italia”: una spesa pubblica per la previdenza, fondi pensione privati troppo fragili od a rendimenti rasoterra e troppe pensioni troppo basso.
I lavori recenti di Barr, Diamond e Schneider confermano che non c’è una ricetta universalmente applicabile , specialmente se si transita da un sistema a ripartizione con prestazioni ancorate alle retribuzioni ad uno che un giorno dovrebbe diventare a capitalizzazioni e con assegni agganciati ai rendimenti dei contributi versati. Le simulazioni per differenti Paesi (specialmente interessanti quelle di Schneider) indicano però alcuni elementi da cui non si potrà eludere (quali che siano le specifiche tecniche): l’aggiornamento dell’età pensionabile (per tenere conto delle dinamiche demografiche), la revisione del tasso di copertura (ossia della percentuale dell’ultimo stipendio con cui si va in pensione), il rialzo dei trattamenti più bassi. I primi due elementi sono essenziali per attuare il terzo. C’è una gamma molto vasta di alternative (lo mostrano i volumi di Barr e di Diamond) per dare corpo a queste tre componenti. Avere identificato che si debba, come diceva Massimo Troisi, ripartire da tre e quali sono le tre leve rappresenta già la premessa di un buon avvio per una riforma condivisa che si distingua dai monologhi alterni del passato.
Il ruolo dell'altra "major" nel triangolo Fiat-Chrysler-General Motors Ma che fine ha fatto la Ford? FFwebmagazine 26 maggio
di Giuseppe Pennisi Gli organi d’informazione italiani trattano in queste settimane diffusamente dei rapporti (in differente grado di evoluzione) tra la Fiat, la Chrysler e la Gm. Nessuno si rivolge, però, a cosa sta avvenendo all’altra major americana , la Ford – neanche coloro che affollano le sale cinematografiche per vedere “Gran Torino”, il nome di una Ford gran lusso della metà degli Anni Settanta. Se ne ricorda il vostro “chroniqueur” il quale ha vissuto per tre lustri a Washington e con una Ford station wagon non soltanto portava a scuola i bambini ma andava in gita alle Outer Banks della Carolina del Nord.
Pochi ricordano che nell’autunno del 2006 (meno di tre anni fa), la Ford appariva intubata come un malato terminale, in condizioni commerciali e finanziarie ben peggiori di quelle in cui versavano la Chrysler (alle prese con un matrimonio turbolento con la Daimler ) e la Gm (che aveva appena pagato un caro prezzo per rompere il fidanzamento con la Fiat). Adesso, la Ford ha appena ricevuto uno “spot” di lusso da Barack Obama il quale, nel roseto della Casa Bianca, tracciando il futuro dell’industria automobilistica Usa, ha affermato di avere sempre guidato autovetture prodotte da quella sola delle tre case di Detroit. Cosa è cambiato?
I conti sono ancora in rosso: esaminando su Internet i bilanci consolidati, il consuntivo 2008 evidenzia una perdita di 14,6 miliardi di dollari e la prima trimestrale 2009 una di 1,4 miliardi. Il disavanzo, però, non è pari a quello fallimentare della Chrysler (una spina che Obama si sta togliendo grazie alla Fiat, ed ai contribuenti italiani) o a quello quasi fallimentare di molte aziende del gruppo Gm (che la Casa Bianca vedrebbe volentieri cedute a compagnie automobilistiche e contribuenti volenterosi). Il merito di avere dato una sterzata ad una Ford i cui libri contabili stavano per essere portati in tribunale, è stato attribuito principalmente a Alan R. Mullaly, giunto alla guida del complicato conglomerato di imprese a ragione dell’esperienza maturata al timone della direzione commerciale della Boeing, un’azienda che negli ultimi venti anni ne ha viste di tutti i colori.
Mullaly ha attuato un programma di risanamento senza attingere, né direttamente né indirettamente, un dollaro dalle casse dell’erario (quindi un percorso molto differente da quello della Chrysler e della Gm, nonché della Fiat) ma lavorando di stretta intesa con la United Auto Workers (Uaw), il potente sindacato metalmeccanico – uno stile (si dice a Detroit) più “tedesco” che “americano”. Ha messo da parte modelli di lusso (tipo Jaguar) e puntato su media cilindrata (la nuova Taurus, la nuova Fiesta). I suoi collaboratori e la Uaw affermano che la sua principale dote è l’ottimismo che sprigiona e infonde agli altri. Preferisce visitare gli impianti che spendere tempo nei salotti di Detroit , o in quelli di Washington (che dice di aborrire). Non va in giro in maglione ma in gessato. Ha saputo rompere le baronie che per decenni hanno infestato la Ford. Ogni martedì mattina alle 7,30 si riunisce con la sua squadra per impostare programmi, valutarli, rivederli – insomma decidere.
È in questo contesto che è stato stabilito di ridurre il ruolo della Jaguar ed enfatizzare quello della nuova Taurus e della nuova Fiesta, in piena consapevolezza che si tratta due modelli che, per quanto aggiornati nelle loro caratteristiche tecniche, possono sembrare troppo piccoli agli automobilisti americani. Lo stesso Floyd Norris, columnist del New York Times e ammiratore di Mulally, ha espresso perplessità a questo riguardo. Tuttavia la Ford di Mulally non guarda al mercato Usa o a quello Nord Americano in generale e neanche all’Emisfero Occidentale (ossia l’intero continente, America Latina inclusa). Ha sulla sua scrivania lo studio del Fondo Monetario in cui si stima che l’80% del mercato è nei paesi oggi chiamati “emergenti” ; nel suo studio c’è pure un cannocchiale. Fissato in quella direzione.
L’analisi Fmi e il cannocchiale rispondono a molte domande poste da Ffwebmagazine. E a cui si spera che Sergio Marchionne, prima o poi, risponda. Non tanto a un piccolo webmagazine di nicchia. Ma agli italiani.
26 maggio 2009
Pochi ricordano che nell’autunno del 2006 (meno di tre anni fa), la Ford appariva intubata come un malato terminale, in condizioni commerciali e finanziarie ben peggiori di quelle in cui versavano la Chrysler (alle prese con un matrimonio turbolento con la Daimler ) e la Gm (che aveva appena pagato un caro prezzo per rompere il fidanzamento con la Fiat). Adesso, la Ford ha appena ricevuto uno “spot” di lusso da Barack Obama il quale, nel roseto della Casa Bianca, tracciando il futuro dell’industria automobilistica Usa, ha affermato di avere sempre guidato autovetture prodotte da quella sola delle tre case di Detroit. Cosa è cambiato?
I conti sono ancora in rosso: esaminando su Internet i bilanci consolidati, il consuntivo 2008 evidenzia una perdita di 14,6 miliardi di dollari e la prima trimestrale 2009 una di 1,4 miliardi. Il disavanzo, però, non è pari a quello fallimentare della Chrysler (una spina che Obama si sta togliendo grazie alla Fiat, ed ai contribuenti italiani) o a quello quasi fallimentare di molte aziende del gruppo Gm (che la Casa Bianca vedrebbe volentieri cedute a compagnie automobilistiche e contribuenti volenterosi). Il merito di avere dato una sterzata ad una Ford i cui libri contabili stavano per essere portati in tribunale, è stato attribuito principalmente a Alan R. Mullaly, giunto alla guida del complicato conglomerato di imprese a ragione dell’esperienza maturata al timone della direzione commerciale della Boeing, un’azienda che negli ultimi venti anni ne ha viste di tutti i colori.
Mullaly ha attuato un programma di risanamento senza attingere, né direttamente né indirettamente, un dollaro dalle casse dell’erario (quindi un percorso molto differente da quello della Chrysler e della Gm, nonché della Fiat) ma lavorando di stretta intesa con la United Auto Workers (Uaw), il potente sindacato metalmeccanico – uno stile (si dice a Detroit) più “tedesco” che “americano”. Ha messo da parte modelli di lusso (tipo Jaguar) e puntato su media cilindrata (la nuova Taurus, la nuova Fiesta). I suoi collaboratori e la Uaw affermano che la sua principale dote è l’ottimismo che sprigiona e infonde agli altri. Preferisce visitare gli impianti che spendere tempo nei salotti di Detroit , o in quelli di Washington (che dice di aborrire). Non va in giro in maglione ma in gessato. Ha saputo rompere le baronie che per decenni hanno infestato la Ford. Ogni martedì mattina alle 7,30 si riunisce con la sua squadra per impostare programmi, valutarli, rivederli – insomma decidere.
È in questo contesto che è stato stabilito di ridurre il ruolo della Jaguar ed enfatizzare quello della nuova Taurus e della nuova Fiesta, in piena consapevolezza che si tratta due modelli che, per quanto aggiornati nelle loro caratteristiche tecniche, possono sembrare troppo piccoli agli automobilisti americani. Lo stesso Floyd Norris, columnist del New York Times e ammiratore di Mulally, ha espresso perplessità a questo riguardo. Tuttavia la Ford di Mulally non guarda al mercato Usa o a quello Nord Americano in generale e neanche all’Emisfero Occidentale (ossia l’intero continente, America Latina inclusa). Ha sulla sua scrivania lo studio del Fondo Monetario in cui si stima che l’80% del mercato è nei paesi oggi chiamati “emergenti” ; nel suo studio c’è pure un cannocchiale. Fissato in quella direzione.
L’analisi Fmi e il cannocchiale rispondono a molte domande poste da Ffwebmagazine. E a cui si spera che Sergio Marchionne, prima o poi, risponda. Non tanto a un piccolo webmagazine di nicchia. Ma agli italiani.
26 maggio 2009
Il ruolo dell'altra "major" nel triangolo Fiat-Chrysler-General Motors Ma che fine ha fatto la Ford? FFwebmagazine 26 maggiop
di Giuseppe Pennisi Gli organi d’informazione italiani trattano in queste settimane diffusamente dei rapporti (in differente grado di evoluzione) tra la Fiat, la Chrysler e la Gm. Nessuno si rivolge, però, a cosa sta avvenendo all’altra major americana , la Ford – neanche coloro che affollano le sale cinematografiche per vedere “Gran Torino”, il nome di una Ford gran lusso della metà degli Anni Settanta. Se ne ricorda il vostro “chroniqueur” il quale ha vissuto per tre lustri a Washington e con una Ford station wagon non soltanto portava a scuola i bambini ma andava in gita alle Outer Banks della Carolina del Nord.
Pochi ricordano che nell’autunno del 2006 (meno di tre anni fa), la Ford appariva intubata come un malato terminale, in condizioni commerciali e finanziarie ben peggiori di quelle in cui versavano la Chrysler (alle prese con un matrimonio turbolento con la Daimler ) e la Gm (che aveva appena pagato un caro prezzo per rompere il fidanzamento con la Fiat). Adesso, la Ford ha appena ricevuto uno “spot” di lusso da Barack Obama il quale, nel roseto della Casa Bianca, tracciando il futuro dell’industria automobilistica Usa, ha affermato di avere sempre guidato autovetture prodotte da quella sola delle tre case di Detroit. Cosa è cambiato?
I conti sono ancora in rosso: esaminando su Internet i bilanci consolidati, il consuntivo 2008 evidenzia una perdita di 14,6 miliardi di dollari e la prima trimestrale 2009 una di 1,4 miliardi. Il disavanzo, però, non è pari a quello fallimentare della Chrysler (una spina che Obama si sta togliendo grazie alla Fiat, ed ai contribuenti italiani) o a quello quasi fallimentare di molte aziende del gruppo Gm (che la Casa Bianca vedrebbe volentieri cedute a compagnie automobilistiche e contribuenti volenterosi). Il merito di avere dato una sterzata ad una Ford i cui libri contabili stavano per essere portati in tribunale, è stato attribuito principalmente a Alan R. Mullaly, giunto alla guida del complicato conglomerato di imprese a ragione dell’esperienza maturata al timone della direzione commerciale della Boeing, un’azienda che negli ultimi venti anni ne ha viste di tutti i colori.
Mullaly ha attuato un programma di risanamento senza attingere, né direttamente né indirettamente, un dollaro dalle casse dell’erario (quindi un percorso molto differente da quello della Chrysler e della Gm, nonché della Fiat) ma lavorando di stretta intesa con la United Auto Workers (Uaw), il potente sindacato metalmeccanico – uno stile (si dice a Detroit) più “tedesco” che “americano”. Ha messo da parte modelli di lusso (tipo Jaguar) e puntato su media cilindrata (la nuova Taurus, la nuova Fiesta). I suoi collaboratori e la Uaw affermano che la sua principale dote è l’ottimismo che sprigiona e infonde agli altri. Preferisce visitare gli impianti che spendere tempo nei salotti di Detroit , o in quelli di Washington (che dice di aborrire). Non va in giro in maglione ma in gessato. Ha saputo rompere le baronie che per decenni hanno infestato la Ford. Ogni martedì mattina alle 7,30 si riunisce con la sua squadra per impostare programmi, valutarli, rivederli – insomma decidere.
È in questo contesto che è stato stabilito di ridurre il ruolo della Jaguar ed enfatizzare quello della nuova Taurus e della nuova Fiesta, in piena consapevolezza che si tratta due modelli che, per quanto aggiornati nelle loro caratteristiche tecniche, possono sembrare troppo piccoli agli automobilisti americani. Lo stesso Floyd Norris, columnist del New York Times e ammiratore di Mulally, ha espresso perplessità a questo riguardo. Tuttavia la Ford di Mulally non guarda al mercato Usa o a quello Nord Americano in generale e neanche all’Emisfero Occidentale (ossia l’intero continente, America Latina inclusa). Ha sulla sua scrivania lo studio del Fondo Monetario in cui si stima che l’80% del mercato è nei paesi oggi chiamati “emergenti” ; nel suo studio c’è pure un cannocchiale. Fissato in quella direzione.
L’analisi Fmi e il cannocchiale rispondono a molte domande poste da Ffwebmagazine. E a cui si spera che Sergio Marchionne, prima o poi, risponda. Non tanto a un piccolo webmagazine di nicchia. Ma agli italiani.
26 maggio 2009
Pochi ricordano che nell’autunno del 2006 (meno di tre anni fa), la Ford appariva intubata come un malato terminale, in condizioni commerciali e finanziarie ben peggiori di quelle in cui versavano la Chrysler (alle prese con un matrimonio turbolento con la Daimler ) e la Gm (che aveva appena pagato un caro prezzo per rompere il fidanzamento con la Fiat). Adesso, la Ford ha appena ricevuto uno “spot” di lusso da Barack Obama il quale, nel roseto della Casa Bianca, tracciando il futuro dell’industria automobilistica Usa, ha affermato di avere sempre guidato autovetture prodotte da quella sola delle tre case di Detroit. Cosa è cambiato?
I conti sono ancora in rosso: esaminando su Internet i bilanci consolidati, il consuntivo 2008 evidenzia una perdita di 14,6 miliardi di dollari e la prima trimestrale 2009 una di 1,4 miliardi. Il disavanzo, però, non è pari a quello fallimentare della Chrysler (una spina che Obama si sta togliendo grazie alla Fiat, ed ai contribuenti italiani) o a quello quasi fallimentare di molte aziende del gruppo Gm (che la Casa Bianca vedrebbe volentieri cedute a compagnie automobilistiche e contribuenti volenterosi). Il merito di avere dato una sterzata ad una Ford i cui libri contabili stavano per essere portati in tribunale, è stato attribuito principalmente a Alan R. Mullaly, giunto alla guida del complicato conglomerato di imprese a ragione dell’esperienza maturata al timone della direzione commerciale della Boeing, un’azienda che negli ultimi venti anni ne ha viste di tutti i colori.
Mullaly ha attuato un programma di risanamento senza attingere, né direttamente né indirettamente, un dollaro dalle casse dell’erario (quindi un percorso molto differente da quello della Chrysler e della Gm, nonché della Fiat) ma lavorando di stretta intesa con la United Auto Workers (Uaw), il potente sindacato metalmeccanico – uno stile (si dice a Detroit) più “tedesco” che “americano”. Ha messo da parte modelli di lusso (tipo Jaguar) e puntato su media cilindrata (la nuova Taurus, la nuova Fiesta). I suoi collaboratori e la Uaw affermano che la sua principale dote è l’ottimismo che sprigiona e infonde agli altri. Preferisce visitare gli impianti che spendere tempo nei salotti di Detroit , o in quelli di Washington (che dice di aborrire). Non va in giro in maglione ma in gessato. Ha saputo rompere le baronie che per decenni hanno infestato la Ford. Ogni martedì mattina alle 7,30 si riunisce con la sua squadra per impostare programmi, valutarli, rivederli – insomma decidere.
È in questo contesto che è stato stabilito di ridurre il ruolo della Jaguar ed enfatizzare quello della nuova Taurus e della nuova Fiesta, in piena consapevolezza che si tratta due modelli che, per quanto aggiornati nelle loro caratteristiche tecniche, possono sembrare troppo piccoli agli automobilisti americani. Lo stesso Floyd Norris, columnist del New York Times e ammiratore di Mulally, ha espresso perplessità a questo riguardo. Tuttavia la Ford di Mulally non guarda al mercato Usa o a quello Nord Americano in generale e neanche all’Emisfero Occidentale (ossia l’intero continente, America Latina inclusa). Ha sulla sua scrivania lo studio del Fondo Monetario in cui si stima che l’80% del mercato è nei paesi oggi chiamati “emergenti” ; nel suo studio c’è pure un cannocchiale. Fissato in quella direzione.
L’analisi Fmi e il cannocchiale rispondono a molte domande poste da Ffwebmagazine. E a cui si spera che Sergio Marchionne, prima o poi, risponda. Non tanto a un piccolo webmagazine di nicchia. Ma agli italiani.
26 maggio 2009
lunedì 25 maggio 2009
Italian Opera on the Road, Opera Today May 25
Italian Opera on the Road
You want to see Opera as the Italians do it? Go to Beijing, Tokyo, Savonlinna and Wiesbaden
Italian Opera on the Road
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The weeks after the end of the winter and spring “seasons” and at the start of the summer festivals are those when the Italian opera houses are in a better financial position to tour abroad. Opera-goers abroad can see, and assess, opera as the Italians do it. Four of the 12 major opera houses are in dire financial straits. Although the tours normally pay for themselves and bring home a net profit, their artistic programs are inadequate to make them reliable partners of foreign houses and impresarios.
There is a strong demand for Italian opera staged and sang by Italians, especially in the Far East. I remember Donizetti’s Roberto Devereux staged in a Seoul movie house in 1973. While the staging was elementary, the Korean cast and singers were up to good standards. Recently I arranged a tour of the Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto to ten Provincial Capitals of Japan, which included 17 performances of Traviata based on the 1953 La Fenice production designed by Nicola Benois for Maria Callas. It helped fill a hole in our accounts.
Asia is again the area to where the best Italian companies are heading. In the recently built Beijing National Center for Performing Arts — a modern house for an audience of 2000 — La Fenice brings a new glittering production of Madama Butterfly in the latter part of May. And Il Regio di Parma brings a juicy Rigoletto — a perfect “old style” grand staging originally created by Pierluigi Samaritani and updated by Stefano Vizioli.
La Scala will be at the center of attention of Japanese opera-goers in early September with two disparate productions of recent vintage. These are Zeffirelli’s colossal Aida (premiered in the 2006-2007 season) and Braunschwieg ‘s controversial Don Carlo (premiered in the 2008-2009 season). Spoleto Lirico Sperimentale will tour Japan in September.
No major company plans to the tour the US this year. However, the up-and-coming Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (the only private symphony orchestra in Italy) plans to tour the US in January 2010.
This July the well-run Teatro Massimo di Palermo will be at the Savonlinna Festival in a Finnish Middle Age Castle surrounded by forests and lakes — a real “must” for our Nordic readers. It will show a magnificent new production of I puritani (already performed in Palermo and Bologna and scheduled for next year in Cagliari and Beijing). Teatro Massimo has also scheduled the traditional double bill Cav/Pag.
The Parma Regio starts its program abroad in late May in Wiesbaden with the innovative production of Nabucco unveiled at the October 2008 Verdi Festival.
Giuseppe Pennisi
You want to see Opera as the Italians do it? Go to Beijing, Tokyo, Savonlinna and Wiesbaden
Italian Opera on the Road
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The weeks after the end of the winter and spring “seasons” and at the start of the summer festivals are those when the Italian opera houses are in a better financial position to tour abroad. Opera-goers abroad can see, and assess, opera as the Italians do it. Four of the 12 major opera houses are in dire financial straits. Although the tours normally pay for themselves and bring home a net profit, their artistic programs are inadequate to make them reliable partners of foreign houses and impresarios.
There is a strong demand for Italian opera staged and sang by Italians, especially in the Far East. I remember Donizetti’s Roberto Devereux staged in a Seoul movie house in 1973. While the staging was elementary, the Korean cast and singers were up to good standards. Recently I arranged a tour of the Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto to ten Provincial Capitals of Japan, which included 17 performances of Traviata based on the 1953 La Fenice production designed by Nicola Benois for Maria Callas. It helped fill a hole in our accounts.
Asia is again the area to where the best Italian companies are heading. In the recently built Beijing National Center for Performing Arts — a modern house for an audience of 2000 — La Fenice brings a new glittering production of Madama Butterfly in the latter part of May. And Il Regio di Parma brings a juicy Rigoletto — a perfect “old style” grand staging originally created by Pierluigi Samaritani and updated by Stefano Vizioli.
La Scala will be at the center of attention of Japanese opera-goers in early September with two disparate productions of recent vintage. These are Zeffirelli’s colossal Aida (premiered in the 2006-2007 season) and Braunschwieg ‘s controversial Don Carlo (premiered in the 2008-2009 season). Spoleto Lirico Sperimentale will tour Japan in September.
No major company plans to the tour the US this year. However, the up-and-coming Orchestra Sinfonica-Fondazione Roma (the only private symphony orchestra in Italy) plans to tour the US in January 2010.
This July the well-run Teatro Massimo di Palermo will be at the Savonlinna Festival in a Finnish Middle Age Castle surrounded by forests and lakes — a real “must” for our Nordic readers. It will show a magnificent new production of I puritani (already performed in Palermo and Bologna and scheduled for next year in Cagliari and Beijing). Teatro Massimo has also scheduled the traditional double bill Cav/Pag.
The Parma Regio starts its program abroad in late May in Wiesbaden with the innovative production of Nabucco unveiled at the October 2008 Verdi Festival.
Giuseppe Pennisi
sabato 23 maggio 2009
DAMA DI PICCHE A TORINO Il Velino 22 maggio
Ieri al Teatro Regio di Torino c’erano tutte le premesse per un disastro. L’opera “La Dama di Picche” di Pietr Ill’c Cajkovskij è una delle più elaborate da mettere in scena specialmente in una fase di tagli di bilancio: tre ore di musica, sette quadri, 15 solisti, doppio coro con 100 coristi, un coro di 25 bambini e anche una pantomima pastorale); il regista programmato per lo spettacolo (Dmitri Cherniakov) sparito senza lasciare tracce; il tenore (Misha Didyk) scomparso pure lui. Eppure i torinesi e il direttore musicale del Regio, Gianandrea Noseda, sono caparbi e, dopo decenni, una loro “Dama di Picche” la volevano. E non certo come quella importata alcuni anni fa al San Carlo dal Covent Garden, uno spettacolo “cheap”, essenzialmente di pessimo gusto. L’ultimo allestimento scenico a Torino, in traduzione ritmica italiana, risaliva al 1963 (al Teatro Nuovo) anche se non sono mancate edizioni in forma di concerto in lingua originale e versione integrale, all’auditorium Rai (la più recente nel 1990). Certo, date le ristrettezze, il Regio non poteva aspirare a una “Dama” analoga a quella che dal 1995 va in scena al Mariinsky di San Pietroburgo e che, in un elegante cofanetto color azzurro, è stata regalata da Vladimir Putin e dal suo staff a giornalisti e accompagnatori che hanno partecipato alle riunioni ministeriali del G8 tenutosi nella Federazione Russa.
“La Dama”, del 1890, è la penultima opera di Cajkovskij. Precede di tre anni “Iolanta”, una partitura di maniera che tenta di esprimere una visione estremamente e falsamente serena del mondo, proprio mentre il compositore ne riversava una visione totalmente negativa nella sesta sinfonia. Nel teatro musicale di Cajkovskij, “La Dama” (in cui ci sono molti spunti che troveremo ampliati nella sesta sinfonia) è l’opera che meglio esprime i tormenti interni che portarono il compositore, tre anni più tardi, a una morte misteriosa. Un decesso che numerosi biografi considerano un suicidio o un “suicidio ordinato”, a ragione dei crescenti scandali dovuti ai suoi rapporti con adolescenti maschi non solo appartenenti alla servitù della gleba, ampiamente tollerati se discreti, ma con figli di aristocratici e ricchi borghesi. A San Pietroburgo l’allestimento di Alexander Galibin (regia) e Alexander Orlov (scene e costumi) è tradizionale: dominano il bianco e nero, con cui contrastano violentemente il rosso fuoco della stanza da letto della Contessa, l’immenso verde macero della sala da gioco e i colori sgargianti (specialmente il blu) dei costumi della folla nei quadri del giardino d’estate e della festa. È una lunga marcia funebre verso la dissoluzione dei tre protagonisti e di coloro che li circondano. La fine di un’epoca al cui orizzonte si avvertono rulli di tamburo rivoluzionari.
Il tormento dei tre protagonisti, il bianco e nero e la lunga marcia, sono pure il tema centrale delle spettacolo del Regio firmato da Denis Krief (regia, scene e costumi) e Gianandrea Noseda. Non ci sono, però, grandi scene per rappresentare un Settecento di maniera. Cajkovskij scava nei propri problemi, incluse le passioni carnali, attraverso un Settecento visionario, quale veniva percepito alle soglie del Novecento. Chiamato di corsa a effettuare un vero e proprio salvataggio, Krief dice di avere concepito lo spettacolo in tre giorni e di averlo realizzato esclusivamente con le maestranze del Regio. C’ è una scena unica per i sette quadri, con pochi elementi per accennare ai giardini di San Pietroburgo, ai saloni delle feste, agli appartamenti della Contessa, alle bische, e alle caserme: una grande piattaforma verde che si scompone per rappresentare l’ossessione del protagonista per il gioco e l’inquietudine per le proprie tendenze sessuali punite, all’epoca, con l’esilio a vita nelle lande estreme della Siberia. I costumi sono atemporali, anche se ricordano la fine dell’Ottocento, periodo durante il quale venne composto il lavoro. Il bianco e nero diventa sempre più spettrale di atto in atto e di scena in scena; la stessa bisca in cui termina l’opera appare un lugubre cimitero in cui i giocatori sono fantasmi di una società ormai in decomposizione. Come sempre nelle regie di Krief, viene posto grande accento sulla recitazione: è teatro in musica non opera in cui si privilegia lo sfoggio delle doti canore di questo o di quello. La Contessa non è una vecchia grinzosa, ma una delle più belle donne del teatro d’opera (Anja Silja) ancora affascinante superati i 70 anni di età e una complicata vita amorosa. Uno spettacolo “low cost”, assicurano al Regio, ma anche elegantissimo. Un segnale esplicito rivolto ad altri teatri: si può risparmiare senza fare compromessi sulla qualità.
La direzione musicale di Noseda è secca, ancor più che asciutta. Manca la violenza di un Gergeev, la passione di uno Tchakarov e l’accento sulle anticipazioni novecentesche di uno Jurosvkij. Ma è comunque ineccepibile. L’orchestra risponde bene, specialmente gli archi e i fiati, mentre gli ottoni mancano a volte della morbidezza richiesta. I due cori si cimentano valentemente con la dizione in russo (la buona volontà copre alcune evidenti difficoltà di pronuncia). Dei protagonisti, il più atteso era il protagonista: Maksim Aksënov è, al tempo, un grande attore e un cantante strepitoso, specialmente nei “do”, nei legati e negli acuti, ma ha qualche difficoltà nel registro di centro. Svetla Vassilleva è una Lisa tenera e fragile, più adatta a questo repertorio che a quello verdiano. Anja Silja stupisce per come alla sua età riempia la scena, irradiandola di fascino. Dalibor Jenis ha un fraseggio morbido. Julia Gertseva sa primeggiare pur se non nei ruoli di protagonista a cui è abituata. È stato un grande successo. Si replica sino al 27 maggio. Ci si augura che lo spettacolo possa essere visto anche in altri teatri italiani.
“La Dama”, del 1890, è la penultima opera di Cajkovskij. Precede di tre anni “Iolanta”, una partitura di maniera che tenta di esprimere una visione estremamente e falsamente serena del mondo, proprio mentre il compositore ne riversava una visione totalmente negativa nella sesta sinfonia. Nel teatro musicale di Cajkovskij, “La Dama” (in cui ci sono molti spunti che troveremo ampliati nella sesta sinfonia) è l’opera che meglio esprime i tormenti interni che portarono il compositore, tre anni più tardi, a una morte misteriosa. Un decesso che numerosi biografi considerano un suicidio o un “suicidio ordinato”, a ragione dei crescenti scandali dovuti ai suoi rapporti con adolescenti maschi non solo appartenenti alla servitù della gleba, ampiamente tollerati se discreti, ma con figli di aristocratici e ricchi borghesi. A San Pietroburgo l’allestimento di Alexander Galibin (regia) e Alexander Orlov (scene e costumi) è tradizionale: dominano il bianco e nero, con cui contrastano violentemente il rosso fuoco della stanza da letto della Contessa, l’immenso verde macero della sala da gioco e i colori sgargianti (specialmente il blu) dei costumi della folla nei quadri del giardino d’estate e della festa. È una lunga marcia funebre verso la dissoluzione dei tre protagonisti e di coloro che li circondano. La fine di un’epoca al cui orizzonte si avvertono rulli di tamburo rivoluzionari.
Il tormento dei tre protagonisti, il bianco e nero e la lunga marcia, sono pure il tema centrale delle spettacolo del Regio firmato da Denis Krief (regia, scene e costumi) e Gianandrea Noseda. Non ci sono, però, grandi scene per rappresentare un Settecento di maniera. Cajkovskij scava nei propri problemi, incluse le passioni carnali, attraverso un Settecento visionario, quale veniva percepito alle soglie del Novecento. Chiamato di corsa a effettuare un vero e proprio salvataggio, Krief dice di avere concepito lo spettacolo in tre giorni e di averlo realizzato esclusivamente con le maestranze del Regio. C’ è una scena unica per i sette quadri, con pochi elementi per accennare ai giardini di San Pietroburgo, ai saloni delle feste, agli appartamenti della Contessa, alle bische, e alle caserme: una grande piattaforma verde che si scompone per rappresentare l’ossessione del protagonista per il gioco e l’inquietudine per le proprie tendenze sessuali punite, all’epoca, con l’esilio a vita nelle lande estreme della Siberia. I costumi sono atemporali, anche se ricordano la fine dell’Ottocento, periodo durante il quale venne composto il lavoro. Il bianco e nero diventa sempre più spettrale di atto in atto e di scena in scena; la stessa bisca in cui termina l’opera appare un lugubre cimitero in cui i giocatori sono fantasmi di una società ormai in decomposizione. Come sempre nelle regie di Krief, viene posto grande accento sulla recitazione: è teatro in musica non opera in cui si privilegia lo sfoggio delle doti canore di questo o di quello. La Contessa non è una vecchia grinzosa, ma una delle più belle donne del teatro d’opera (Anja Silja) ancora affascinante superati i 70 anni di età e una complicata vita amorosa. Uno spettacolo “low cost”, assicurano al Regio, ma anche elegantissimo. Un segnale esplicito rivolto ad altri teatri: si può risparmiare senza fare compromessi sulla qualità.
La direzione musicale di Noseda è secca, ancor più che asciutta. Manca la violenza di un Gergeev, la passione di uno Tchakarov e l’accento sulle anticipazioni novecentesche di uno Jurosvkij. Ma è comunque ineccepibile. L’orchestra risponde bene, specialmente gli archi e i fiati, mentre gli ottoni mancano a volte della morbidezza richiesta. I due cori si cimentano valentemente con la dizione in russo (la buona volontà copre alcune evidenti difficoltà di pronuncia). Dei protagonisti, il più atteso era il protagonista: Maksim Aksënov è, al tempo, un grande attore e un cantante strepitoso, specialmente nei “do”, nei legati e negli acuti, ma ha qualche difficoltà nel registro di centro. Svetla Vassilleva è una Lisa tenera e fragile, più adatta a questo repertorio che a quello verdiano. Anja Silja stupisce per come alla sua età riempia la scena, irradiandola di fascino. Dalibor Jenis ha un fraseggio morbido. Julia Gertseva sa primeggiare pur se non nei ruoli di protagonista a cui è abituata. È stato un grande successo. Si replica sino al 27 maggio. Ci si augura che lo spettacolo possa essere visto anche in altri teatri italiani.
venerdì 22 maggio 2009
I PAGLIACCI DI ZEFFIRELLI ARRIVANO IN LAMBRETTA Milano Finanza del 23 maggio
È in scena a Roma fino al 27 maggio il nuovo allestimento di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo con la regia di Franco Zeffirelli e la direzione musicale di Gianluigi Gelmetti. È uno spettacolo destinato a girare il mondo: dopo Firenze arriverà ad Atene e Mosca pare destinato ad approdare a New York. Zeffirelli ha realizzato numerose differenti edizioni del dramma in musica di Leoncavallo, tra cui una per il cinema. In quest'ultima ci si trova nella periferia di Napoli, in un ambiente degradato dove corrono lambrette (ma non mancano cavalli, asini e auto d'epoca), si spaccia e vagano prostitute multi-etniche. Come consueto nelle regie di Zeffirelli, c'è grande cura per i dettagli. In questo contesto napoletano, scoppia il drammone di tradimento coniugale e duplice omicidio (sia di moglie sia di amante) da parte del capocomico durante una rappresentazione in piazza organizzata da una troupe di poveri artisti ambulanti. L'estro della regia di Zeffirelli è nel differente taglio ai due atti: neorealistico il primo e onirico, quasi felliniano, il secondo.
Il lavoro di Leoncavallo ha ancora i suoi appassionati (nonostante le riserve di certa critica). Il teatro è sempre stracolmo e al botteghino ci sono le file. L'intesa tra regia e direzione musicale è perfetta. Fra i tre protagonisti spicca Myrtò Papatansiu, ottima nella recitazione e nell'emissione anche se con un volume non sempre adeguato per le dimensioni del Teatro dell'Opera. Stuart Neill è un tenore generoso che non si risparmia, infiamma il pubblico quando «spinge» ma risulta poco adatto nelle «mezze voci», dove va bene invece Seng-Hyoun Ko. Negli altri ruoli sono apprezzabili Danilo Formaggia e Domenico Balzani. In breve, uno spettacolo tradizionale e dai toni colossal, ma che merita di essere visto e ascoltato. (riproduzione riservata)
Il lavoro di Leoncavallo ha ancora i suoi appassionati (nonostante le riserve di certa critica). Il teatro è sempre stracolmo e al botteghino ci sono le file. L'intesa tra regia e direzione musicale è perfetta. Fra i tre protagonisti spicca Myrtò Papatansiu, ottima nella recitazione e nell'emissione anche se con un volume non sempre adeguato per le dimensioni del Teatro dell'Opera. Stuart Neill è un tenore generoso che non si risparmia, infiamma il pubblico quando «spinge» ma risulta poco adatto nelle «mezze voci», dove va bene invece Seng-Hyoun Ko. Negli altri ruoli sono apprezzabili Danilo Formaggia e Domenico Balzani. In breve, uno spettacolo tradizionale e dai toni colossal, ma che merita di essere visto e ascoltato. (riproduzione riservata)
L'INFLAZIONE BUSSA ALLA PORTA DELL'OCCIDENTE Il Tempo 22 maggio
L’INFLAZIONE BUSSA ALLE PORTE DELL’OCCIDENTE
Giuseppe Pennisi
Prepariamoci ad un secondo decennio del XXI secolo caratterizzato da un’ondata d’inflazione , in quella un tempo chiamata la “comunità economica atlantica” (Nord America ed Europa). Non sarà analoga all’inflazione che ha segnato gli Anni 70- tassi annui di aumento dei prezzi al consumo a due cifre, generalizzata in tutto il mondo. Da un lato, le aree “emergenti” (sarebbe meglio considerarle “emerse”) avranno incrementi dei prezzi più contenuti di quelli che caratterizzeranno la zona “atlantica” – sia perché applicano strumenti diretti di controllo e forme di razionamento sia poiché utilizzano in modo più disinvolto del resto del mondo il “prezzo dei prezzi”, ossia il tasso di cambio. Da altro, in base all’esperienza degli Anni 70 (e dei suoi strascichi negli Anni 80), nella comunità “atlantica” abbiamo imparato a meglio utilizzare il “fine tuning” (ossia il virtuosismo) delle politiche della moneta e del bilancio accompagnandolo con misure microeconomiche, mirate principalmente a potenziare la concorrenza. Anche senza cadere nella trappola degli Anni 70, si possono prevedere tassi annui d’aumento dei prezzi al consumo del 5-6%, con un conseguente inasprimento dei tassi d’interesse (specialmente duro per chi s’indebita a tasso variabile) ed una possibile revisione degli statuti Bce (la quale, secondo quanto oggi in vigore, sarebbe costretta ad applicare restrizioni severissime).
Quanto sino a ieri considerata un’ipotesi (pur se sempre più probabile) scaturente dai modelli econometrici – e dai sussurri e grida degli sherpa per l’ormai imminente G8- viene rivelato da quel si sa del piano FIAT (il testo integrale è ancora riservato) per mettere insieme le attività del Lingotto (con la Chrysler) con quelle dell’Opel, della Vauxhall e della GM) in Sud America. Il Tempo del 19 maggio ha indicato i termini della leva finanziaria tra i quattro punti a cui il piano avrebbe dovuto dare risposte. Su tre punti (sede della plancia di comando, metodi per fondere culture aziendali differenti, futuro degli stabilimenti in territorio italiano), le risposte non ci sono ancora state. Sulla leva finanziaria, invece, la FIAT è stata chiarissima: non intende aumentarla. La sua è un’offerta “no cash” (senza esborso di contante), dando in cambio “assets” principalmente intangibili, come le sinergie, il know how e la ricerca. “Non vuole coprire il rischio finanziario con il proprio capitale”, ha commentato il leader dei metalmeccanici tedeschi Klaus Franz. A questa considerazione micro-economica aziendalistica, si accompagna, però, quella che gli economisti chiamano una “preferenza rivelata” in termini di prospettive macroeconomiche: verosimilmente pure il suo ufficio studi ritiene che, come anticipato da Il Tempo, c’è un patto implicito per uscire dalla montagna di debito (negli Usa pari a tre volte il pil, in rapida crescita in Europa) facendo leva sull’inflazione – nonostante si tratti della più iniqua delle imposte. E’ la rotta segnata dagli “Obama boys”. Sta all’Ue avere la forza di farne adottare una ad essa altermativa.
Giuseppe Pennisi
Prepariamoci ad un secondo decennio del XXI secolo caratterizzato da un’ondata d’inflazione , in quella un tempo chiamata la “comunità economica atlantica” (Nord America ed Europa). Non sarà analoga all’inflazione che ha segnato gli Anni 70- tassi annui di aumento dei prezzi al consumo a due cifre, generalizzata in tutto il mondo. Da un lato, le aree “emergenti” (sarebbe meglio considerarle “emerse”) avranno incrementi dei prezzi più contenuti di quelli che caratterizzeranno la zona “atlantica” – sia perché applicano strumenti diretti di controllo e forme di razionamento sia poiché utilizzano in modo più disinvolto del resto del mondo il “prezzo dei prezzi”, ossia il tasso di cambio. Da altro, in base all’esperienza degli Anni 70 (e dei suoi strascichi negli Anni 80), nella comunità “atlantica” abbiamo imparato a meglio utilizzare il “fine tuning” (ossia il virtuosismo) delle politiche della moneta e del bilancio accompagnandolo con misure microeconomiche, mirate principalmente a potenziare la concorrenza. Anche senza cadere nella trappola degli Anni 70, si possono prevedere tassi annui d’aumento dei prezzi al consumo del 5-6%, con un conseguente inasprimento dei tassi d’interesse (specialmente duro per chi s’indebita a tasso variabile) ed una possibile revisione degli statuti Bce (la quale, secondo quanto oggi in vigore, sarebbe costretta ad applicare restrizioni severissime).
Quanto sino a ieri considerata un’ipotesi (pur se sempre più probabile) scaturente dai modelli econometrici – e dai sussurri e grida degli sherpa per l’ormai imminente G8- viene rivelato da quel si sa del piano FIAT (il testo integrale è ancora riservato) per mettere insieme le attività del Lingotto (con la Chrysler) con quelle dell’Opel, della Vauxhall e della GM) in Sud America. Il Tempo del 19 maggio ha indicato i termini della leva finanziaria tra i quattro punti a cui il piano avrebbe dovuto dare risposte. Su tre punti (sede della plancia di comando, metodi per fondere culture aziendali differenti, futuro degli stabilimenti in territorio italiano), le risposte non ci sono ancora state. Sulla leva finanziaria, invece, la FIAT è stata chiarissima: non intende aumentarla. La sua è un’offerta “no cash” (senza esborso di contante), dando in cambio “assets” principalmente intangibili, come le sinergie, il know how e la ricerca. “Non vuole coprire il rischio finanziario con il proprio capitale”, ha commentato il leader dei metalmeccanici tedeschi Klaus Franz. A questa considerazione micro-economica aziendalistica, si accompagna, però, quella che gli economisti chiamano una “preferenza rivelata” in termini di prospettive macroeconomiche: verosimilmente pure il suo ufficio studi ritiene che, come anticipato da Il Tempo, c’è un patto implicito per uscire dalla montagna di debito (negli Usa pari a tre volte il pil, in rapida crescita in Europa) facendo leva sull’inflazione – nonostante si tratti della più iniqua delle imposte. E’ la rotta segnata dagli “Obama boys”. Sta all’Ue avere la forza di farne adottare una ad essa altermativa.
giovedì 21 maggio 2009
RIPULIRSI DAL DEBITO FACENDO RICORSO ALL'INFLAZIONE E' LA CURA PEGGIORE L'Occidentale 21 maggio
La strategia economica implicita adottata dai maggiori Paesi industriali "punta" sull'inflazione. Ma l'inflazione è l’imposta più iniqua poiché colpisce sproporzionatamente le fasce più basse di reddito e di consumo. Non è detto, poi, che curi dal debito: l’esperienza degli Anni Settanta (soprattutto, in Italia, Usa e Regno Unito) indica, invece, l’opposto.
Le stime relative alla politica di bilancio e della moneta in atto per uscire dalla crisi vanno lette anche il profilo dell’etica pubblica. Non solamente nella maniera, relativamente riduttiva sviluppata sino ad ora quale la critica ai compensi per manager, che spesso si sono rivelati quanto meno incompetenti (si legga “Fool’s Gold”, “L’Oro del Cretino”, di Gillian Tett in uscita a Londra in questi giorni) ed inoltre hanno iniettato i germi del pasticciaccio finanziario.
Il nodo riguarda la strategia economica implicita adottata (più o meno di concerto) dai maggiori Paesi industriali.
Per il 2009, le stime sono di un disavanzo medio dei bilanci pubblici sul 9% del pil – quello stimato per l’Italia è la metà della media sia poiché il peso del debito pubblico costituisce un vincolo molto forte ai nostri margini di manovra sia a ragione dello stato di salute comparativamente buono (indubbiamente migliore di quello di molti altri Paesi) del nostro settore finanziario. Ancora più inquietanti, però, le cifre relative al debito complessivo (sia pubblico sia privato).
Dal 1997 (crisi asiatica) al 2007 (inizio della crisi internazionale), in tutti i Paesi Ocse il credito totale interno è cresciuto a tassi molto più sostenuti di quelli del pil nominale: l’Italia è stata relativamente virtuosa, mentre Irlanda, Spagna, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda , Austria e Germania sono andate a briglia sciolta. Nel 2008, i salvataggi di banche (e non solo) hanno accelerato la tendenza: nell’arco di due esercizi finanziari lo stock di debito pubblico e privato del Regno Unito è passato dal 40% all’80% del pil; negli stati il debito complessivo supera il 300% del pil – era al 150% nel 1929 (quando cominciò la Grande Depressione).
Un’Italia in condizioni migliori di altri in materia di bilancio e di credito vuol dire una forte etica della responsabilità all’ormai imminente G8: possiamo, e dobbiamo, dire cose che ad altri è difficile profferire.
I dati rivelano una strategia chiara (in ambito Ocse) anche se non palesata in documenti ufficiali: evitare di uscire dal peso del debito non con un basso tasso d’inflazione (per non cadere nelle trappole degli Anni Trenta) ma al contrario ripulirsi dal fardello (non solo da quello connesso ai titoli tossici) facendo ricorso all’inflazione (come avvenne negli Anni Settanta in seguito alla crisi petrolifere).
Con il forte aumento della liquidità degli ultimi due anni, è facile prevedere che nel 2001-2012 il tasso d’inflazione nei Paesi Ocse sarà almeno del 5-6% l’anno. Quale che sia l’etica pubblica di riferimento – quella aristotelica, quella kantiana, quella benthamiana e quella di Locke- ciò solleva gravi interrogativi: l’inflazione è l’imposta più iniqua poiché colpisce sproporzionatamente le fasce più basse di reddito e di consumo. Non è detto, poi, che curi dal debito: l’esperienza degli Anni Settanta (soprattutto, in Italia, Usa e Regno Unito) indica, invece, l’opposto.
Un giurista, Neil Buchanan, della George Washington University ha appena pubblicato un saggio intitolato “Furto Generazionale” indicando come ciò possa essere evitato unicamente applicando con rigore le misure di controllo interno e di controllo sociale delineate fare sì la spesa (pubblica e privata) finanziata con una forte leva finanziaria venga indirizzata ad attività ad alta produttività, tale da beneficiare le fasce deboli e le nuove generazioni. Di oggi e di domani.
Le stime relative alla politica di bilancio e della moneta in atto per uscire dalla crisi vanno lette anche il profilo dell’etica pubblica. Non solamente nella maniera, relativamente riduttiva sviluppata sino ad ora quale la critica ai compensi per manager, che spesso si sono rivelati quanto meno incompetenti (si legga “Fool’s Gold”, “L’Oro del Cretino”, di Gillian Tett in uscita a Londra in questi giorni) ed inoltre hanno iniettato i germi del pasticciaccio finanziario.
Il nodo riguarda la strategia economica implicita adottata (più o meno di concerto) dai maggiori Paesi industriali.
Per il 2009, le stime sono di un disavanzo medio dei bilanci pubblici sul 9% del pil – quello stimato per l’Italia è la metà della media sia poiché il peso del debito pubblico costituisce un vincolo molto forte ai nostri margini di manovra sia a ragione dello stato di salute comparativamente buono (indubbiamente migliore di quello di molti altri Paesi) del nostro settore finanziario. Ancora più inquietanti, però, le cifre relative al debito complessivo (sia pubblico sia privato).
Dal 1997 (crisi asiatica) al 2007 (inizio della crisi internazionale), in tutti i Paesi Ocse il credito totale interno è cresciuto a tassi molto più sostenuti di quelli del pil nominale: l’Italia è stata relativamente virtuosa, mentre Irlanda, Spagna, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda , Austria e Germania sono andate a briglia sciolta. Nel 2008, i salvataggi di banche (e non solo) hanno accelerato la tendenza: nell’arco di due esercizi finanziari lo stock di debito pubblico e privato del Regno Unito è passato dal 40% all’80% del pil; negli stati il debito complessivo supera il 300% del pil – era al 150% nel 1929 (quando cominciò la Grande Depressione).
Un’Italia in condizioni migliori di altri in materia di bilancio e di credito vuol dire una forte etica della responsabilità all’ormai imminente G8: possiamo, e dobbiamo, dire cose che ad altri è difficile profferire.
I dati rivelano una strategia chiara (in ambito Ocse) anche se non palesata in documenti ufficiali: evitare di uscire dal peso del debito non con un basso tasso d’inflazione (per non cadere nelle trappole degli Anni Trenta) ma al contrario ripulirsi dal fardello (non solo da quello connesso ai titoli tossici) facendo ricorso all’inflazione (come avvenne negli Anni Settanta in seguito alla crisi petrolifere).
Con il forte aumento della liquidità degli ultimi due anni, è facile prevedere che nel 2001-2012 il tasso d’inflazione nei Paesi Ocse sarà almeno del 5-6% l’anno. Quale che sia l’etica pubblica di riferimento – quella aristotelica, quella kantiana, quella benthamiana e quella di Locke- ciò solleva gravi interrogativi: l’inflazione è l’imposta più iniqua poiché colpisce sproporzionatamente le fasce più basse di reddito e di consumo. Non è detto, poi, che curi dal debito: l’esperienza degli Anni Settanta (soprattutto, in Italia, Usa e Regno Unito) indica, invece, l’opposto.
Un giurista, Neil Buchanan, della George Washington University ha appena pubblicato un saggio intitolato “Furto Generazionale” indicando come ciò possa essere evitato unicamente applicando con rigore le misure di controllo interno e di controllo sociale delineate fare sì la spesa (pubblica e privata) finanziata con una forte leva finanziaria venga indirizzata ad attività ad alta produttività, tale da beneficiare le fasce deboli e le nuove generazioni. Di oggi e di domani.
mercoledì 20 maggio 2009
Opera, trionfano a Roma i “Pagliacci” di Zeffirelli e Gelmetti, Il Velino 20 maggio
CLT -
Opera, trionfano a Roma i “Pagliacci” di Zeffirelli e Gelmetti
Roma, 20 mag (Velino) - L’opera lirica “ Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, portata in scena la prima volta nel 1892, è un prototipo del grande “dramma in musica” del Novecento, che in Italia prese il nome di “verismo”. Ispirato a un reale fatto di cronaca accaduto quando Leoncavallo aveva 14 anni e del quale si occupò suo padre, magistrato in Calabria, “ Pagliacci” di “verista” possiede la trama, o meglio il “fattaccio”, tratto, come si è detto, dalle cronache giudiziarie. Ma la musica, molto più elaborata di quanto mostrino le esecuzioni di maniera, scava, in modo espressionistico, nei personaggi e nelle situazioni molto più di quanto non riesca a fare l’azione scenica. Il prologo è un vero e proprio manifesto dell’estetica dell’opera “verista”, ma la grande e curata orchestrazione, il declamato che scivola in ariosi e lo stringato finale, collocano il lavoro già nel solco di quello che sarebbe stato l’espressionismo, mai davvero affermatosi in Italia.
Unitamente a gran parte della produzione “verista”, nonché della musica italiana degli anni Trenta, su cui è stata gettata una coltre di oblio, “ Pagliacci” è oggi snobbato da buona parte della critica, ma attira il pubblico. L’edizione presentata ieri a Roma, in scena sino al 27 maggio, è stata salutata da un Teatro dell’Opera stracolmo e da file al botteghino, nonostante il lavoro (due atti ma appena 70 minuti di musica) non fosse accompagnato, come di consueto, da “ Cavalleria Rusticana ” ma preceduto da tre brani orchestrali di Pietro Mascagni.
Che al pubblico piaccia il “drammone strappalacrime” ambientato nel proletariato del Sud, lo conferma il ricordo del successo raccolto alcuni anni fa, in piena estate e al chiuso del “Costanzi”, dall’edizione curata da Liliana Cavani, co-prodotta dai teatri di Bologna e di Catania, in cui si coglieva a pieno questo aspetto espressionista di “ Pagliacci ”. Allora le sfumature potevano essere colte in una serata in cui l’orchestra era guidata con perizia da Pier Giorgio Moranti e i tre ruoli principali affidati a Svetla Vassileva, José Cura e Leo Nucci, quanto di meglio, cioè, fosse disponibile sulla scena lirica per dare vita a Nedda, Canio e Tonio.
L’allestimento romano, per la regia di Franco Zeffirelli e la direzione musicale di Gianluigi Gelmetti, è destinato a girare il mondo. Dopo Firenze, Atene e Mosca pare destinato a New York, dove il regista fiorentino è particolarmente apprezzato (il “Met” gli ha dedicato un festival con la ripresa di tutti i suoi maggiori lavori messi in scena nel più importante teatro di Manhattan) e pure in altre piazze. Zeffirelli ha realizzato numerose edizioni del dramma in musica di Leoncavallo, tra cui una per il cinema. Sono tutte differenti. Tra le più recenti, da ricordare quella scaligera degli anni Ottanta, in cui l’azione venne situata in epoca fascista, e quella romana degli anni Novanta, interamente ambientata sotto un cavalcavia nei pressi di Casoria, alla periferia di Napoli. In quest’ultima, in un ambiente degradato di palazzoni fatiscenti, dove correvano lambrette e moto giapponesi (ma non mancavano cavalli, asini e auto d’epoca), si respirava aria di camorra, si spacciava e vi vagavano tra i 200 personaggi in scena prostitute multietniche.
Come è consuetudine nelle regie di Zeffirelli, è stata rivolta grande cura ai dettagli e non si cade mai nel volgare. La stessa scena del tentativo di violenza carnale da parte di Tonio nei confronti di Nedda è svolta con tatto e delicatezza. In questo contesto di squallore e povertà, scoppia il drammone del tradimento coniugale e del duplice omicidio (della moglie e dell’amante) da parte del capocomico durante una rappresentazione in piazza organizzata da una troupe di poveri artisti ambulanti. L’estro della regia di Zeffirelli è nel differente taglio ai due atti: neorealistico il primo e onirico, quasi felliniano, il secondo. Coglie, quindi, a pieno i fermenti espressionistici nella partitura di Leoncavallo, fermenti spesso sottovalutati da parte della critica.
Perfetta l’intesa tra la regia e la direzione musicale. Tra i tre protagonisti spicca Myrtò Papatanasiu (Nedda) perfetta nella recitazione e nell’emissione anche se con un volume non sempre adeguato per le dimensioni del Teatro dell’Opera. Stuart Neill (Canio) è un tenorone generoso che non si risparmia, infiamma il pubblico quando “spinge”, ma è poco adatto nelle “mezze voci”, dove va bene invece Seng-Hyoun Ko (Tonio). Negli altri ruoli, apprezzabili Danilo Formaggia (Peppe) e Domenico Balzani (Silvio). In breve, uno spettacolo tradizionale e dai toni colossal, ma che merita di essere visto ed ascoltato.
(Hans Sachs) 20 mag 2009 13:41
Opera, trionfano a Roma i “Pagliacci” di Zeffirelli e Gelmetti
Roma, 20 mag (Velino) - L’opera lirica “ Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, portata in scena la prima volta nel 1892, è un prototipo del grande “dramma in musica” del Novecento, che in Italia prese il nome di “verismo”. Ispirato a un reale fatto di cronaca accaduto quando Leoncavallo aveva 14 anni e del quale si occupò suo padre, magistrato in Calabria, “ Pagliacci” di “verista” possiede la trama, o meglio il “fattaccio”, tratto, come si è detto, dalle cronache giudiziarie. Ma la musica, molto più elaborata di quanto mostrino le esecuzioni di maniera, scava, in modo espressionistico, nei personaggi e nelle situazioni molto più di quanto non riesca a fare l’azione scenica. Il prologo è un vero e proprio manifesto dell’estetica dell’opera “verista”, ma la grande e curata orchestrazione, il declamato che scivola in ariosi e lo stringato finale, collocano il lavoro già nel solco di quello che sarebbe stato l’espressionismo, mai davvero affermatosi in Italia.
Unitamente a gran parte della produzione “verista”, nonché della musica italiana degli anni Trenta, su cui è stata gettata una coltre di oblio, “ Pagliacci” è oggi snobbato da buona parte della critica, ma attira il pubblico. L’edizione presentata ieri a Roma, in scena sino al 27 maggio, è stata salutata da un Teatro dell’Opera stracolmo e da file al botteghino, nonostante il lavoro (due atti ma appena 70 minuti di musica) non fosse accompagnato, come di consueto, da “ Cavalleria Rusticana ” ma preceduto da tre brani orchestrali di Pietro Mascagni.
Che al pubblico piaccia il “drammone strappalacrime” ambientato nel proletariato del Sud, lo conferma il ricordo del successo raccolto alcuni anni fa, in piena estate e al chiuso del “Costanzi”, dall’edizione curata da Liliana Cavani, co-prodotta dai teatri di Bologna e di Catania, in cui si coglieva a pieno questo aspetto espressionista di “ Pagliacci ”. Allora le sfumature potevano essere colte in una serata in cui l’orchestra era guidata con perizia da Pier Giorgio Moranti e i tre ruoli principali affidati a Svetla Vassileva, José Cura e Leo Nucci, quanto di meglio, cioè, fosse disponibile sulla scena lirica per dare vita a Nedda, Canio e Tonio.
L’allestimento romano, per la regia di Franco Zeffirelli e la direzione musicale di Gianluigi Gelmetti, è destinato a girare il mondo. Dopo Firenze, Atene e Mosca pare destinato a New York, dove il regista fiorentino è particolarmente apprezzato (il “Met” gli ha dedicato un festival con la ripresa di tutti i suoi maggiori lavori messi in scena nel più importante teatro di Manhattan) e pure in altre piazze. Zeffirelli ha realizzato numerose edizioni del dramma in musica di Leoncavallo, tra cui una per il cinema. Sono tutte differenti. Tra le più recenti, da ricordare quella scaligera degli anni Ottanta, in cui l’azione venne situata in epoca fascista, e quella romana degli anni Novanta, interamente ambientata sotto un cavalcavia nei pressi di Casoria, alla periferia di Napoli. In quest’ultima, in un ambiente degradato di palazzoni fatiscenti, dove correvano lambrette e moto giapponesi (ma non mancavano cavalli, asini e auto d’epoca), si respirava aria di camorra, si spacciava e vi vagavano tra i 200 personaggi in scena prostitute multietniche.
Come è consuetudine nelle regie di Zeffirelli, è stata rivolta grande cura ai dettagli e non si cade mai nel volgare. La stessa scena del tentativo di violenza carnale da parte di Tonio nei confronti di Nedda è svolta con tatto e delicatezza. In questo contesto di squallore e povertà, scoppia il drammone del tradimento coniugale e del duplice omicidio (della moglie e dell’amante) da parte del capocomico durante una rappresentazione in piazza organizzata da una troupe di poveri artisti ambulanti. L’estro della regia di Zeffirelli è nel differente taglio ai due atti: neorealistico il primo e onirico, quasi felliniano, il secondo. Coglie, quindi, a pieno i fermenti espressionistici nella partitura di Leoncavallo, fermenti spesso sottovalutati da parte della critica.
Perfetta l’intesa tra la regia e la direzione musicale. Tra i tre protagonisti spicca Myrtò Papatanasiu (Nedda) perfetta nella recitazione e nell’emissione anche se con un volume non sempre adeguato per le dimensioni del Teatro dell’Opera. Stuart Neill (Canio) è un tenorone generoso che non si risparmia, infiamma il pubblico quando “spinge”, ma è poco adatto nelle “mezze voci”, dove va bene invece Seng-Hyoun Ko (Tonio). Negli altri ruoli, apprezzabili Danilo Formaggia (Peppe) e Domenico Balzani (Silvio). In breve, uno spettacolo tradizionale e dai toni colossal, ma che merita di essere visto ed ascoltato.
(Hans Sachs) 20 mag 2009 13:41
martedì 19 maggio 2009
Alla ricerca di un'economia per il dopo-crisi Ffwegmagazine del 19 maggio
Alla ricerca di un'economia
per il dopo-crisi
di Giuseppe Pennisi Su Ffwebmagazine del 30 marzo, sono stati commentati una serie di indicatori presentati a un seminario internazionale tenuto a Montecitorio, su iniziativa del presidente della Camera, in base ai quali si dimostrava che nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale, l’economia italiana stesse reggendo meglio di molte altre e avesse la capacità per piazzarsi, nel dopo-crisi, in una posizione comparativamente migliore di quella in cui nel 2007 (alle soglie, quindi, del marasma delle Borse). Ci si basava su dati, ancora preliminari, di una ricerca della Fondazione Edison. Adesso, nonostante i dati sul debito pubblico (ancorché fisiologici in una fase di recessione) abbiano fatto esultare catastrofisti e sfasciti (il partito del “tanto peggio, tanto meglio”) arrivano autorevoli conferme delle indicazioni fornite su Ffwebmagazine.
I dati mensili più recenti del consensus (venti istituti econometrici privati, nessuno italiani) – pubblicati il 9 maggio – affermano che la contrazione del Pil italiano è in linea con la media dell’area dell’euro ma che – è questo il dato significativo – nel 2010 avremo una crescita ancora contenuta (1,4%) ma comparativamente molto più alta della media dell’area dell’euro (1%). Inoltre, nonostante l’aumento dello stock di debito pubblico, nel 2009 il rapporto indebitamento netto della pubblica amministrazione e pil si assesterà sul 4,5% mentre la media per i maggiori Paesi Ocse sarà il 9% (a ragione in gran misura dei salvataggi che Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Belgio hanno dovuto effettuare a spese dei contribuenti.
Per meglio comprendere il contesto è bene leggere un libro in uscita in questi giorni: il saggio di Bruno Costi, presidente del Club dell’Economia e manager industriale dopo una brillante carriera giornalistica, Alla ricerca dell’economia perduta – Le proposte di politica economica in Italia dal 2001 al 2008 (Ed. I Quaderni di Economia Italiana – Unicredit Group). In circa 350 pagine scritte in linguaggio molto chiaro aiuta a comprendere “l’eccezione italiana” nell’attuale crisi internazionale. In particolare, a capire come mai non siamo dovuti ricorrere a salvataggi bancari e a nazionalizzazioni come hanno fatto Usa, Gran Bretagna, Germania e Belgio, perché il nostro tasso di occupazione è cambiato meno che in altri paesi nonostante la caduta del pil e soprattutto quali sono i punti di forza che si annidano dietro quelli che sembrano punti di debolezza (la rete di piccole e medie imprese).
Il saggio passa in rassegna l’evoluzione dell’economia e della politica economica italiana nel primo decennio del XXI secolo e le prospettive per il prossimo futuro raccontando e commentando i documenti di politica economica (principalmente i Dpef) prodotti dai governi in carica e soffermandosi su alcuni temi di importanza strategica (i programmi per le infrastrutture, le riforme del fisco, del mercato del lavoro, della previdenza complementare, le liberalizzazioni). Consente, quindi, di cogliere tanto il cambiamento quanto i contraccolpi e i passi indietro. Permette anche di toccare con mano (pure ai non specialisti) la “cassetta degli attrezzi” di cui dispone la politica per trattare i complessi temi e problemi di politica economica del XXI secolo.
È un volume interessante proprio in quanto esamina sia le promesse e le prospettive che avevamo all’inizio del secolo sia le proposte di politica economica effettuate nella XIVe nella XV legislatura nonché nel primo scorcio della XVI legislatura. Dall’esame delle proposte (sia macro-economiche sia settoriali sia micro-economiche) si tocca con mano come esse si siano dovute adattare a forti determinanti esterne (le tensioni successive all’attacco alle Torri Gemelle, la crisi finanziaria in atto da metà 2007). Si realizza anche come nella XV legislatura si siano fatti pensati passi indietro sia sui contenuti (aumento della spesa pubblica di parte corrente, contro-riforma della previdenza) sia sulle procedure (l’introduzione dei decreti mille proroghe non neutri, come in passato, rispetto alla politica economica ma tali da essere “un’appendice particolarmente costosa” di un governo in pratica già dimissionato). I primi peseranno sulle nuove generazioni. I secondi costituiscono un cattivo precedente da non seguire. È chiaro che le politiche nazionali sono sempre più vincolate dai comportamenti del mercato globale, in cui la finanza tende a dominare l’economia reale. Tuttavia, più che alla “ricerca dell’economia perduta”, siamo (non solo l’Italia) alla ricerca della politica economica per il dopo-crisi.
19 maggio 2009
per il dopo-crisi
di Giuseppe Pennisi Su Ffwebmagazine del 30 marzo, sono stati commentati una serie di indicatori presentati a un seminario internazionale tenuto a Montecitorio, su iniziativa del presidente della Camera, in base ai quali si dimostrava che nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale, l’economia italiana stesse reggendo meglio di molte altre e avesse la capacità per piazzarsi, nel dopo-crisi, in una posizione comparativamente migliore di quella in cui nel 2007 (alle soglie, quindi, del marasma delle Borse). Ci si basava su dati, ancora preliminari, di una ricerca della Fondazione Edison. Adesso, nonostante i dati sul debito pubblico (ancorché fisiologici in una fase di recessione) abbiano fatto esultare catastrofisti e sfasciti (il partito del “tanto peggio, tanto meglio”) arrivano autorevoli conferme delle indicazioni fornite su Ffwebmagazine.
I dati mensili più recenti del consensus (venti istituti econometrici privati, nessuno italiani) – pubblicati il 9 maggio – affermano che la contrazione del Pil italiano è in linea con la media dell’area dell’euro ma che – è questo il dato significativo – nel 2010 avremo una crescita ancora contenuta (1,4%) ma comparativamente molto più alta della media dell’area dell’euro (1%). Inoltre, nonostante l’aumento dello stock di debito pubblico, nel 2009 il rapporto indebitamento netto della pubblica amministrazione e pil si assesterà sul 4,5% mentre la media per i maggiori Paesi Ocse sarà il 9% (a ragione in gran misura dei salvataggi che Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Belgio hanno dovuto effettuare a spese dei contribuenti.
Per meglio comprendere il contesto è bene leggere un libro in uscita in questi giorni: il saggio di Bruno Costi, presidente del Club dell’Economia e manager industriale dopo una brillante carriera giornalistica, Alla ricerca dell’economia perduta – Le proposte di politica economica in Italia dal 2001 al 2008 (Ed. I Quaderni di Economia Italiana – Unicredit Group). In circa 350 pagine scritte in linguaggio molto chiaro aiuta a comprendere “l’eccezione italiana” nell’attuale crisi internazionale. In particolare, a capire come mai non siamo dovuti ricorrere a salvataggi bancari e a nazionalizzazioni come hanno fatto Usa, Gran Bretagna, Germania e Belgio, perché il nostro tasso di occupazione è cambiato meno che in altri paesi nonostante la caduta del pil e soprattutto quali sono i punti di forza che si annidano dietro quelli che sembrano punti di debolezza (la rete di piccole e medie imprese).
Il saggio passa in rassegna l’evoluzione dell’economia e della politica economica italiana nel primo decennio del XXI secolo e le prospettive per il prossimo futuro raccontando e commentando i documenti di politica economica (principalmente i Dpef) prodotti dai governi in carica e soffermandosi su alcuni temi di importanza strategica (i programmi per le infrastrutture, le riforme del fisco, del mercato del lavoro, della previdenza complementare, le liberalizzazioni). Consente, quindi, di cogliere tanto il cambiamento quanto i contraccolpi e i passi indietro. Permette anche di toccare con mano (pure ai non specialisti) la “cassetta degli attrezzi” di cui dispone la politica per trattare i complessi temi e problemi di politica economica del XXI secolo.
È un volume interessante proprio in quanto esamina sia le promesse e le prospettive che avevamo all’inizio del secolo sia le proposte di politica economica effettuate nella XIVe nella XV legislatura nonché nel primo scorcio della XVI legislatura. Dall’esame delle proposte (sia macro-economiche sia settoriali sia micro-economiche) si tocca con mano come esse si siano dovute adattare a forti determinanti esterne (le tensioni successive all’attacco alle Torri Gemelle, la crisi finanziaria in atto da metà 2007). Si realizza anche come nella XV legislatura si siano fatti pensati passi indietro sia sui contenuti (aumento della spesa pubblica di parte corrente, contro-riforma della previdenza) sia sulle procedure (l’introduzione dei decreti mille proroghe non neutri, come in passato, rispetto alla politica economica ma tali da essere “un’appendice particolarmente costosa” di un governo in pratica già dimissionato). I primi peseranno sulle nuove generazioni. I secondi costituiscono un cattivo precedente da non seguire. È chiaro che le politiche nazionali sono sempre più vincolate dai comportamenti del mercato globale, in cui la finanza tende a dominare l’economia reale. Tuttavia, più che alla “ricerca dell’economia perduta”, siamo (non solo l’Italia) alla ricerca della politica economica per il dopo-crisi.
19 maggio 2009
lunedì 18 maggio 2009
QUALE SARA’ IL FUTURO DI TORINO? Il Tempo 19 maggio
Il 20 maggio l’Amministratore Delegato della FIAT, Sergio Marchionne, presenterà il piano di sviluppo dell’azienda. Ci sono quattro domande chiave a cui il piano deve dare risposte esaurienti, quali che siano tutte le altre risposte a tutte le altre domande che un programma di acquisizioni e fusioni così complesso è destinato a sollevare:
La prima è di politica pubblica. La strategia delineata dal management FIAT nelle ultime settimane pare basata su una rete di alleanze e di partecipazioni tale da fare entrare tra le prime in classifica al mondo quella che oggi è la più piccola (in termini di produzione) tra le case automobilistiche di portata internazionale..La natura stessa della FIAT cambierebbe: da multinazionale “italiana” a multinazionale “tout court”: il passaggio verrebbe facilitato dallo scorporo societario deliberato all’inizio di maggio dal CdA della capofila. Per una multinazionale “tout court” è indifferente se la testa ed il cervello sono a Torino o, a Detroit oppure a Rüsselsheim oppure ancora al Polo Nord. Sotto il profilo dell’analisi dei costi e dei benefici di politica pubblica per l’Italia, ciò non è indifferente. Anche a ragione del sostegno che la FIAT ha sempre avuto dai contribuenti italiani.
La seconda concerne l’economia e d’organizzazione aziendale Fondere culture d’impresa così diverse non è un compito facile. La FIAT è reduce da una rottura di fidanzamento con la GM ( in cui Detroit ha liquidato con 2 miliardi di dollari Torino per di evitare di consumare un matrimonio non più desiderato). Le nozze tra Chrysler e Daimler –Benz non sono state idilliache; sono terminate in un divorzio che lasciato esangue una delle parti. Sottostimare il problema (e non dare risposte convincenti) potrebbe essere fatale.
La terza riguarda la finanza Mentre la Chrysler viene acquisita a costo zero (togliendo qualche castagna dal fuoco all’Amministrazione Obama, che si stropiccia le mani dalla gioia), l’acquisto dell’Opel e di altre attività GM richiederebbe un “prestito ponte” di 5-10 miliardi di euro (che si aggiungerebbe ad un debito consolidato FIAT stimato sugli 8-10 miliardi di euro). Ciò può parere sostenibile ai bassi tassi d’interesse attuali. Sono state fatte simulazioni dettagliate di cosa accadrebbe se, con l’aumento della liquidità in atto da due anni, nel 2012 o giù di lì l’inflazione tornasse sul 5% l’anno ed i tassi subissero un rialzo conseguente? E’ bene che tali simulazioni vengano mostrate e discusse poiché un indebitamento che non fosse sostenibile potrebbe avere conseguenze dirompenti.
La quarta è di politica economico-sociale. Secondo stime tedesche, l’accorpamento della FIAT con Chrysler e pezzi di GM (tra cui Opel) comporterebbe uno snellimento occupazionale di 24.000 unità. Con le tecnologie oggi conosciute, ciò non vuole dire un’operazione di bisturi in tutti gli stabilimenti. Alcuni dovrebbero essere chiusi. Occorre sapere quali. Anche in quanto ce ne sono realizzati con un apporto non indifferente dei contribuenti per le spese d’impianto e di avvio.
La prima è di politica pubblica. La strategia delineata dal management FIAT nelle ultime settimane pare basata su una rete di alleanze e di partecipazioni tale da fare entrare tra le prime in classifica al mondo quella che oggi è la più piccola (in termini di produzione) tra le case automobilistiche di portata internazionale..La natura stessa della FIAT cambierebbe: da multinazionale “italiana” a multinazionale “tout court”: il passaggio verrebbe facilitato dallo scorporo societario deliberato all’inizio di maggio dal CdA della capofila. Per una multinazionale “tout court” è indifferente se la testa ed il cervello sono a Torino o, a Detroit oppure a Rüsselsheim oppure ancora al Polo Nord. Sotto il profilo dell’analisi dei costi e dei benefici di politica pubblica per l’Italia, ciò non è indifferente. Anche a ragione del sostegno che la FIAT ha sempre avuto dai contribuenti italiani.
La seconda concerne l’economia e d’organizzazione aziendale Fondere culture d’impresa così diverse non è un compito facile. La FIAT è reduce da una rottura di fidanzamento con la GM ( in cui Detroit ha liquidato con 2 miliardi di dollari Torino per di evitare di consumare un matrimonio non più desiderato). Le nozze tra Chrysler e Daimler –Benz non sono state idilliache; sono terminate in un divorzio che lasciato esangue una delle parti. Sottostimare il problema (e non dare risposte convincenti) potrebbe essere fatale.
La terza riguarda la finanza Mentre la Chrysler viene acquisita a costo zero (togliendo qualche castagna dal fuoco all’Amministrazione Obama, che si stropiccia le mani dalla gioia), l’acquisto dell’Opel e di altre attività GM richiederebbe un “prestito ponte” di 5-10 miliardi di euro (che si aggiungerebbe ad un debito consolidato FIAT stimato sugli 8-10 miliardi di euro). Ciò può parere sostenibile ai bassi tassi d’interesse attuali. Sono state fatte simulazioni dettagliate di cosa accadrebbe se, con l’aumento della liquidità in atto da due anni, nel 2012 o giù di lì l’inflazione tornasse sul 5% l’anno ed i tassi subissero un rialzo conseguente? E’ bene che tali simulazioni vengano mostrate e discusse poiché un indebitamento che non fosse sostenibile potrebbe avere conseguenze dirompenti.
La quarta è di politica economico-sociale. Secondo stime tedesche, l’accorpamento della FIAT con Chrysler e pezzi di GM (tra cui Opel) comporterebbe uno snellimento occupazionale di 24.000 unità. Con le tecnologie oggi conosciute, ciò non vuole dire un’operazione di bisturi in tutti gli stabilimenti. Alcuni dovrebbero essere chiusi. Occorre sapere quali. Anche in quanto ce ne sono realizzati con un apporto non indifferente dei contribuenti per le spese d’impianto e di avvio.
domenica 17 maggio 2009
I CONTI DI COGNATA, Musica maggio
Il Massimo di Palermo, teatro costruito alla fine dell’Ottocento su un progetto dell’Architetto G.B. Filippo Basile, è un teatro fortemente radicato nella città, che lo considera uno dei suoi simboli: lo dimostra che gli abbonamenti coprono oltre il 60% dei posti disponibili nella platea e nei palchi, che tra i soci fondatori c’è uno dei maggiori gruppi bancari italiani ed europei e che tra i sostenitori si annoverano alcune delle principali imprese della Sicilia. Il Massimo è stato travagliato da deficit e debiti crescenti sino al 2004: nel 2002 aveva un disavanzo di 13 milioni di euro ed uno stock di debito 26 milioni di euro. Il commissariamento sembrava alle porte quando si è avuto un cambiamento di gestione. Da allora il Sovrintendente è Antonio Cognata, professore di politica economica all’ateneo di Palermo ma profondo conoscitore del teatro dove ha avuto numerosi incarichi, da segretario del Consiglio d’Amministrazione e direttore operativo, negli Anni Novanta. Abbiamo avuto uno scambio di idee in margine alla “prima” di “Die tote Stadt” di Erich Wolfgang Korngold, una novità assoluta per Palermo.
Cognata sta attuando una rigorosa politica di risanamento tanto che alcuni collegano con la sua strategia di riduzione dei costi e di aumento dei ricavi una delle possibili determinanti dell’aggressione subita la sera di Giovedì Santo mentre, lasciato il Massimo, stava rientrando a casa. Iniziamo, quindi, dal riassetto dei conti.
“Lo stock di debito viene gradualmente ripianato tramite un mutuo (da rimborsare su un periodo di 20 anni). Una politica artistica basata su co-produzioni con i maggiori teatri italiani e esteri, e presentazione di “prime” assolute per l’Italia, nonché coniugata con una ferrea economia di gestione ha fatto sì che il bilancio consuntivo del 2008 abbia riportato un saldo attivo di 1,5 milioni di euro destinato a coprire le perdite pregresse. Il saldo finanziario attivo rispecchia anche l’aumento di rappresentazioni e di presenze, segno di rinnovato interesse della città per il “suo” teatro, nonché la crescente presenza internazionale – siamo stati invitati all'edizione 2009 del prestigioso Festival di Savonlinna in Finlandia ed in Giappone (dove nel 2007 abbiamo avuto ben 20.000 spettatori). Tale interesse è dimostrato dall’apporto degli sponsor. Dal 2007, inoltre, il Banco di Sicilia – oggi intero Unicredit Group - eroga 1.5 milioni di euro di contributi l’anno ed è entrato come socio privato nella fondazione. Per la riduzione dei costi è stata essenziale non solo la politica di co-produzione ma anche una serie di misure per rendere più efficiente il funzionamento interno del teatro: una nuova organizzazione del lavoro ed una banca dati semestrale hanno consentito di abolire gli orari straordinari; l’applicazione di appalti seguendo regole europee – e per le partite più importanti lanciati a tutti i potenziali fornitori dell’UE – ha permesso di dimezzare le spese per servizi esterni; anche la riduzione dei telefoni di servizio (da un centinaio ad una ventina) ha portato a una riduzione dei costi. Si sono ridotte sia le spese per personale dipendente sia per artisti, applicando la normativa sul lavoro e tenendo conto delle nuove condizioni di mercato internazionale, nonché di nuovi mercati dove individuare artisti di livello: alcune nostre “scoperte” sono oggi protagonisti assoluti dei maggiori teatri europei ed americani”.
Ha già influito sulla produzione?
“Si possono fare allestimenti a basso costo, come il “Lohengrin” che ha inaugurato la stagione 2009, ma di grande valore artistico come riconosciuto dalla stampa italiana ed estera. Dal 2003, il numero di rappresentazioni di opere e balletti è passato da 80 a 105 l’anno, quello di concerti da una dozzina a 35-40 l’anno, gli spettatori paganti sono aumentati da 80.000 a 105.000. Co-produciamo con i maggiori teatri italiani e stranieri e gli allestimenti creati “in casa” hanno un grande successo in altri teatri di tutto il mondo”.
Quindi, non pare necessario cambiare la normativa di base che regola le fondazioni lirico-sinfoniche.
“Non è necessario; preconizzare una rivoluzione per cambiare tutto significa gattopardescamente non voler mutare nulla. La normativa è solida ed offre opportunità, a chi sa utilizzarla. I contributi da soci privati alle fondazioni ammontano a circa 40 milioni di euro l’anno; quelli dei comuni a 55 milioni di euro l’anno. Vivendo di solo Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) si sarebbe gradualmente morti per mancanza di alimentazione. Indubbiamente, le regole devono essere applicate non aggirate e possono essere migliorate: per il riparto del Fus, si dovrebbe introdurre un metodo analogo a quello utilizzato, con esiti lusinghieri, per i Fondi strutturali europei: incentivare le fondazioni virtuose (con bilanci consuntivi in attivo) con una “premialità”, ossia uno stanziamento addizionale che permetta loro di migliorare ulteriormente la qualità dell’offerta nella stagione successiva e di converso, disincentivare i bilanci in perdita, con una riduzione dello stanziamento nell’esercizio seguente. Una proposta liberale e di mercato, diretta ad incoraggiare chi segue meglio le regole e porta a casa i risultati finanziari migliori, senza trascurare quelli artistici (anzi esaltandoli)”.
Come favorire l’ingresso in teatro di nuove generazioni?
“Il Massimo ha ampliato il proprio pubblico anche tramite un programma mirato ad avvicinare alla “musa bizzarra e altera”, l’opera lirica, i più giovani. Dal 2006, è in atto infatti un programma “La Scuola va al Massimo” che coinvolge circa 160 scuole di Palermo e dell’hinterland e che porta in teatro per una decina di recite l’anno complessivamente circa 25.000 bambini e ragazzi introducendoli a spettacoli che possano incuriosirli e divertirli. Dal 2008 abbiamo aperto un turno di abbonamento esclusivamente dedicato agli studenti e che da due anni è tutto esaurito. È uno strumento importante perché un prodotto nato e sviluppato in Italia (e che nell’Ottocento ha avuto nel nostro Paese il suo maggior successo commerciale, oltre che artistico) non impoverisca; cerchiamo così di creare quel “sottostante” di cultura musicale che rende possibile il fiorire della lirica in altri Paesi
Cognata sta attuando una rigorosa politica di risanamento tanto che alcuni collegano con la sua strategia di riduzione dei costi e di aumento dei ricavi una delle possibili determinanti dell’aggressione subita la sera di Giovedì Santo mentre, lasciato il Massimo, stava rientrando a casa. Iniziamo, quindi, dal riassetto dei conti.
“Lo stock di debito viene gradualmente ripianato tramite un mutuo (da rimborsare su un periodo di 20 anni). Una politica artistica basata su co-produzioni con i maggiori teatri italiani e esteri, e presentazione di “prime” assolute per l’Italia, nonché coniugata con una ferrea economia di gestione ha fatto sì che il bilancio consuntivo del 2008 abbia riportato un saldo attivo di 1,5 milioni di euro destinato a coprire le perdite pregresse. Il saldo finanziario attivo rispecchia anche l’aumento di rappresentazioni e di presenze, segno di rinnovato interesse della città per il “suo” teatro, nonché la crescente presenza internazionale – siamo stati invitati all'edizione 2009 del prestigioso Festival di Savonlinna in Finlandia ed in Giappone (dove nel 2007 abbiamo avuto ben 20.000 spettatori). Tale interesse è dimostrato dall’apporto degli sponsor. Dal 2007, inoltre, il Banco di Sicilia – oggi intero Unicredit Group - eroga 1.5 milioni di euro di contributi l’anno ed è entrato come socio privato nella fondazione. Per la riduzione dei costi è stata essenziale non solo la politica di co-produzione ma anche una serie di misure per rendere più efficiente il funzionamento interno del teatro: una nuova organizzazione del lavoro ed una banca dati semestrale hanno consentito di abolire gli orari straordinari; l’applicazione di appalti seguendo regole europee – e per le partite più importanti lanciati a tutti i potenziali fornitori dell’UE – ha permesso di dimezzare le spese per servizi esterni; anche la riduzione dei telefoni di servizio (da un centinaio ad una ventina) ha portato a una riduzione dei costi. Si sono ridotte sia le spese per personale dipendente sia per artisti, applicando la normativa sul lavoro e tenendo conto delle nuove condizioni di mercato internazionale, nonché di nuovi mercati dove individuare artisti di livello: alcune nostre “scoperte” sono oggi protagonisti assoluti dei maggiori teatri europei ed americani”.
Ha già influito sulla produzione?
“Si possono fare allestimenti a basso costo, come il “Lohengrin” che ha inaugurato la stagione 2009, ma di grande valore artistico come riconosciuto dalla stampa italiana ed estera. Dal 2003, il numero di rappresentazioni di opere e balletti è passato da 80 a 105 l’anno, quello di concerti da una dozzina a 35-40 l’anno, gli spettatori paganti sono aumentati da 80.000 a 105.000. Co-produciamo con i maggiori teatri italiani e stranieri e gli allestimenti creati “in casa” hanno un grande successo in altri teatri di tutto il mondo”.
Quindi, non pare necessario cambiare la normativa di base che regola le fondazioni lirico-sinfoniche.
“Non è necessario; preconizzare una rivoluzione per cambiare tutto significa gattopardescamente non voler mutare nulla. La normativa è solida ed offre opportunità, a chi sa utilizzarla. I contributi da soci privati alle fondazioni ammontano a circa 40 milioni di euro l’anno; quelli dei comuni a 55 milioni di euro l’anno. Vivendo di solo Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) si sarebbe gradualmente morti per mancanza di alimentazione. Indubbiamente, le regole devono essere applicate non aggirate e possono essere migliorate: per il riparto del Fus, si dovrebbe introdurre un metodo analogo a quello utilizzato, con esiti lusinghieri, per i Fondi strutturali europei: incentivare le fondazioni virtuose (con bilanci consuntivi in attivo) con una “premialità”, ossia uno stanziamento addizionale che permetta loro di migliorare ulteriormente la qualità dell’offerta nella stagione successiva e di converso, disincentivare i bilanci in perdita, con una riduzione dello stanziamento nell’esercizio seguente. Una proposta liberale e di mercato, diretta ad incoraggiare chi segue meglio le regole e porta a casa i risultati finanziari migliori, senza trascurare quelli artistici (anzi esaltandoli)”.
Come favorire l’ingresso in teatro di nuove generazioni?
“Il Massimo ha ampliato il proprio pubblico anche tramite un programma mirato ad avvicinare alla “musa bizzarra e altera”, l’opera lirica, i più giovani. Dal 2006, è in atto infatti un programma “La Scuola va al Massimo” che coinvolge circa 160 scuole di Palermo e dell’hinterland e che porta in teatro per una decina di recite l’anno complessivamente circa 25.000 bambini e ragazzi introducendoli a spettacoli che possano incuriosirli e divertirli. Dal 2008 abbiamo aperto un turno di abbonamento esclusivamente dedicato agli studenti e che da due anni è tutto esaurito. È uno strumento importante perché un prodotto nato e sviluppato in Italia (e che nell’Ottocento ha avuto nel nostro Paese il suo maggior successo commerciale, oltre che artistico) non impoverisca; cerchiamo così di creare quel “sottostante” di cultura musicale che rende possibile il fiorire della lirica in altri Paesi
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