Leoš Janáček aveva da poco superato i 70 anni quando si accinse a realizzare ciò che trent’anni prima aveva tentato, senza esito, Giacomo Puccini: trasformare in un dramma in musica il romanzo autobiografico “Memorie da una casa di morti” di Fëdor Michajlović Dostoeskij in cui raccontava i quattro anni di lavori forzati inflittigli (quando aveva dai 28 ai 32 anni d’età) dalla magistratura zarista in seguito all’accusa di avere partecipato ad un complotto eversivo. Tra delinquenti comuni macchiatisi dei peggiori delitti, “ho avuto modo – ha scritto Dostoeskij – di conoscere gli uomini”, in breve di trovare un immenso materiale per quella che sarebbe diventata la tavolozza di gran parte della sua narrativa.
Difficile dire cosa avvicinò Janáček all’idea di scrivere un libretto e comporre un’opera di 90 minuti tratta da un testo essenzialmente privo di uno sviluppo drammatico: il pretesto è l’imprigionamento di un intellettuale e la sua progressiva comprensione di un mondo “di morti” (quasi tutti ergastolani in un carcere sotterraneo da cui escono unicamente per i lavori forzati). I detenuti raccontano le proprie vicende, quasi sempre trucide poiché relative a delitti efferati; anche nelle più brutali, però, traspare quella che Janáček, in un appunto trovato dopo la sua morte, chiama “la scintilla di Dio”.
Janáček stava uscendo dalla complessa vicenda extra-coniugale, con la giovane Kamila Strösslová, che plasma la sensualità dei suoi lavori precedenti (tutti concepiti dopo il sessantesimo compleanno). Moravo doveva essere politicamente appagato dalla istituzione, nel 1919, della Repubblica Cecoslovacca dato che dalla nascita nel 1854, aveva sofferto il giogo austro-ungarico (tanto che faceva parte del partito slavo, filo-russo). La Moravia era pacifica e relativamente ricca. Eppure la sua ultima opera – come notò nel 1981 Milan Kundera in un articolo sulla Patria lontana occupata dai russi – è preveggente: “più contemporaneo non potrebbe essere” poiché descrive i gulag ed i lager ed utilizza un linguaggio musicale in anticipo di alcuni decenni – una semantica che intende cogliere il nesso tra note e psicologia ed in cui il linguaggio crudo, e spesso volgare, dei carcerati viene presentato in una struttura in 13 episodi ciascuno diviso in sezioni tematiche, ciascuna costruita su iterazioni di motivi semplici e con una tonalità fissa. Ciò accentua il carattere al tempo stesso cupo, e crudo del lavoro, ma anche, come ha scritto il musicologo John Tyrrell, l’immensa “pietas” dell’opera.
Il Teatro Massimo di Palermo, risanato nei conti dopo una fase di grandi difficoltà, ha avuto il coraggio di presentarla prima d’altri (pare che La Scala lo abbia in programma per il 2010) in quella che dal 1974 è ritenuta l’edizione critica più vicina alle intenzioni dell’autore (che morì prima di suggellare la terza stesura della partitura). In Italia, l’opera era stata messa in scena a Perugia nel 1963 ed a Milano nel 1968 ma in versioni manipolate da allievi di Janáček. Il Massimo ha fatto uno sforzo produttivo importante: il lavoro non ha veri e propri protagonisti ma ben 23 personaggi – ciascuno con caratterizzazioni difficili da interpretare e da cantare; le voci sono unicamente maschili (tranne un breve intervento di un soprano nel ruolo di una prostituta ammessa nel carcere, in occasione della Pasqua, per soddisfare esigenze dei prigionieri); la scrittura vocale ed orchestrale è estremamente complessa; i tre atti vengono rappresentati senza intervallo proprio per accentuare il senso di claustrofobia (ed il simbolo finale di libertà : il volo di un’aquila ferita e curata dai carcerati). Il Massimo co-produce il lavoro con la Welsh National Opera (che lo ha in repertorio): la regia è affidata a David Pountney (specialista del teatro in musica di Janáček) e la direzione musicale a Gabriele Ferro che ha cesellato la partitura. Alla “prima” c’erano alcune file vuote: lo scotto che si paga per l’innovazione, ma il passaparola funziona per le repliche.
Resta l’interrogativo di Kundera: come mai nella seconda metà degli Anni Venti in una Moravia lieta della propria indipendenza ed apparentemente serena, un vecchio borghese professore di conservatorio che aveva 50 anni quando aveva composto a prima delle sue sette opere (destinate a trasformare il teatro in musica del Novecento) riuscì ad anticipare i lager ed i gulag di quello che, in un bel libro, Luigi Fenizi ha correttamente chiamato “il secolo crudele”?
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