Non so se sono cretini –come suggerito nel “Dom” del 18 ottobre- quei parrucconi dell’Accademia di Svezia che hanno deciso di conferire il Premio Nobel per la Letteratura per il 2008 a Jean-Marie Gustave Le Clézio. Non ho competenze minime in materia di critica letteraria. Non posso prendere posizione a riguardo che in base a sensazioni. Sottolineo sensazioni; molto più fragili delle impressioni. Sono stato un avido lettori dei “romanzi”, per così dire, di J-M G. Le Clézio, di cui sono di pochi anni più giovane. Li ho letti quando (dai 25 ai 40 anni di età) vivevo negli Stati Uniti e per lavoro (in Banca Mondiale) visitavo ogni anno una mezza dozzina di Paesi in via di sviluppo (prima nel Medio Oriente, poi nell’Estremo Oriente ed infine soprattutto in Africa). In ufficio, la mia lingua di lavoro era l’inglese. In viaggio era quella del luogo dove andavo. A casa, parlavo francese, poiché mia moglie è borgognona; è naturale che i figli siano allevati nella lingua materna. J-M G. Le Clézio era, con Romain Gary e con Françoise Sagan uno degli autori che leggevo con maggiore frequenza sia nelle serate Washingtoniane sia soprattutto nei lunghi viaggi in aereo.
Tutti e tre rispecchiavano molto l’epoca (dalla fine degli Anni 60 a quella degli Anni 70) in cui viveva una generazione nomade quale quella a cui appartenevo – allora non si parlava ancora di “generazione Tuareg”, ma alcuni di noi lo erano già. Credo che pochi libri come “Chien Blanc” di Romain Gary sia riuscito a comprendere il Sessantotto (tanto sulle due sponde dell’Atlantico quanto sulla costa Usa sul Pacifico) ed ad ironizzarvi con un acume che è mancato nelle rievocazioni fatte nell’anno in corso. Analogamente, “Des Blues sur l’Âme” e “Le Lit Défait” di Françoise Sagan afferrano il cambiamento di ruoli tra generi (in corso in quegli anni) meglio di molta altra letteratura.
J-M G. Le Clézio spiccava su tutti per due motivi: il linguaggio ed il nomadismo. Il linguaggio è elegantissimo – sin dal suo primo libro “Le Procès Verbal” - ma al tempo stesso intraducibile poiché costruito su frammenti, spesso tematici, in continuo compattamento e ricompattamento (ci sono analogie con il linguaggio di Joyce). Come nella musica di Henze o di Janáček, la scrittura può essere apprezzata unicamente da chi riesce ad entrare in quello che, pur nella raffinata semplicità, è un puzzle in moto perpetuo. Il nomadismo (il senso continuo del viaggio per molti aspetti errabondo) è, quindi, nel lessico ancor prima che nelle parvenze di vicende che caratterizzano soprattutto il trittico scritto a cavallo tra la fine degli Anni 60 e l’inizio degli Anni 70 (Terra Amata, L’Extase Matérielle, Le Livre des Fuites) mentre i lavori più recenti hanno intrecci veri e propri.
Leggo che dopo averlo ignorato per decenni, grandi editori italiani si apprezzano a lanciarlo sul nostro mercato. Faccio loro i migliori auguri. Credo, però, che gli esiti commerciali li deluderanno : Le Clézio non si riesce a tradurre e, soprattutto, la generazione Tuareg di oggi ha poco a nulla a che spartire con quella di circa 40 anni fa.
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