Oggi 7 ottobre, alle 16 ora italiana, con la presentazione di un rapporto molto spinoso – quello sulle prospettive della finanza mondiale- iniziano i lavori preparatori all’assemblea del Fondo Monetario e della Banca Mondiale (un evento che occupa, formalmente poco più di una giornata della diecina di giorni in cui un paio di migliaia di delegati affollano la capitale degli Stati Uniti). Si parlerà, indubbiamente, di “subprime”, ma anche di altri prodotti derivati. Un paio di settimane fa “Libero Mercato” ha ricordato che i derivati vennero inventati in Mesopotamia alcune centinaia di anni prima della fondazione dell’Impero Romano. Tutti (o quasi) sanno cosa sono i mutui edilizi a clienti “subprime” (ossia a uomini e donne fortemente a rischio in quanto privi delle minime garanzie personali –un lavoro con uno stipendio adeguato, una professione con parcelle redditizie- , oltre che di garanzie reali (quali una fideiussione sostenuta da titoli di qualità)- da fare pensare che difficilmente potranno rimborsare debito ed interessi. Anche tra gli attenti lettori di “Libero Mercato” pochi hanno probabilmente contezza di quali sono i derivati che vanno per la maggiore.
Dopo quelli basati su varie forme di “impacchettamento” di mutui “subprime” con titoli all’apparenza più consistenti e meno rischiosi, una prima tipologia (in termini di diffusione) sono i derivati il cui valore sottostante sono le condizioni metereologiche. Non siamo in un mercato finanziario dominato da astrologi da “Ladro di Baghdad” ed altri film esotici or in canale televisivo specializzato in giochi ad indovinello. Non siano neanche ad una rilettura de “La Coscienza di Zeno” di Italo Svevo (che si arricchì alla Borsa merci di Trieste scommettendo sulle condizioni del tempo nell’altopiano pugliese – fertile di granaglie). Nel fascicolo datato Novembre 2008 (ma distribuito in anticipo per intercettare nuovi abbonati tra i delegati a Washington) dell’”American Journal of Agricultutal Economics” , si legge, a pp. 979-993, un dotto saggio di Wei Xu, Martin Odening e Olivier Musshoff (ha coordinato il tutto una roccaforte del pensiero liberale, la Università von Humbolt di Berlino) sui “prezzi d’indifferenza dei derivati ancorati alle condizioni atmosferiche”. Chi viaggia tra le equazioni alle differenze finite ed i grafici del saggio – i tre sono autori tra le migliori menti in materia di Cina, Usa e Germania – giunge alla conclusione che per attutire il rischio occorre coprirsi con strumenti assicurativi appropriati. I nostri scrivono anche, a tutto tondo, che si tratta di merce rara sul mercato. Ciò dovrebbe convincere i temerari ad includere, nel proprio portafoglio, solo una manciata di tali derivati. Chi lo spiega a quanti si rivolgono al “borsino” in banca od al promotore finanziario con l’ufficio sottocasa?
Nello stesso fascicolo della colta rivista (disponibile nelle biblioteche di tutte le buone università italiane dove si insegna economia agraria), un vero e proprio team di economisti americani spiega (a pp. 962-978) il “pricing” di derivati basati sulla crescita e diffusione di insetti, in particolare di quelli che decimano le colture e ne dimezzano le rese (se non peggio) .Le pagine del “Journal” olezzano profumo di stalloni e di stivali di cow boys. Il saggio( ricco di stastiche e di algorirmi) sottolinea come tali derivati siano uno strumento innovativo, ma utilissimo, di “gestione dei raccolti” , illustra come esista un fiorente mercato “over-the-counter”, e propone un modello di “pricing” per dargli maggiore trasparenza. Quanti di questi finiscono impacchettati con un po’ di “subprime”, qualche “Mengozzi bond” e magari un giardinetto di titoli di Stato per fare sentire bene chi le acquista?
Dagli antipodi giunge un’interessante analisi dei mercati di options e warrants in Austrialia. L’autrice è Laurie Prather, che la pubblica nell’autorevole “Journal of Economics and Finance”. Lo studio è affascinante in quanto mette in rilievo ciò-che-tutti-sanno-ma-nessuno-ha-voglia-di-dire: sono due mercati paralleli in quanto, in sostanza, l’uno è il doppione dell’altro. Le differenze di clientela per queste tipologie abbastanza standard di derivati sono “puramente idiosincratiche”. Curiosamente il mercato delle options è più vasto di quello dei “warrants”, nonostante i costi (di gestione, d’interscambio) dei secondi sia notevolmente inferiori a quelli delle prime. Altra indicazione che chi opera in derivati spesso non sa quello che fa.
Spiragli incoraggianti vengono dalla Francia e dall’India. Nell’Impero, per così dire, di Sarkò i derivati trattati da analfabeti in materia finanziaria hanno fatto danni (di cui soltanto una parte è emersa in superficie) . L’Università di Grenoble ha predisposto un utile manuale (in stampa; sarà in libreria a fine 2008) in cui si spiegano (non proprio al volto) metodi e tecniche (quali le “Simulazioni di Montecarlo”) per dare una valorizzazione a titoli “esotici”. Lo hanno curato due francesi (A. Bensoussan e Ph. Ciarlet) ed un cinese (Qiang Zhang). Non è roba per principianti. Si deve, però, ipotizzare che chi opera nel comparto qualche esame di analisi matematica e di statistica stocastica lo abbia superato.
Un team della Sri Sathay Sai University ha pubblicato nel fascicolo di settembre dell’Icfai University Journal of Financial Risk Management un’interessante analisi empirica delle strategie difensive sull’azionario dell’India nel mercato delle options; in termini di efficienza ed efficacia, le più valide sembrano essere quelle basate du “put options” a scadenza mensile. Il derivato (put optino) è relativamente semplice, ma la strategia raffinata.
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